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Zeno Vincenzo - 1 maggio 1978
(2)"Caratteri originali della organizzazione e della iniziativa del partito radicale e dei movimenti federati nella lotta politica italiana (1959-1976)"
Tesi di laurea in Storia dei partiti e movimenti politici

di Vincenzo Zeno Zancovich

CAPITOLO II

SOMMARIO: Nel capitolo secondo, il saggio prende in considerazione sopratutto la problematica relativa alla costruzione del "partito nuovo", la "teoria e la prassi" messe in atto dalla formazione al suo presentarsi sulla scena politica. A determinare le sue scelte, e dunque il suo cammino, fu il confluire di una serie di fattori apparentemente negativi (assenza di strutture organizzative, mancanza di iscritti, assoluta carenza di finanziamenti esterni, nessun insediamento sociale o istituzionale, ecc.) nonché le condizioni stesse della vita politica in quel momento, condizioni che imponevano drastiche, rigorose scelte di rinnovamento (predominanza di due partiti come il PCI e la DC che non potevano rappresentare, per diverse ragioni, un modello da seguire, scollamento tra "società civile" e "società politica", abnorme crescita delle pratiche di "sottogoverno" e della cosidetta "Costituzione materiale", generale disaffezione verso la politica, ecc.).

Successivamente, l'a. dà conto dello stato del dibattito sulla cosidetta forma-partito come si era venuto in quegli anni articolando nel paese: vengono presentate riflessioni e proposte di varia origine, dalle analisi di M. D'Antonio e Maranini ai tentativi di soluzione abbozzati in diverse sedi, il convegno promosso nel 1965 dal PRI o sulla rivista "Tempi Moderni", ecc. In definitiva, secondo l'a., a fronte di un dibattito pur nutrito dalle migliori teste e sulle migliori fonti, quel che mancava in quegli anni nel paese era la capacità di saldare "la frattura fra piano del pensiero e quello dell'azione, fra teoria e prassi".

(UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI ROMA, FACOLTA' DI SCIENZE POLITICHE, tesi di laurea di Vincenzo Zeno Zancovich, RELATORE: Prof. Carlo Vallauri, Anno Accademico 1977-1978)

Dei numerosi e assai diversi fra loro elementi originali caratterizzanti i `nuovi' radicali che sono stati elencati nelle ultime pagine del capitolo precedente, il presente studio prenderà in esame soprattutto uno, l'ultimo: la riflessione sulla crisi del `vecchio' PR, sulla natura dei partiti, sulla necessità di un "partito nuovo". Non che gli altri elementi siano meno importanti, anzi; ma la strategia e le singole iniziative politiche del partito radicale sono state oggetto di precedenti (sia pure poco numerosi) studi e sono, in qualche modo, il più delle volte molto schematicamente, riuscite a filtrare attraverso i mas-media e ad essere conosciute da un consistente numero di cittadini. Quella può essere definita la "teoria e la prassi del partito" è rimasta invece fino ad oggi sconosciuta non solo al corpo politico, agli studiosi di storia e scienza politica, ma addirittura alla fascia più ampia degli stessi simpatizzanti radicali.

Non si pretende con questo studio di colmare una lacuna così vasta; ma confrontando quanto esiste sull'argomento con gli studi più generali di scienza e sociologia politica e proponendo alcune "tesi" di interpretazione si spera di muovere qualche passo in questa direzione.

"Non abbiamo soluzioni già pronte per proseguire. Per ora si tratta di discutere le tesi e le proposte politiche intorno a cui abbiamo lavorato per un anno, precisandole politicamente; di misurare la disponibilità di ciascuno per il lavoro comune; di trovare quindi nuove forme organizzative atte a sviluppare i contenuti di questa linea politica" scriveva `Sinistra Radicale' nell'ottobre del '62 (1) in prima pagina sotto il significativo titolo di "Che fare?". Era un invito a "una ridefinizione politica di ciò che dovesse significare in quel contesto `fare' davvero (oltre che `essere') per i liberali, di come cioè dovevano essere individuate forze e strutture di libertà contro quelle della non-libertà, quali soggetti storici potevano per le loro condizioni materiali assolvere un ruolo di rinnovamento e quali istituzioni del potere dovevano essere individuate come pericoli per la democrazia e quindi essere combattute" (2).

Teoricamente, i radicali, precisati la strategia e gli obiettivi, erano liberi di scegliere qualsiasi forma organizzativa: potevano costituire un movimento sul tipo appena fondato da E. Rossi e L. Piccardi, il `Movimento Salvemini'; potevano, come sono spesso tentati i gruppi di estrema minoranza, indirizzarsi verso il modello efficientista-`centralista democratico' del PCI o del PSI morandiano.

Nei fatti, però, essi erano condizionati da una serie di elementi che, favorendo certi sviluppi ed ostacolandone altri, furono decisivi nella scelta della strada da seguire.

Questi elementi erano:

1) l'assenza di qualsiasi struttura organizzativa, persino di una sede.

2) la mancanza di iscritti, nel senso che fino a quando non fu formalmente aperta la campagna di tesseramento nel '67 gli iscritti coincidevano con i militanti e il gruppo dirigente: non più di una cinquantina di persone in tutta Italia, concentrate per la maggior parte a Roma.

3) un nucleo centrale fortemente omogeneo per età (concentrati per data di nascita fra il 1925 e il 1935) per cultura (`Il Mondo'), per esperienze (UGI).

4) nessun sostegno finanziario esterno, l'autofinanziamento è una necessità prima ancora che una teoria.

5) nessun organo di stampa, nemmeno fiancheggiatore e ostilità della stampa `laica'.

6) come conseguenza, nessuna possibilità di raggiungere l'opinione pubblica e di essere da questa sostenuti.

7) nessun insediamento sociale o istituzionale; la quasi totalità degli amministratori locali radicali era passata nelle file di altri partiti.

8) scarsi, se non inesistenti, contatti con le altre forze politiche tradizionali, in particolare PRI, PSDI, PSI, verso i quali si indirizzavano le preferenze degli esponenti di maggior rilievo del `vecchio' PR.

Già alla prima assemblea pubblica dopo la crisi nell'aprile del '65, vengono esposte le linee generali della teoria del partito e dello statuto che sarà approvato due anni dopo. Per comprendere meglio la genesi di questo prodotto non sarà inutile cercare di fornire un quadro della situazione in cui si muovevano i radicali, dal punto di vista dell'organizzazione dei partiti e della loro funzione nella società.

LA REALTA'

1) Il modello di organizzazione di partito è il PCI e la teoria del `centralismo democratico'. Se si osservano gli statuti (3) e le vicende interne degli altri partiti si ha conferma di ciò. L'unica reale differenza è l'esistenza di correnti più o meno organizzate.

2) La DC costituisce un insieme di elementi troppo specifici (la permanenza ininterrotta al governo da 15 anni senza realistiche prospettive di alternanza, l'appoggio della potente organizzazione ecclesiastica, un partito che è ancora soprattutto un comitato elettorale) per poter rappresentare un `modello'.

3) E' con l'avvento del centro-sinistra che appare in tutta evidenza lo scollamento fra `società civile' e `società politica'. Cioè, mentre prima era possibile attribuire questo fatto alla esclusione di grandi masse dall'area di governo, ora, con la presenza nella maggioranza di uno dei rappresentanti storici dei ceti popolari, ci si rende conto che non è sufficiente entrare nella `stanza dei bottoni' per risolvere questa discrasia. Anzi, essa è aggravata dai seguenti fenomeni indicati da Pizzorno (4):

a) il `sottogoverno' diventa un elemento simbolico della forza del partito e la competizione per i posti da assegnare sostituisce la competizione elettorale, stante la situazione di stallo (in 20 anni spostamenti di pochissimi punti da uno all'altro).

b) l'associazionismo viene canalizzato interamente dai partiti, altrimenti non ha possibilità di successo, perché, come osserva Pizzorno, "la cultura politica italiana non concepisce che sorgano e agiscano autonomamente movimenti di questo tipo (associazioni per le riforme ndr) perché ne assegna le funzioni ai partiti di massa" (5).

4) Il consolidamento della "Costituzione materiale degasperiana" contrapposta alla Costituzione formale del '47, sostanzialmente inapplicata (grazie anche alla teoria giuridica dei "fatti normativi costituzionali") (6) in quelle parti che avrebbero potuto comportare una redistribuzione del potere di decisione.

5) Il calo della partecipazione politica (tranne che nelle percentuali di votanti) rilevato dalla stampa d'opinione e specializzata (7).

6) I centri di potere si spostano dalle sedi costituzionali (parlamento, governo) per trasferirsi e concentrarsi sempre di più nei partiti che assumono una rilevanza reale mai vista fino ad allora e mai prevista dai costituenti. E' quello che comunemente e polemicamente viene definito "partitocrazia".

LE RIFLESSIONI E LE PROPOSTE

Non è che questa realtà e i processi in corso fossero del tutto sconosciuti. Se ne discuteva e si suggerivano rimedi.

Già nel 1958 in un saggio sulla "regolazione del partito politico" posta a introduzione della raccolta degli statuti dei partiti, Mario D'Antonio (8) avvertiva dell'urgente "necessità di considerare se gli attuali partiti, per l'organizzazione e i metodi che li caratterizzano, possano consentire una adeguata partecipazione dei cittadini alla gestione politica dello Stato" (9) "Poiché - continuava - il ciclo di determinazione della politica nazionale è tutto racchiuso nell'attività di partito e la `determinazione' si realizza con l'uso degli strumenti di partito, ne consegue che assumono rilevanza costituzionale proprio gli ordinamenti interni di partito, quelle norme statutarie, cioè, che regolano i modi di formazione della volontà di partito". "Per rendere operante la norma costituzionale (l'art. 49 della Costituzione ndr), per assicurare la piena tutela della potestà del cittadino di concorrere a determinare la politica nazionale, occorre perciò che il legislatore intervenga regolando con legge le procedur

e interne di partito, fissando i principi che assicurano il concorso dei cittadini iscritti in tutte le fasi di formazione della volontà dei partiti" (10). E osservando che "vi è un rapporto di stretta dipendenza tra l'inadeguatezza strutturale e funzionale dei partiti e il reale disinteresse dei cittadini verso la vita di partito" (11), elencava una serie di proposte (12):

1) distinzione fra associazioni e partiti

2) attribuzione ai secondi di funzioni costituzionali

3) loro registrazione presso la Corte Costituzionale

4) requisiti obbligatori per gli statuti avrebbero dovuto essere, fra gli altri, la tutela delle minoranze, la possibilità che 1/10 degli iscritti potessero chiedere un congresso straordinario, la pubblicità delle riunioni degli organi che designano candidati a cariche pubbliche

5) possibilità di ricorso dell'iscritto alla Corte Costituzionale contro i provvedimenti d'espulsione o la mancata convocazione del congresso

6) pubblicità delle fonti finanziarie

In quegli anni proposte simili venivano avanzate da più parti: il sen. Sturzo presentava (1958) un disegno di legge a palazzo Madama (13), Ignazio Silone elaborava uno "statuto della burocrazia di partito", Arturo Carlo Jemolo proponeva addirittura la presenza di un notaio ad ogni assemblea di partito (15).

Sulle colonne di `Tempi Moderni' si svolgeva (1962) un dibattito con numerosissimi interventi sul tema "partecipazione politica e partiti in Italia" (16). Espressivo dello stato d'animo in cui si trovava la dirigenza radicale che aveva appena lasciato il PR, questo pensiero di Mario Pannunzio: "Pensare che si possano cambiare le strutture dei partiti, nella situazione attuale, mi sembra illusorio oltre che inutile" (17).

Ad un convegno di studio del '63 sui rapporti fra Parlamento e partiti, uno degli intervenuti, il prof. Vincenzo Mazzei, oltre a proporre misure legislative simili a quelle sopra elencate, affermava: "Altri rimedi validi (contro la partitocrazia ndr) possono ritrovarsi perfino in istituti previsti dalla nostra Costituzione e mai attuai: voglio alludere, anzitutto, all'istituto del referendum, che, anche se non largamente applicato, rappresenta un formidabile argine al prepotere della segreteria di partito, stabilendo periodicamente un diretto contatto con i cittadini elettori sui problemi fondamentali della vita del paese" (18).

Nello stesso anno, il `Movimento Salvemini' organizzava un dibattito sul finanziamento dei partiti (problema appena affrontato al convegno democristiano di San Pellegrino) nel corso del quale, di fronte alle posizioni di Lelio Basso e Adolfo Battaglia, favorevoli al provvedimento, Ernesto Rossi e Arturo Carlo Jemolo si dichiaravano nettamente contrari, Vallauri lo collocava nel quadro di una disciplina generale del partito politico, mentre Capitini suggeriva un finanziamento indiretto, di base, attraverso la costituzione di `centri sociali' ogni mille abitanti. (18 bis)

Nel 1965 ad un convegno del PRI, una commissione presieduta dall'avv. Cifarelli esponeva le sue proposte per una disciplina giuridica dei partiti (19). Le principali erano:

1) scrutinio segreto nelle votazioni interne

2) pubblicità nelle designazioni a cariche pubbliche elettive

3) ogni lista congressuale non può candidare più di 2/3 degli eliggendi, come tutela delle minoranze

4) autoconvocazione degli organi e pubblicità dei loro atti

5) separazione fra gli organi deliberativi, esecutivi e di controllo

6) possibilità di annullamento delle sanzioni disciplinari dietro ricorso dell'iscritto al magistrato.

Dal punto di vista teorico le elaborazioni più interessanti e che maggiormente s'avvicinavano a quelle in corso nel Partito Radicale erano esposte da Roberto Guiducci e Fabrizio Onofri su `Tempi Moderni' in occasione della unificazione fra PSI e PSDI che tante illusioni (presto fugate) doveva creare fra i socialisti.

Scriveva Guiducci (20): "Lo scopo dominante di un partito socialista, nel mondo moderno, può e deve essere quello di ristabilire, nell'area della sua influenza, la saldatura fra società politica e società civile". "L'esplicazione di una funzione dirigente di un nuovo partito socialista... dovrebbe assumere il ruolo di `funzione di servizio' alle indicazioni democratiche provenienti dai movimenti associazionistici di indirizzo socialista a livello della società civile". "Sono necessarie - proseguiva - nuove norme statutarie che rispecchino le esigenze partecipative della maggioranza di quella parte della società civile che vede nel socialismo il suo unico, possibile termine di riferimento". "Una concezione socialista... Non può dunque passare che attraverso una rivalutazione delle funzioni della società civile, come luogo delle forme moderne di autogoverno". E concludeva: "La possibilità di disporre delle forze necessarie per attuare la politica di riforme di alternativa, nei nuovi modi che il socialismo ha i

dentificato, è condizionata, in larga misura, dalla capacità del partito socialista di riformare coraggiosamente... anche se stesso".

Sullo stesso piano gli rispondeva Onofri (21): "Un partito politico è, lo voglia o no, uno specchio abbastanza fedele del tipo di stato che esso rappresenta in nuce o tende a istituire". "Ciò a cui bisogna principalmente guardare per intendere ciò che un partito obiettivamente vuole, al di là delle stesse volontà dichiarate dai suoi dirigenti e dei suoi organi, è la struttura organizzativa che esso si dà e attraverso cui funziona". Secondo Onofri il problema era di "stimolare e aiutare ad organizzare nella società civile... l'altro potere, quello della grande maggioranza che attualmente subisce le decisioni di piccole minoranze oligarchiche verso le quali lo Stato parlamentare ha sempre meno potere, assicura sempre meno la democrazia ossia l'intervento decisionale della maggioranza". La soluzione era obbligata: "riforma dello Stato e riforma de partito sono due facce complementari di un unico modello di azione politica, sono in funzione l'una dell'altra". "Senza la creazione di nuove strutture civili da coll

egare ed immettere nella rete decisionale statale... qualsiasi riforma dello Stato oggi in Italia può andare bene sia per una soluzione `democratica'... sia per una `soluzione' autocratica".

Se questo era lo stadio del dibattito e delle conseguenti proposte, di cui si è fornito un quadro solo parziale, viene da domandarsi in che consista l'originalità del lavoro compiuto dal Partito Radicale e dello statuto che ne nacque. Riservando ai prossimi capitoli l'esame delle differenze di forma e di sostanza, è necessario mettere in risalto la differenza di fondo.

V'erano due gruppi di protagonisti del dibattito sopra esposto: uno composto da quelli che si potrebbero definire `studiosi indipendenti' le cui osservazioni erano rivolte all'intero sistema dei partiti, l'altro da `studiosi militanti' che indirizzavano le loro riflessioni al proprio partito. La incapacità di penetrazione dei primi, il cui caposcuola potrebbe essere indicato nel Maranini, era dovuta alla loro separazione dalla società politica. I loro studi, certamente seri e ragionati, rimanevano, è il caso di dirlo, `accademici' e circolavano fra un ristretto numero di `specialisti', senza riuscire a stimolare la nascita di un movimento di sostegno a riforme pur necessarie e senza ottenere udienza presso i vertici politici che certamente non avrebbero tratto alcun vantaggio dall'esecuzione delle loro proposte.

Quanto ai secondi, posto che fossero riusciti a far accogliere dal proprio partito le loro proposte (e, in effetti, lo statuto del PRI fu notevolmente modificato) come avrebbero potuto farle diventare realtà? Nota il Duverger che "non bisogna prendere alla lettera gli statuti, ma analizzarne l'applicazione pratica" (22); e quale applicazione poteva mai fare, anche del più perfetto degli statuti, due partiti (il PRI e il PSI) la cui vita quotidiana era marcata dalla presenza al governo, dove era giocoforza adottare la prassi del partito di maggioranza relativa se non si voleva scomparire?

Non è questa la sede per esprimere giudizi più o meno storici sulla presenza ventennale o trentennale di quei partiti al governo; ma non è azzardato o presuntuoso affermare che essa non ha giovato alla risoluzione dei problemi di partecipazione e `decision-making' da lungo tempo individuati.

E considerazioni poco confortanti vengono dagli stessi diretti interessati. Nel presentare la nuova serie di `Tempi Moderni', la sua redazione scriveva (23): "Questo disegno (della vecchia rivista ndr) sottintendeva due condizioni, o ipotesi, da verificare: una, che la scienza accademica e la sociologia ufficiali elaborassero idee `operative' o quanto meno dotate di un certo grado di applicabilità pratica; l'altra, che il mondo politico, specie italiano, si dimostrasse capace, se non desideroso, di ricevere suggerimenti e spunti dalle scienze sociali per ispirare ad essi, almeno in parte, la propria azione. Nel corso dei 10 anni (passati) sia l'una che l'altra delle due ipotesi... sono venute a mancare".

Insomma, non è che in Italia si ignorasse o non si leggesse Mosca e Pareto, Michels e Weber, Duverger e gli altri sociologi della politica. Si trattava di una piaga ben più antica delle vicende qui esposte: la frattura fra piano del pensiero e quello dell'azione, fra teorica e prassi; il contrasto fra - secondo le parole di Sartori - "una stratosfera di principi e di grande politica e un sottosuolo di piccola politica pratica" (24).

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Note al CAPITOLO III

1) "Sinistra Radicale', "Che fare?", n. 8 ottobre 1962, pag. 1 [AGORA' TELEMATICA - ARCHIVIO PR - testo n. 3682]

2) M. Teodori e altri, op. cit. pag. 27

3) M. D'Antonio - G. Negri - Raccolta degli statuti dei partiti politici in Italia - Giuffré 1958

4) A. Pizzorno, "Uno schema teorico per l'analisi dei partiti politici", in P. Farneti (a cura di) "Il sistema politico italiano", Il Mulino 1973, pagg. 253/255

5) ibidem pag. 252

6) V. ad es. la denuncia fatta in M. Boneschi e altri, op. cit. pag. 30

7) V. ad es. Tempi Moderni, n. 8 gennaio/marzo 1962 e n. 9 aprile/giugno 1962

8) M. D'Antonio, op. cit.

9) ibidem, pag. XII

10) ibidem pag. XXXI

11) ibidem pag. XXXIV

12) ibidem, pag. XXXVII

13) L. Sturzo, DOL n. 124 "Disposizioni riguardanti i partiti politici e i candidati alle elezioni politiche e amministrative" presentato al Senato il 16/9/58

14) cit. in M. Dogan - O.M. Petracca, op. cit. pag. 20

15) V. allegati in M. D'Antonio op. cit.

16) V. nota 7

17) Tempi Moderni, n. 9 aprile/giugno 1962, pag. 61

18) Istituto internazionale di studi giuridici, "Parlamento e partiti come problema attuale della democrazia: soluzioni costituzionali" - Convegno di studio - Roma aprile/giugno 1963, Giuffré 1964, pag. 69

18 bis) V. "Il finanziamento dei partiti", Tavola rotonda organizzata dal `Movimento Gaetano Salvemini', domenica 20/10/1963 - ed. Montecitorio

19) V. Tempi Moderni, "Disciplina giuridica partiti politici", n. 21 aprile/giugno 1965 - scheda n. 392

20) R. Guiducci, "Un partito a servizio della società civile" in Tempi Moderni n. 25 aprile/giugno 1965, pag. 119

21) F. Onofri, "Appunti sulla riforma dello stato e del partito", ibidem, pag. 124

22) M. Duverger, "I partiti politici", Comunità 1971 pag. 97

23) Tempi Moderni - N.S. n. 1 inverno 1970 - "Rivista laboratorio" seconda copertina

24) cit. in M. Dogan - O.M. Petracca, op. cit. pag. 117

 
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