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Rutelli Francesco - 7 aprile 1978
L'ANTAGONISTA RADICALE: (21) Il metodo non-violento radicale
di Francesco Rutelli

SOMMARIO: Gli atti del convegno sullo statuto e sull'esperienza del Parito radicale che si è svolto a Roma all'Hotel Parco dei Principi nei giorni 5, 6 e 7 aprile 1978.

("L'ANTAGONISTA RADICALE" - La teoria e la prassi del partito nuovo, socialista e libertario; e lo statuto e l'esperienza del PR nella società e nelle istituzioni - Convegno del consiglio federativo del Partito Radicale - Roma, aprile 1978)

Francesco Rutelli

IL METODO NONVIOLENTO RADICALE

Quindici anni di politica radicale: se se ne dovessero isolare le idee-guida, le caratterizzanti fondamentali saremmo in molti, probabilmente, ad indicarne due: la pratica dell'organizzazione libertaria, così come è indicata dallo Statuto, e la scelta nonviolenta.

Un partito che ha spesso teorizzato sulla prassi che metteva in atto, certo fondando le sue analisi, le sue metodologie e le sue tattiche o strategie politiche sulla singolare omogeneità culturale e, per molti anni, esistenziale della sua classe dirigente. Si è cominciato a sistematizzare, dentro e fuori il Partito, sulla sua storia e la sua funzione, da appena un paio di anni, all'indomani di quella che è stata considerata la più difficile e decisiva, tra le molte altre, delle prove di sopravvivenza-rilancio che esso abbia affrontato: le elezioni politiche del 1976.

La necessità di ``alzare il tiro'' della lotta nonviolenta si è fatta urgente nel momento in cui il partito si è trovato ad occupare un pressoché solitario ruolo di opposizione a sinistra, in uno scenario politico dominato dalla violenza, quella dello smantellamento dello Stato di diritto operata dai partiti costituiti in regime, e quella dell'opposizione ufficiale di questo regime: i terroristi.

Come nasce la scelta politica nonviolenta radicale, già sul finire degli anni '50? Ascoltiamo Marco Pannella:

``Ci dicemmo, allora che non era affatto detto e provato che dovevamo rassegnarci necessariamente a ritenere impossibile nel ``politico'' quel che nel ``privato'' tutti sentivamo come giusto e speravamo. Rifiutammo il ``sarebbe bello, ma la vita (sociale) è un'altra cosa''; la pace? l'amore? l'amicizia? la giustizia? la tolleranza? la democrazia? il socialismo? vincere senza far male allo sconfitto?

Non uccidere e non morire, nemmeno interiormente? Crescere e non ridursi-a? Creare e non consumare? Volere la pace preparando la pace e non la guerra? Prefigurare ogni momento, malgrado fallimenti, errori, inadeguatezze, sconforti, anziché smentire, la sostanza delle nostre speranze?

Dar corpo alla libertà ed alla liberazione di tutti, piuttosto che puntare sul privilegio e sulla sopraffazione del più violento e ``ricco''? Perché tutto questo doveva essere politicamente impossibile? Perché la ``politica'' doveva essere altro e peggio di quel che è buono e felice nel personale?

Cominciammo allora ad organizzarci in partito letteralmente e storicamente "radicale", questo ``partito'', questo modo di essere e costituirsi in ``parte'' del tutto sociale e politico e personale. Ma in questa radicalità nessuna è centrale, necessaria, insuperabile quanto quella nonviolenta (... ).''

Prefigurare, quindi, il deperimento del potere, anziché programmarne la conquista.

Taluno afferma che la nonviolenza sarebbe ``dottrina dei mezzi'' e il socialismo ``dottrina dei fini''. Credo sia più giusto definire la nonviolenza come condizione necessaria per un socialismo basato sull'autodeterminazione dei fini e l'autogestione dei mezzi, sia nella sua fase di progettazione che in quella di gestione.

SI tratta, insomma, di quello che spesso ripetiamo in queste settimane nelle quali la ``violenza giusta del proletariato armato'' ricorre spesso alle nostre stesse analisi per assassinare, assassinando vite umane, le nostre speranze di democrazia e di alternativa: se per un ``violento'' ogni mezzo è giustificato dal fine, per il nonviolento il fine è prefigurato necessariamente dai mezzi.

La scelta nonviolenta, come sappiamo, è altro che il semplice imperativo morale del rifiuto della violenza: è scelta attiva, di resistenza.

Possiamo dire, credo, che il fondamento della nonviolenza politica sia nel principio della disobbedienza civile (cioè nella sottrazione del consenso e, in prospettiva, del potere a chi lo esercita contro gli interessi del popolo); la sua potenzialità rivoluzionaria nella sua accettazione consapevole da parte di grandi masse; la condizione della sua riuscita nella possibilità di far conoscere alla gente, attraverso l'informazione, le ragioni e gli obiettivi della lotta.

E qui si apre l'analisi della strategia nonviolenta radicale, data dall'identificazione degli obiettivi politici, dalla capacità di coinvolgere e rendere protagoniste grandi maggioranze popolari, dalla necessità primaria di ottenere la correttezza e

la completezza dell'informazione.

Sono quindici anni di iniziative politiche nonviolente che sono già stati ripercorsi: relazioni intere sarebbero necessarie per ciascuna delle forme di lotta, dal digiuno all'obiezione di coscienza, dalle deliberate violazioni della legalità alle autodenunce, alle azioni dirette di valore simbolico e di protesta. Fondamentale, in questa problematica, rimane il rapporto tra il nonviolento e lo stato di diritto. Giova qui ricordare, di nuovo con Pannella, che ``l'uso scientifico della legalità borghese ne fa esplodere la contraddizione fondamentale: quella fra idealità che solo, ormai, il nuovo ''terzo stato'' proletario o proletarizzato può accogliere e affermare, e il potere che i partiti borghesi e interclassisti esercitano da rinnegati, nella direzione opposta, per serbarlo''.

Le strade che si intraprendono sono dunque quella del pubblico rifiuto di una legalità cui non si riconosce alcuna legittimità, assumendo come motivo di affermazione e di forza, per mezzo della partecipazione dell'opinione pubblica, le conseguenze giudiziarie e penali che ne derivino; oppure quella della messa in atto di strumenti di pressione nei confronti del potere perché esso rispetti, assumendosene le contraddizioni, la sua stessa legalità, sia essa patentemente assurda, sia che si trovi ad essere divenuta incompatibile con il potere stesso.

E le battaglie sul divorzio, l'obiezione di coscienza, l'aborto, l'antimilitarismo, i diritti delle minoranze, le libertà di espressione, l'anticlericalismo, per la liberazione sessuale, l'ecologia, l'antinucleare, l'informazione pubblica e via via sino alla presenza parlamentare ed ai referendum (con il loro straordinario coinvolgimento di migliaia di cittadini-militanti, anche per lo svolgimento, efficiente perché autodisciplinato, libertario e quindi liberatorio di adempimenti che nella politica ``ufficiale'' si definirebbero da funzionariato burocratico) hanno marcato in modo impensabile, secondo le concezioni tradizionali della politica, questi quindici anni di vita italiana.

Ed hanno marcato anche il corpo collettivo del partito. Che oggi è composto, nei suoi vecchi e meno vecchi militanti, da gente che è stata in galera o sotto processo, che si è vista respingere come omosessuale dichiarata, che ha il fisico danneggiato dai digiuni.

Si è costituita così una classe politica di cittadini, resistenti e disobbedienti, che non è azzardato paragonare, per il modo in cui ha scelto di dar corpo alle sue idee ed ai suoi progetti di liberazione, a quella dei pochi antifascisti che, durante il ventennio, avevano deciso di ``non mollare''.

La chiave di volta odierna, per il partito della resistenza nonviolenta, è probabilmente quella di sempre: fornire alla gente gli strumenti perché questa opposizione sia realmente incisiva e di massa. Il nucleo della nonviolenza attiva radicale ha avuto, infatti, storicamente, una consistenza variabile: dagli scioperi della fame di singoli esponenti (ma sempre sostenuti dal corpo collettivo del partito) alle iniziative illegali di massa (come le migliaia di autodenunce per aborto del 1975); l'area del consenso è stata invece sempre composta di grandi minoranze o grandi maggioranze popolari.

Oggi, di fronte alla scelta di illegalità operata dalla consociazione dei partiti (attraverso la grave menomazione, se non la soppressione, della facoltà di esercizio dei referendum, la costante violazione dei regolamenti parlamentari, ecc., si realizza una sostanziale dedizione degli organi dello Stato, anziché alla legge, alle esigenze e le strategie dei partiti di regime) si sarebbe tentati di dare per spacciata la strategia nonviolenta: si potrebbe sostenere che in Italia, dove non si rispettano più le regole del gioco, la nonviolenza sia divenuta impraticabile, dato che essa trova un terreno propizio solo là dove sono garantiti i fondamenti dello stato di diritto (richiamandosi ad esempio alla stessa India gandhiana, condotta da un leader educato alla democrazia occidentale ed operante contro un apparato statale rigidamente osservante delle leggi) ma sarà interessante analizzare gli sviluppi di grandi iniziative nonviolente di massa sorte in paesi lontani dal nostro, ed osservare ad esempio l'effetto di

rompente ottenuto alcuni mesi fa, nella Bolivia del dittatore Banzer, dallo sciopero della fame per l'amnistia ed i diritti civili condotto da quasi duemila persone: gli studenti sdraiati nelle università, i preti e i fedeli nelle chiese, i contadini nei paesi, di fronte al loro palazzo del comune. Arresti e repressione, durante quindici giorni, hanno solo aumentato la coesione della gente; il regime, alla fine, ha dovuto cedere. E il valore di episodi di questo genere, che per ora rappresentano solo un accenno di inversione di tendenza, come può non accrescersi se messo a confronto con le istigazioni alle svolte autoritarie operate nei confronti dei sistemi di potere da parte delle opposizioni elitarie che scelgono la via della disperazione e della violenza!

L'effettiva pratica della nonviolenza non è certo estranea, storicamente, alle masse popolari, come ci è dato di considerare ad una rilettura di tradizioni e forme di sciopero, alla non-collaborazione. A questo proposito osserva Norberto Bobbio: ``A differenza di Gandhi i movimenti marxisti hanno praticato la nonviolenza ma non l'hanno teorizzata: al contrario essi hanno spesso teorizzato la necessità della violenza, usata per lo più in forma selvaggia dai loro avversari (che naturalmente non hanno avuto bisogno di teorizzarla)''. Troppo a lungo il leninismo, così incompatibile con le concezioni libertarie ed ecogestionerie della nonviolenza, ha avuto il monopolio del progressismo...

Quella che definivamo come l'esigenza di ``alzare il tiro'' della nonviolenza, del continuo affinamento tecnico-politico collettivo delle forme di lotta, oggi è resa indispensabile dalla crescente sofisticazione degli apparati repressivi e di controllo sociale operata dal potere.

Come i digiunatori hanno dovuto adeguare tempi e modi della loro lotta (l'effetto di pubblicizzazione e drammatizzazione dei digiuni di Gandhi, ad esempio, poteva essere ottenuto, nella lentezza delle comunicazioni dell'India di allora, solo con lunghi scioperi della fame: non prima di alcune settimane, infatti, la lotta poteva essere recepita ed estesa nelle regioni più lontane. Oggi la trasmissione dei messaggi può essere immediata, e sempre più i digiunatori si vedono costretti ad adottare forme più drammatiche di digiuni, quali quello ad acqua o quello assoluto; l'effetto-pericolo, che in questa forma estrema della lotta nonviolenta è determinante per acquisire o ripristinare diritti urgenti e fondamentali per il bene comune, si ottiene ormai solo con digiuni di questo tipo, anziché con il digiuno propriamente detto, per il quale in alcuni casi è dimostrata la sopravvivenza di chi lo mette in atto sino quasi di cento giorni), così si rende necessario un grande salto di qualità, ad esempio nella gestione

delle azioni dirette e delle manifestazioni di massa. Dobbiamo innanzitutto attenderci sempre più pesanti e diretti tentativi polizieschi di infiltrazione e provocazione, secondo una costante ormai dimostrata nella storia dei movimenti nonviolenti internazionali, non appena questi si sono rivelati interlocutori pericolosi per i regimi cui si contrapponnevano. L'assassinio dei leaders è un evento che ci è dato di poter evitare in un solo modo: riducendo al massimo l'appetibilità dell'omicidio di singole persone per mezzo della moltiplicazione dei centri direzionali del movimento, e cioè con la crescita ed una maggiore assunzione di effettiva responsabilità dirigente da parte del maggior numero possibile di persone. Un altro grave pericolo è dato dall'esplosione di incidenti nel corso di manifestazioni di massa, dei quali il potere si serve per distruggere l'immagine del movimento di opposizione nonviolenta.

Possiamo citare alcuni casi: i tragici fatti di Kimberley e Port Elisabeth nel 1952, quando il grande movimento antirazziale condotto da Albert Luthuli fu affossato in modo irreversibile dalla presenza assassina di agenti provocatori del regime razzista sudafricano. Oppure, così tremendamente vicina e presente, con dolore in ciascuno di noi la giornata del 12 maggio 1977 a piazza Navona.

lo credo che la straordinaria compattezza delle migliaia e migliaia di romani nel mantenere un atteggiamento nonviolento nei confronti dell'attuazione di quel disegno assassino sia stata la condizione determinante per sconfiggerlo, alla fine, e malgrado la tentata strage e l'omicidio di Giorgiana Masi: ``Il tempo sarà galantuomo'', avevamo detto al ministro di polizia; col passare del tempo, l'emergere di nuove prove ed elementi, il definirsi della situazione politica, possiamo dire che l'immagine del Partito Radicale è uscita, nella valutazione della gente, rafforzata anziché indebolita o distrutta, e la prova più difficile per i nonviolenti, in tutti questi anni, superata alla distanza. Ma la nuova situazione richiede attenzione e tensione crescenti: non per nulla le manifestazioni nonviolente del ``Natale antimilitarista'' alla Maddalena e quella per la difesa dei referendum a piazza San Giovanni sono state rinviate per evitare altissimi rischi di provocazioni ed incidenti.

Per l'analisi delle metodologie delle manifestazioni nonviolente di massa, esempi di preparazione e gestione collettiva assai interessanti ci vengono dagli Stati Uniti, dove i movimenti pacifisti ed antinucleari sempre più spesso conducono dei trainings per la preparazione e la conoscenza reciproca tra i partecipanti, utili per predisporsi ad eventuali prove di forza senza dover delegare le decisioni a leaders più o meno improvvisati, e per evitare le infiltrazioni di provocatori.

L'esigenza di allargare e diversificare il fronte delle lotte nonviolente viene affrontata, sia all'estero che in Italia, con risultati che si cominciano a vedere: militanti ecologisti che rubano e rendono pubblici documenti segreti che dimostrano i pericoli, per le popolazioni, delle centrali nucleari; boicottaggi e nuovi metodi di disobbedienza fiscale; arresti di massa (come nel caso dei 1414 militanti antinucleari protagonisti dell'occupazione della centrale di Seabrook negli USA, a distanza di un anno non ancora processati...); esempi di blocco dei centri direzionali istituzionali o dell'informazione per mezzo di azioni diversificate quali la paralisi dei telefoni, l'ostruzione fisica ecc.

Il problema, per i nonviolenti, non è quello di compiere dei gesti, pur significativi ed importanti in sé: il problema è di garantire gli spazi della democrazia e di salvaguardare concretamente il diritto ed i diritti civili, tra i quali sempre più evidentemente si pone al primo posto, di fronte al criminale sviluppo della follia ecocida, militare e nucleare, il diritto a vivere. Ed occorre dimostrare che la via per battere questo SIM, che è lo ``Stato imperialistico della Morte'' non è quella dell'assassinio e del terrore, ma quella della democrazia, della autogestione, del la nonviolenza.

Una considerazione vorrei poi fare a proposito della conoscenza che si è avuta e si ha all'estero circa la scelta nonviolenta del Partito Radicale. Non è difficile rendersi conto dell'assoluta singolarità, e del valore, di questa esperienza politica nel panorama internazionale; ma la divulgazione che se ne è data ha risentito nella gran maggioranza dei casi della scarsità di informazioni, ed informazioni corrette circolanti nel nostro paese, dove non si sono volute e potute scindere le forme pacifiche delle iniziative radicali dal loro portato politico di rottura e di alternativa. Il ruolo dell'opposizione radicale è oggi troppo evidente, pur attraverso la feroce censura del regime, perché un sempre maggior numero di giornalisti ed osservatori politici stranieri possano non rendersene conto, ma fino a pochi anni fa si verificava l'interessante fenomeno per cui se si doveva parlare della nonviolenza nel nostro paese si finiva per citare, negli Stati Uniti e in Scandinavia come pure nelle ``democrazie popolari

'', il caso di Danilo Dolci e delle sue lotte contro la mafia e la miseria nel Mezzogiorno; di un'esperienza, cioè, che pur straordinaria e validissima riveste un valore marginale e circoscritto, nel panorama delle lotte contro il consolidamento del regime della Democrazia Cristiana. Oppure, se i veicoli dell'informazione erano quelli in auge della ``nuova sinistra'', per alcuni anni, ed anche nelle più ``radicali'' delle riviste francesi o tedesche o americane, si è citata tra le massime esperienze internazionali della disobbedienza civile di massa, come quella di gran lunga più importante e più efficace nel nostro paese, la vicenda delle autoriduzioni delle bollette, che fu in realtà, come molti ricorderanno, un'iniziativa rapidamente ed in gran parte fallita, e non assolutamente capace, priva com'era di finalità in positivo, di mettere in crisi gli apparati di regime. E' per ragioni evidenti che queste diverse categorie di osservatori del divorzio, dell'aborto, dell'obiezione di coscienza e di tutto il re

sto ne parlavano ben poco o adatto.

Io credo che questo sia il momento per il partito nonviolento dell'autogestione socialista e libertaria, di costruire le premesse per l'"alternativa" nonviolenta, oppure di rassegnarsi ad essere "avanguardia nonviolenta", e quindi ad essere sconfitto e scomparire.

A ciascun gruppo e militante spetta di creare ed estendere un tessuto di resistenza, con nuove forme di lotta suscettibili di darci una capacità contrattuale più forte nei confronti del regime, e nuovi terreni di lotta, anche mai praticati in passato, capaci di avvicinare e coinvolgere nuove aree di consenso; di far aumentare la forza sempre più insostituibile, di fronte alle carenze ideali e di prassi della sinistra, delle lotte per i diritti civili, e con queste gli anticorpi di democrazia della disobbedienza, della tolleranza, del dialogo.

Della resistenza nonviolenta fa certamente parte anche quella presenza e quella contrapposizione istituzionale che siamo riusciti a conquistare: Parlamento e quel che resta e si può strappare dei referendum. Decisive, infine, sono le lotte che sapremo imporre per assicurare al paese in funzionamento accettabile degli organi di informazione. lo credo che si possa affermare che il futuro appartiene alla nonviolenza politica. Altrimenti, se saremo sconfitti, sarà difficile costruire, ma anche immaginare il futuro.

 
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