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Archivio Partito radicale
Zeno Vincenzo - 1 maggio 1978
(3)"Caratteri originali della organizzazione e della iniziativa del partito radicale e dei movimenti federati nella lotta politica italiana (1959-1976)"
Tesi di laurea in Storia dei partiti e movimenti politici

di Vincenzo Zeno Zancovich

CAPITOLO III

SOMMARIO: In questo corposo e articolato capitolo, l'a. intende dimostrare che il partito radicale ha cercato di ideare e mettere in pratica "concezioni della natura e delle funzioni del partito politico assolutamente originali rispetto alla teoria e alla prassi esistenti in Italia". I radicali hanno portato contributi ed elementi nuovi, in particolare, sui seguenti punti: 1) la concezione del partito in generale; 2) l'antiideologismo; 3) l'organizzazione; 4) il rapporto con la società civile; 5) l'associazionismo e il federalismo; 6) la metodologia; 7) la progettualità; 8) lo statuto. Il lungo capitolo prende in esame, paragrafo dietro paragrafo, i primi sette punti, mentre la questione dello statuto sarà esaminata nel successivo.

Sommariamente:

1) Concezione del partito: dopo aver riportato tesi e considerazioni di studiosi e politologi, si sostiene che i radicali hanno respinto i due modelli, ugualmente "negativi", del "vecchio P.R." e dei "partiti tradizionali della sinistra", rifacendosi piuttosto alle forme dell'associazionismo studentesco degli anni '50 (UGI e UNURI) e dell'"associazionismo di tipo anglosassone". Si ricordano i due Convegni (Faenza 1966 e Roma 1988) in cui vennero definite e chiarite le linee portanti della nuova organizzazione: nel nuovo partito "l'idea fondamentale è quella dell'alternativa al regime" e, assieme, viene instaurato un saldo contatto e una collaborazione continua con "le forze internazionali del pacifismo occidentale", con le "nuove sinistre" variamente presenti negli USA e in Europa. Particolarmente intenso fu il dibattito con la costituzione, dopo il 1966, della "Commissione per la preparazione del Congresso nazionale" e la realizzazione del documento (ciclostilato) "Informazioni per il Congresso". In general

e, il partito diede largo spazio ai problemi della "autonomia" e della "partecipazione".

2) Organizzazione: Tra detrattori dell'organizzazione partitica (Michels) e quanti ritengono che sia sbagliato andare a cercare "la democrazia dentro le organizzazioni" (Sartori), i radicali ritengono (Pannella) che "la libertà, come l'amore, come ogni altro valore, è un prodotto sociale"; il partito moderno dovrà dunque essere "un progetto di promozione della o delle libertà, anziché di creazione del o di poteri". Epperò, se "gli apparati non sono démoni", è sempre necessario "far deperire il potere", fecendo "ampliare la sfera del diritto".

3) Antiideologismo: I radicali rifiutano il partito "onnicomprensivo", il "partito-chiesa": essi sono stati, in definitiva, "degli sperimentalisti rigorosi" per i quali lo statuto, e solo lo statuto, realizza la "teoria" e la prassi dell'organizzazione.

4) Rapporto con la società civile: I radicali hanno sempre sostenuto che la società civile è più avanzata e consapevole della classe politica. Non vi è un "popolo immaturo" né vi sono "masse cristiane" da proteggere, come ha dimostrato la battaglia sul divorzio; semmai vi sono nuove forme di sfruttamento, rivolte a comprimere il potenziale della "gente", costituita ugualmente da lavoratori e da consumatori e portatrice di rivendicazioni nelle dimensioni "della vita associata, del tempo libero, dei consumi, della famiglia, della sessualità, della sanità, assistenza, cultura, scuola, organizzazioni carcerarie, ecc." E' quel che è stato definito il "qualunquismo radicale", un giudizio tendenzialmente negativo di cui l'a. fa una attenta analisi (si riportano i giudizi di D. Cofrancesco, Matteucci, Della Loggia, ecc.).

5) Federativismo e associazionismo: Nata e sviluppata in ambito federalista europeo (MFE), la "teoria" federalista viene fatta propria dal partito radicale quale "presa di distanza dal modello del blocco storico gramsciano, dell'egemonia, del nazional-popolare" e più in generale quale risposta all'imperante ideologismo dei partiti, specialmente della sinistra. Di fatto il partito radicale realizzò e presentò una struttura fortemente federativa, atta ad accogliere i "movimenti della società civile", dalla LID al MLD, dalla LOC al FUORI al CISA. Una uguale esigenza federativa viene avvertita per quel che tocca alla costruzione del partito dell'alternativa, per il quale il modello potrebbe essere quello dei laburisti britannici. Segue una attenta analisi teorica dell'associazionismo e del suo rapporto con i partiti.

6) Metodologia: Si prendono in esame tre aspetti della metodologia radicale: a) tecniche di informazione, b) nonviolenza, c) disobbedienza civile.

Per il primo punto, segue una puntuale messa a fuoco dei vari aspetti della prassi dei radicali nei rapporti con i mass-media e con la RaiTV, e dell'uso di questi strumenti che essi hanno fatto e fanno nel quotidiano. Vengono sottolineati l'impiego di strumenti informativi "poveri", l'abilità nel saper "creare notizie" che costringano i mass-media a dare informazione, la paziente raccolta e il puntuale sfruttamento di vasti e sempre rinnovati indirizzari.

7) Nonviolenza e disobbedienza civile: Si tratta di metodologie di impegno e di lotta, ugualmente distanti sia dalle ideologie "violente" della nuova sinistra che dalle visioni "umanitario-vegetariane" che caratterizzano la nonviolenza religiosa e mistica di origine orientale. Importantissima è, in questo ambito, la prassi della "disobbedienza civile" intesa come sollecitazione per l'autorità, per il giudice, ad applicare con rigore e coerenza la legge e i suoi valori.

8) Progettualità: "Il partito, nel congresso, si impegna su singole battaglie politiche": questa linea, costantemente sviluppata dal partito, viene anche pesantemente contestata da diverse parti. Qui si ricordano le osservazioni di P. Ungari, O.M. Petracca, G. Calogero, Panebianco, ecc. In particolare, si riporta l'osservazione di A. Panebianco secondo il quale "l'ingresso di quattro radicali in Parlamento" ha reso di fatto "superato" l'interrogativo se il radicale sia, proprio in grazia del suo essere un "one issue party", un vero e proprio partito, oppure no.

(UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI ROMA, FACOLTA' DI SCIENZE POLITICHE, tesi di laurea di Vincenzo Zeno Zancovich, RELATORE: Prof. Carlo Vallauri, Anno Accademico 1977-1978)

E' nel quadro che si è cercato di rappresentare nel capitolo precedente che i radicali si sforzarono di rifondare il partito dissoltosi nei primi mesi del 1962. Ed è con quella situazione che vanno confrontati i risultati di questo sforzo, per cogliere quanto di nuovo e di diverso era stato ideato.

La tesi che si cercherà di dimostrare in questo capitolo è: il Partito Radicale ideò, e in parte attuò, concezioni della natura e delle funzioni del partito politico assolutamente originali rispetto alla teoria e alla prassi esistenti allora in Italia.

Questi elementi sono:

1) La concezione del partito in generale

2) L'antiideologismo

3) L'organizzazione

4) Il rapporto con la società civile

5) L'associazionismo e il federalismo

6) La metodologia

7) La progettualità

8) Lo statuto (quest'ultimo punto, che comprende e traduce in normativa tutti gli altri sarà trattato, separatamente, nel capitolo successivo).

LA CONCEZIONE DEL PARTITO IN GENERALE

La concezione e la struttura del partito è determinante (o perlomeno assai rilevante) per l'esistenza di una democrazia, nel senso di un sistema politico in cui, sia formalmente che sostanzialmente, la sovranità spetti al popolo e sia da esso esercitata? Non è una domanda retorica; a seconda della risposta che viene data cambia totalmente il metro di giudizio (se non anche quello di analisi) del sistema politico italiano; cambia l'oggetto o i rapporti da studiare; cambiano le eventuali soluzioni da proporre; cambia, ovviamente, uno studio sul Partito Radicale.

E sono in diversi a dare una risposta negativa: "Ai giorni nostri - afferma Domenico Fisichella - la libera contesa tra i partiti per la conquista dei suffragi popolari è - nonostante le tendenze oligarchiche entro i partiti - condizione necessaria e sufficiente per la sopravvivenza della polarchia democratica" (1). In modo analogo risponde Giovanni Sartori: "Per quanto ciascuna minoranza possa essere organizzata al suo interno in maniera oligarchica, il risultato del loro incontro competitivo è una democrazia: cioè l'attribuzione di quel grandissimo `potere' al `demos', che è il potere di essere giudice della sorte dei competitori" (2).

L'opinione opposta può essere espressa, a mo' d'esempio fra tanti altri, da queste due citazioni di Franz Neumann e Pier Luigi Zampetti: "Una democrazia interna al partito è la premessa assolutamente indispensabile per la struttura democratica dello Stato" (3). "Quel che comunemente è chiamata democrazia esterna (rapporto tra partiti e istituzioni) presuppone la democrazia interna, e cioè che il partito riesca ad esprimere la volontà degli individui e dei gruppi che in esso confluiscono e che poi esso trasformerà, operando esternamente sul piano istituzionale, in volontà dello stato" (4). Ed è questa la tesi anche di Giacomo Perticone.

Non è questa la sede per contestare le affermazioni di Fisichella e Sartori; è necessario però dire che esse non sono affatto isolate, ma corrispondono in gran parte alle concezioni dominanti fra i gruppi politici dominanti fra i gruppi politici dirigenti italiani e sono alla base della loro generale avversione o indifferenza ad una riforma delle strutture partitiche. Concezioni che accomunano quasi tutti i partiti italiani e ne condizionano lo sviluppo fin dai tempi della resistenza al fascismo e dai primi anni della repubblica, com'è ampiamente documentato nei volumi sulla "Ricostituzione dei partiti democratici" a cura di Carlo Vallauri (5).

Nelle contrastanti opinioni che si sono citate vi sono concezioni della democrazia e della libertà diametralmente opposte; per le prime è "necessario e sufficiente" assicurare democrazia e libertà "ai" gruppi, per le seconde è necessario, ma non sufficiente, assicurare democrazia e libertà all'individuo "nei" gruppi. Questa importanza attribuita all'individuo visto globalmente dal punto di vista politico, sociale, psicologico, sessuale etc.) si ricollega ad una tradizione filosofica millenaria. Oggi la si può ritrovare espressa nell'"etica dell'essere" di Erich Fromm (6); la sua trasposizione in termini politici e sintetizzabile attraverso queste proposizioni di Lasswell Kaplan e Bachrach: "Un dominio è libero, nella misura in cui l'individuo agente è responsabile verso se stesso...; autoritario, nella misura in cui è responsabile verso altri. Secondo questa definizione, la libertà non è assenza di responsabilità ma al contrario presuppone la responsabilità" (7). "C'è libertà in uno stato solo quando ogni i

ndividuo ha sufficiente rispetto di se stesso per rispettare gli altri" (8). "Una teoria della democrazia (deve) fondarsi sui seguenti presupposti e principi: una partecipazione più attiva alle decisioni più significative della comunità ingenera nella maggior parte degli individui un maggior rispetto di sé e una affermazione più piena della propria personalità" (9).

Sono questi i principi da cui `principia' la concezione radicale del partito politico; sono questi gli orizzonti entro i quali situare l'esperienza radicale, se non la si vuole ritenere, antistoricamente, isolata nel tempo e nello spazio.

Non stupisce, quindi, tanto interesse dei radicali per la natura e la funzione dei partiti; i motivi sono gli stessi che li porteranno contemporaneamente ad affrontare temi che partono (e non si esauriscono) dalla condizione dell'individuo, come il divorzio o l'aborto e ne marcano la vita privata al pari di quella pubblica. Un'analisi simile si ritrova anche in Giovanni Baget-Bozzo: "Il radicalismo suppone il recupero, non dirò del soggetto..., ma dell'individuo. ... Se comprendiamo bene le intenzioni del radicalismo politico, esse sono rivolte verso il tentativo di sbarbarizzare il radicalismo latente nella società, e di socializzare, in qualche modo, l'individualismo emergente" (10).

Se dai modelli ideali si passa a quelli reali, si nota che per i radicali vi sono, schematicamente, due modelli negativi, il `vecchio' PR e i partiti tradizionali della sinistra italiana, e due modelli positivi, gli organismi universitari (UGI e UNURI) degli anni '50 e l'associazionismo di tipo anglosassone. Si è già detto che la spinta immediata verso l'opera di ricerca compiuta dai radicali fu la consapevolezza della necessità di creare il "partito nuovo" per attuare quella "nuova politica" che i `vecchi' radicali avevano, in gran parte elaborato. Il fallimento di questi ultimi è sempre rimasto un monito ad evitare "quella... contraddizione - dirà Spadaccia nella sua relazione al Congresso di Firenze del 1967 - che spinse gli amici del `Mondo', a metà degli anni '50, a mettere in piedi un partito che avrebbe dovuto condurre una intransigente lotta democratica nel paese, mentre contemporaneamente i radicali che avrebbero dovuto essere i protagonisti di quella lotta si videro negata ogni democrazia interna,

con un piccolo gruppo di dirigenti che avocava a sé ogni decisione politica, con i Consigli nazionali divenuti strumenti subalterni della Direzione, nessuna autonomia riconosciuta di fatto alle sezioni e alle federazioni" (11). E anche dieci anni dopo si ritrova un simile invito da parte di Angiolo Bandinelli: "Non siamo neppure, o dobbiamo quindi diventare, un `centro studi' per l'alternativa o aspirare al ruolo di `coscienza critica della sinistra', tornando al vecchio modello del PR degli anni '50, basato sul notabilato, club più o meno esclusivo di cattedratici, scrittori, politologi e giornalisti" (12).

In verità, il modello organizzativo del `vecchio' PR era omogeneo a quello dominante nella sinistra italiana: "a) il centralismo democratico dei partiti comunisti - b) il tipo di organizzazione dei partiti socialisti". "Due varianti di uno stesso tipo di `democrazia' di partito, accentratrice, gerarchica, burocratica" (13). I partiti di sinistra erano quindi i più studiati e i più criticati perché, nonostante fossero ritenuti dai radicali potenzialmente alternativi all'ordine politico esistente, "si sono nazionalizzati, si sono inseriti nel sistema e, contro ogni aspettativa, non hanno prodotto il rinnovamento della democrazia ma ne hanno subito la crisi" (14). Sergio Stanzani, al convegno "La società laica e il partito moderno" dell'ottobre 1966, momento fondamentale per l'elaborazione della teoria radicale, così sintetizzava le critiche: "Poniamo come premessa la valutazione di fondo che il PR dà sull'inadeguatezza dei partiti di sinistra non tanto a risolvere i problemi di potere, ma a risolvere il proble

ma della democratizzazione della società italiana; poniamo come premessa la constatazione della carenza di partecipazione del cittadino italiano come tale alla vita politica e in particolare al partito politico" (15). Un concetto analogo lo esprime Guiducci: "Poiché la sinistra vive, da anni, in funzione di autoconservazione della propria area di potere, se il potere va a destra, anche la sinistra è costretta ad inseguirlo. Nasce una sinistra di destra" (16).

E a dodici anni dal convegno di Faenza, in un altro Convegno con tema quasi identico (17), Silvio Pergameno e lo stesso Stanzani così ricordano i punti fermi di quel dibattito: "Nel nuovo partito l'idea fondamentale è quella dell'alternativa al regime... Ma tutto ciò in unione all'idea che per realizzare quest'alternativa, per dare vita ad un sistema politico articolato, in cui l'opposizione svolgesse la sua insostituibile funzione, per realizzare una vera democrazia, cioè una democrazia di base, occorreva un modo alternativo di fare politica, e quindi un'organizzazione politica alternativa a quella dei partiti di apparato che escludono il militante sostituendosi ad esso". "Compiuta una certa analisi politica... I radicali constatavano che il modello tipico della sinistra era diventato uno strumento invecchiato di fronte ai nuovi problemi di una democrazia in una società tardo industriale". "Eravamo negli anni '66-'67, sentivamo che una marea montava dal basso; l'esperienza divorzista già in atto ce ne aveva

dato un saggio eloquente; le università americane erano già in fermento da anni; il potenziale democratico di base era vivissimo" (18).

Si comprende quindi il significato e gli obiettivi della decisione di proseguire a lottare con e nel Partito Radicale presa dai giovani della `Sinistra Radicale' a cavallo fra il '62 e il '63 quando tutta la `vecchia' dirigenza si era dimessa. E già allora era chiaro che "oggi, più che mai, ciascuno può e deve sottoporre ad una nuova verifica gli strumenti organizzativi della propria libertà e della propria disciplina rivoluzionaria. Può anche scoprire, dunque, che il miglior modo di assicurare il proprio doveroso contributo alla lotta comune passi attraverso la formazione di nuovi partiti, `nuovi' nelle proprie strutture interne non meno che nel contributo ideale che intendono fornire" (19).

Il `nuovo' partito polemizza, quindi, fin dall'inizio con la sinistra `ufficiale'; ma la sua teoria non s'ispirava solo ad avversioni o a deduzioni `a contrario'; c'erano, come s'è detto prima, due modelli positivi. La maggior parte dei giovani radicali si era formata politicamente, prima ancora che nel PR, nell'UGI (Unione Goliardica Italiana) e nell'organismo rappresentativo nazionale di tutti gli studenti universitari, l'UNURI; Stanzani e Pannella erano stati presidenti. Ricorda Teodori (20) che "gli stessi concetti che ispiravano l'associazionismo dell'UGI e il suo carattere laico furono riversati (senza successo ndr) nel dibattito sullo statuto del primo Partito Radicale (1956) da parte della componente giovanile". Di quella bozza di statuto non rimane, purtroppo, traccia, ma il suo motivo ispiratore (il libero associazionismo) resta una costante della teoria radicale; infatti, continua Teodori, "un'impostazione assai simile a quella delle associazioni ugine basata non su criteri organizzativistici o id

eologici ma su forme aperte, si sarebbe ritrovata sia nei movimenti e leghe promosse dai nuovi radicali sia, specialmente, nei dibattiti statutari radicali" (21).

L'altro modello è l'associazionismo anglosassone. I contatti erano stati presi dalla `Sinistra Radicale' quando muoveva i suoi primi passi fra gli organismi pacifisti internazionali, in cui erano massicciamente presenti quelli inglesi ed americani. `Agenzia Radicale' pubblicava tra il '63 e il '65 centinaia di notizie riguardanti le loro attività, e progressivamente estendeva i suoi contatti; in un rapporto interno del '66, nell'elenco dei gruppi con i quali si intrattenevano relazioni sotto forma di incontri o scambio di informazioni, notiziari e stampati vari, erano rappresentati tutti i paesi dell'Europa occidentale, l'Unione Sovietica, la RDT, la Polonia, Gli USA e il Canada, alcuni stati latino-americani, numerosi medio-orientali e africani, l'India, il Giappone, il sud-est asiatico, la Cina, l'Australia e la Nuova Zelanda (22). Non senza motivo, quindi si affermava nella già citata assemblea dell'aprile 1965 che "grande e originale è stata l'azione di collaborazione intrapresa con le forze internaziona

li del pacifismo occidentale, con tutte quella `nuove sinistre' che si stanno formando o si sono formate in Francia, in Germania, in Inghilterra, negli Stati Uniti. Con esse i rapporti di collaborazione sono stretti ed hanno costituito per l'esperienza radicale italiana una fonte di approfondimento, di dibattito a vasto raggio sui problemi delle nuove strutture democratiche della società da un angolo di vista assolutamente nuovo e rivoluzionario sia rispetto alle tradizionali esperienze della sinistra italiana, sia anche rispetto ai tradizionali motivi del radicalismo, laicismo e pacifismo italiano" (23).

Delle influenze dello statuto dei laburisti inglesi si parlerà quando si tratterà dello statuto radicale.

Il periodo di più intensa elaborazione collettiva può essere fissato fra il settembre del 1966, quando fu costituita la "Commissione per la preparazione del Congresso nazionale", suddivisa in diverse sottocommissioni, e il maggio 1967, quando si tenne a Bologna il III Congresso del PR, il primo dalla `rifondazione'; la numerazione progressiva era un'altra prova dello spirito di continuità che i `nuovi' radicali sentivano con il `vecchio' partito e i suoi congressi del '59 e del '61.

In quei nove mesi non solo si tenne il già citato convegno di Faenza ma fu anche creato un apposito strumento di stampa, `Informazioni per il Congresso', supplemento di `Agenzia Radicale', sul quale venivano riportati i verbali delle sottocommissioni pre-congressuali, gli atti del convegno di Faenza ed altri documenti utili per il dibattito. L'obiettivo era arrivare ad un congresso in grado di compiere "una completa ristrutturazione politica ed organizzativa del partito" (24).

Benché possa sembrare strano, e per certi aspetti, contraddittorio, i radicali, in quel periodo, non studiarono ed approfondirono le più aggiornate analisi di sociologia e scienza della politica. Dai documenti esaminati risulta una formazione sperimentale, una riflessione fondata sui fatti direttamente osservati e vissuti, anziché sulle riflessioni altrui, conosciute più che dai testi originali, dalle pagine dei quotidiani e dei settimanali. Questo fatto va collegato alla pressoché totale assenza, fra i dirigenti e i teorici del PR, di `intellettuali', nel senso che comunemente viene dato a questo termine.

"La viscosità degli interessi e delle ideologie, quel diffuso fenomeno di persistenza degli aggregati che si esprime in strutture anchilosate e burocratizzate e che ostacola la circolazione delle idee e il ricambio delle classi dirigenti, fanno sì che ogni processo di rinnovamento di sviluppi `al rallentatore' in una atmosfera rarefatta e in una falsa dialettica democratica" (25). "I cittadini, in teoria, possono influire sulla vita politica, determinando, nelle forme convenute, la linea dei partiti. In pratica lo possono fare soltanto diventando funzionari, perché l'impegno massimo del partito oggi è quello che abbiamo indicato. La vita democratica di base degli iscritti si riduce ad una delle tante maniere di agire sull'opinione pubblica, e nemmeno la più efficace" (26). La soluzione proposta: "Proponiamo una forma di autogestione del potere politico, il più possibile aperta ai cittadini, capace di superare la distinzione fra funzionari e elettori quale oggi s'è venuta configurando. Proponiamo, innanzitutt

o, un partito laico; esso sarà tale nella misura in cui, riconosciuta all'individuo la molteplicità dei suoi rapporti esistenziali, gli lascia l'autonomia della scelta, la responsabilità delle decisioni, cioè gli riconosce un suo modo primario di partecipazione" (27).

Autonomia e partecipazione sono due termini ricorrenti nella teoria radicale del partito. Il primo termine ha radici molto antiche e si collega alla battaglia svolta dall'UGI per il riconoscimento dell'autonomia degli studenti e delle loro associazioni dalla subordinazione gerarchica alle discipline e agli schieramenti di partito. Franco Roccella, nella sua relazione al Congresso dell'UGI nel '52, affermava con vigore che era necessario "rendere impossibile, oggi, ogni forma di partitocrazia e... evitare che sia la formula preventiva e meccanica (dell'adesione a un partito ndr) a condizionare il cittadino. Per quanto ci sentiamo slegati da ogni vincolo di partito e questo abbiamo inteso affermare gridando `fuori i partiti dall'università', non per rifiutare l'impegno a una partecipazione, ma per iniziare l'esercizio di una piena autonomia civile" (28).

Il significato di `partecipazione' è così spiegato (1967) da Spadaccia: "Un partito - che voglia essere un partito nuovo e non semplicemente un altro partito - può nascere e affermarsi solo su motivi di fondo che lo differenzino dagli altri partiti e dalle strutture esistenti, e non su motivi contingenti di consenso interno e di dissenso esterno. Uno di questi motivi di fondo è certamente... quello riguardante il rapporto partito-singolo cittadino, il modo cioè di organizzare e `garantire' la partecipazione dei cittadini alla vita politica. Non si tratta ovviamente di astratta preoccupazione costituzionalista, ma della preoccupazione di uomini e di forze della sinistra che vedono attenuarsi il legame con le masse, mortificate e disconosciute le esigenze di rinnovamento, invecchiati e scaduti e ormai privi di mordente i contenuti della lotta democratica e socialista" (29).

Preoccupazioni che non si ponevano solo i radicali: "Anche se la partecipazione alle principali decisioni politiche a livello nazionale destinata a rimanere molto limitata, esiste forse un motivo valido - domanda Peter Bachrach - nel contesto della teoria democratica, per il quale la partecipazione alle decisioni da parte dei membri delle grandi istituzioni intermedie non possa essere notevolmente aumentata almeno nelle questioni che toccano in modo sostanziale la loro vita all'interno di tali istituzioni?" (30) Era una facile profezia (o la constatazione di fatti già avvenuti?) quella di Michele Sernini che alla fine del '67 scriveva: "Se la sfiducia nei partiti aumenta ancora... si può pensare che si facciano strada, come negli USA e come nel resto del mondo sull'onda dello spirito giovanile e di protesta, i movimenti della non collaborazione col potere, della disobbedienza civile, della non-violenza non curante per le arroganze del potere costituito, ivi compresi i partiti. Oppure, perché no, in casi estr

emi, quello della violenza organizzata" (31). E Vallauri (1964) proponeva alcuni di quei rimedi che i radicali, in contemporaneità, ma isolati, ideavano: "Il problema di fondo è, in un paese di recente e fragile democrazia come l'Italia, il partecipazionismo... e partecipazionismo vuole dire in primo luogo avvio a forme di democrazia diretta (referendum), in secondo luogo decentramento amministrativo regionale, in terzo luogo inserimento delle componenti popolari nel processo di formazione delle direttive economiche dello stato" (32).

E le elezioni? "Con le elezioni - rispondeva seccamente Alessandro Pizzorno - si rinnovano i fasti della fondazione del sistema dei valori politici; gli entusiasmi, o l'eccitazione collettiva, dei periodi elettorali ripetono ritualmente gli `entusiasmi collettivi' che hanno presieduto alla rinascita del regime democratico" (33). Secondo Robert Dahl, "nella misura in cui il Parlamento è escluso dal processo negoziale e le elezioni non offrono che un diritto di controllo vago e piuttosto incerto sui leaders nazionali, non c'è nessuna istituzione politica nella quale le maggioranze facciano sentire il loro peso e in cui possano sottomettere le grandi decisioni negoziate a un esame pubblico, approvarle, opporvisi, emendarle o porre un veto" (34).

Sono gli argomenti usati dai radicali per giustificare il loro invito all'astensione attiva (distruzione pubblica e collettiva delle proprie schede elettorali) nelle elezioni politiche del maggio '72: "Le elezioni, in Italia, assumono sempre più il carattere di rito, tanto più vano quanto più l'oggetto della scelta è mistificato e le possibili alternative, per cui pure la nostra società è matura, sono oscure e nascoste. In un paese con una bassa partecipazione alla vita politica (ad eccezione della sottopolitica) le elezioni si caricano di una funzione catartica: occorre votare perché si tende surrettiziamente a far credere che questo atto rappresenti l'unico strumento di intervento nella cosa pubblica" (35).

Per questo è necessario "darsi strutture organizzative che garantiscano il libero sviluppo di ogni iniziativa, consentendo ai diversi fermenti di esprimersi fino a diventare valide occasioni di lotta politica" (36). I veicoli di questi fermenti saranno i cosiddetti `movimenti federati' al PR.

Gli aspetti essenziali della "concezione radicale del partito" fin qui esposti possono essere riassunti nelle seguenti proposizioni:

1) Perché lo stato sia democratico è necessaria che lo sia la vita dei partiti.

2) La struttura dei partiti italiani non corrisponde a questo requisito.

3) Il partito `nuovo' deve superare la distinzione fra funzionari ed elettori. Quest'ultimi devono poter autogestire le proprie iniziative politiche.

4) Il partito `nuovo' deve fornire la autonomia (nel senso letterale del termine) del cittadino.

5) Il partito `nuovo' deve essere e creare canali di partecipazione alternativi rispetto a quelli tradizionali, ormai inefficaci.

L'ORGANIZZAZIONE

"Chi dice organizzazione, dice tendenza all'oligarchia" (37) scriveva Robert Michels settanta anni fa. Non sembra il caso di riportare qui tutte le sue acute osservazioni sulla nascita, lo sviluppo e il consolidamento di prassi antidemocratiche nei partiti che si ispirano ad una dottrina democratica.

E' utile invece riportare l'interrogativo posto nelle ultime pagine della sua `Sociologia del partito politico': "A questo punto ci si propongono due questioni decisive. La prima è: la malattia oligarchica dei partiti democratici è incurabile?... L'altra può essere formulata così: la natura oligarchica dell'accentrazione attribuisce necessariamente un carattere oligarchico anche alle attività dell'istituzione, determina cioè una sua politica oligarchica? E' veramente impossibile che un partito democratico e rivoluzionario segua una politica democratica e rivoluzionaria? No è forse un'utopia non solo il socialismo, ma anche - il che è qualcosa di diverso - una politica socialista?" (38) La risposta di Michels è sconsolatamente affermativa a praticamente tutte le domande: solo la pedagogia sociale, cioè l'educazione delle masse, sia pure di poco, può ridurre la tendenza all'oligarchia (39).

Sartori irride a queste preoccupazioni: "Michels cercava la democrazia dentro le organizzazioni. Ma come trovarla? Organizzare è appunto articolare un vasto organismo secondo strutture rigide e precisi livelli gerarchici. Non si organizza per creare un organismo democratico, si organizza, in primo luogo per creare un organismo ordinato ed efficiente: che non è la stessa cosa" (40).

Qual è la risposta che i radicali cercano di dare allo stesso interrogativo?

Come s'è visto dai giudizi sul sistema politico italiano e la struttura dei partiti, il loro punto di partenza corrisponde in larga parte alle analisi michelsiane. Ma se è vero che sono inevitabili processi di "sostituzione dei fini" e di trasformazione dell'organizzazione da mezzo a fine, come sostiene il sociologo tedesco, la soluzione sta nel fare dell'organizzazione un fine coerente con il `fine ultimo' dell'azione politica, la società socialista.

"Ogni movimento nuovo, ogni nuova esperienza di lotta, per essere vitale, deve contenere in sé una ipotesi e un progetto organizzativo, deve fondarsi su una teoria dell'organizzazione che già nella prassi si dimostri laica e socialista e consenta di sperimentare e attuare forme di autogestione non solo politica ma anche materiale e finanziaria" (41).

Così, contrariamente a quanto potrebbe, a prima vista, sembrare, l'organizzazione, del partito come della società, assume un rilievo enorme nella teoria radicale, per due specifici motivi: a) i mezzi qualificano e determinano i fini e, conseguentemente, quest'ultimi non possono in alcun modo `giustificare' i primi; b) la individuazione e la scelta dei mezzi e dei metodi è un fine essenziale di ogni forma democratica.

Secondo Pannella (1978) i radicali non credono nel mito del `buon selvaggio' rovinato dalla società, teorizzato da Rousseau e dagli anarchici e nemmeno al contratto sociale hobbesiano. "Che cos'è l'organizzazione? E' il prezzo che dobbiamo pagare di riduzione della libertà di ciascuno perché sopravviva almeno un po' di libertà per tutti? No! questa è una visione perdente della storia, destinata a far vincere e prevalere l'opposta concezione, quella fascista, per cui bisogna organizzare l'autorità e solo a partire dall'organizzazione dell'autorità saranno possibili perimetri individualistici di maggiore libertà... Rovesciando questa impostazione noi ci siamo detti che la libertà, come l'amore, come ogni altro valore è un prodotto sociale". "Abbiamo tentato di realizzare nella organizzazione un progetto di promozione della e delle libertà anziché di creazione del e dei poteri" (42).

In questo ordine d'idee, è essenziale per il democratico "respingere quella contraddizione per cui per combattere più efficacemente l'avversario se ne devono adottare i metodi e tanto più è sicuro il successo quanto più quei metodi di organizzazione centralizzata, gerarchica e verticale sono fedelmente ricalcati e battono in efficacia quelli dell'avversario" (43).

I risultati di questa pratica sono fin troppo evidenti; Vallauri (1977) li riassume così: "Se i partiti che puntano alla edificazione di una società `comunista' o alla conservazione di una società fondata sulla divisione del lavoro, da tale restringimento (di democrazia ndr) non subiscono danno, anzi ricevono una maggiore spinta, i gruppi politici che si richiamano alla democrazia libertaria - come in Italia le formazioni socialiste - vedono revocati, nella loro stessa organizzazione interna, i principi in nome dei quali dichiarano di combattere. Ne consegue che questi gruppi non hanno più possibilità di far valere modelli, perché la loro prassi è antitetica ai valori di cui si fanno portatori. La perdita di credibilità di questi partiti deriva in parte non irrilevante proprio da questa discrasia" (44).

Ma se - secondo i radicali - "gli apparati non sono `demoni' con cui non si devono avere rapporti, ma dati sociologici di una realtà nella quale operiamo e rispetto alla quale dobbiamo preoccuparci di promuovere la più adeguata iniziativa politica" (44 bis), qual è il rapporto che occorre avere con il potere, attributo primario degli apparati? Innanzitutto è necessario farlo deperire, cioè, partendo dal presupposto che l'essenza del potere è la diseguaglianza nella "partecipazione alla presa di decisioni" (45), occorre ridistribuirlo fra i legittimi detentori, indicati dalla Costituzione, che ne sono stati spogliati a favore di ristrette oligarchie. In secondo luogo, occorre ampliare la sfera del diritto: "I radicali hanno sempre rifiutato la teorica dei `contropoteri', cara a settori importanti della sinistra, non solo estraparlementare. La linea generale radicale è stata quella della riappropriazione del diritto" (46). "Il fatto nuovo e importante dello statuto del '67 è che proprio dall'interno del movime

nto libertario e da una forza politica che si proclama libertaria viene formulata la proposizione che il momento del diritto, dell'organizzazione, della procedura, della definizione delle regole del gioco è un momento essenziale per qualcosa che voglia essere davvero libertario, liberatorio, liberante" (47).

"Il primo, più essenziale momento di confronto e di scontro, sul quale si possa ricostruire, o costituire, un tale schieramento (alternativo ndr) è quello del diritto... il primo dato del rapporto sociale è la statuizione di una norma che rende tale il rapporto... Ecco dove nascono alcuni modelli di lotta tipici del PR; in primo luogo quella continua, esasperata eccitazione delle istituzioni, delle procedure, della legge, che è stata fondamentale in moltissime battaglie, e lo è ancora oggi" (48).

La funzione del partito è, quindi, quella di "consolidare le pressioni del `movimento', facendole reagire ai livelli politici e traducendole in fatti istituzionali" (49). E', sostanzialmente, quanto suggeriscono Lasswell Kaplan per garantire il "carattere giuridico di un dominio": "Si possono indicare diverse forme che favoriscono la possibilità della contestazione effettiva delle decisioni... le cariche di breve durata e la rimovibilità delle stesse, l'iniziativa popolare ed il referendum..." (50).

L'ANTI-IDEOLOGISMO

Non si può affermare che i radicali non abbiano una ideologia, né che non esista una ideologia radicale. Semmai, precisando meglio il concetto secondo cui l'ideologia è una "dottrina elaborata per la cosciente giustificazione di sistemi sociali e politici in atto o da attuare" (5), si può, riprendendo la distinzione di Karl Mannheim (52), affermare che non esiste una ideologia radicale, bensì una utopia radicale.

L'ideologia (o l'utopia) è un prodotto del pensiero umano la cui esistenza, al pari della filosofia e dell'etica, è documentata da migliaia di anni. Non meraviglia quindi che anche i radicali, nel loro processo di teorizzazione, generino un'ideologia (o un'utopia). Dov'è, allora, l'elemento originale che si vuole segnalare in questo studio?

Le degenerazioni dell'ideologia nascono, soprattutto, dal suo trasformarsi nell'hegeliano `weltanschauung' e una `visione del mondo' non può che essere, per definizione, totale. Essa diventa totalizzante quando viene fatta propria da un partito politico e diventa un requisito obbligatorio per l'adesione dei suoi iscritti. "Il partito diventa in questo modo un attore sociale totale a cui spetta la trasformazione dei rapporti sociali fondamentali, dei meccanismi politici e delle istituzioni statuali, fino alla creazione dell'`uomo nuovo'. Nessuno degli autori classici del marxismo sfugge a questa visione totalizzante del partito" (53) afferma Alberto Melucci; e, si può aggiungere, questa constatazione non riguarda soltanto i teorici marxisti. "Il partito - prosegue Melucci - in quanto oggetto di identificazione totale, genera una appartenenza esclusiva, che investe tutti gli aspetti della vita sociale, riproducendo un circolo chiuso di relazioni, una vera e propria subcultura all'interno della società" (54). L

e conseguenze sono, secondo Alberto Spreafico, queste: "Nell'incapacità di colmare il divario tra fini ultimi ed esigenze immediate, l'ideologia è portata a farsi sempre più insofferente e dogmatica. Quanto più è stata concepita come uno schema assoluto, tanto meno confrontata con la realtà riesce a comprenderla in sé ed a superarla. Inadeguata a risolvere le contraddizioni che, anche dopo la sua affermazione, insorgono di continuo, tende a sopprimerle mediante un sempre più frequente uso del potere" (55).

A partire da considerazioni analoghe a quelle che sono state appena citate, i radicali rifiutano la regola secondo la quale l'iscrizione ad un partito debba avvenire sulla base di un'adesione all'ideologia o, che è lo stesso, a un programma omnicomprensivo. E' questa una condizione essenziale per quella laicità e quell'autonomia di cui si è già parlato (56). "Quando oggi i radicali rivendicano la dimensione laica - dirà Pannella nel 1966 - non la rivendicano più tanto rispetto alla Chiesa... ma... verso la struttura centralizzata e dogmatica dei nostri partiti. La nostra prima esigenza è che i partiti, perché siano realmente sovrani nelle cose che vengono loro conferite, non suggeriscano ogni giorno a ciascuno di noi una disciplina per ogni problema della vita politica e civile, ma che con umiltà e moralità democratica si limitino a voler risolvere progressivamente quei due o tre problemi ogni cinque o dieci anni che si ritengono o si scelgono più importanti per quell'arco di tempo della vita politica del pa

ese". "Quando il presupposto del partito che risolve tutto resiste, è evidente che la burocrazia e l'ideologia diventano gli elementi essenziali per andare avanti. E' evidente che questo tipo di partito ha bisogno di specialisti della politica che sfornino tutte le possibili soluzioni sulle quali dobbiamo marciare, e quando non le capiamo marciamo male. Ed è evidente che questa classe di professionisti e di specialisti ha bisogno della ideologia, cioè di una dogmatica in cui le idee vengono tradotte in articoli di fede spicciola" (57).

Dodici anni più tardi, anche `Il Mulino' arriverà a queste conclusioni: "Porre il problema della laicità significa porre prima ancora che il rapporto tra ideologia (più o meno dogmatica) ed azione politica, quello tra organizzazione e spontaneità, apparato di direzione e di controllo e quotidianità, privatezza, libertà e responsabilità personali" (58).

Si vedrà più avanti la traduzione in articoli statutari dei concetti esposti prima da Pannella. E' opportuno, però, evidenziare qui come i radicali distinguessero attentamente fra ideologia e teoria. "Non si deve confondere una posizione anti-ideologica con una posizione anti-teorica e anti-scientifica. L'ideologia è la cristallizzazione di un sistema di teorie e di acquisizioni scientifiche, mentre un lavoro di riduzione alla semplicità di tipo scientifico e definitorio è per sua natura anti-ideologico, dovendo operare quel tipo di divisione delle scelte in base alle quali si costituisce a sistema una serie di teorie e nozioni" (59). "Nella sua polemica contro l'ideologismo della sinistra, nella quale vedeva uno strumento di potere di ceto e di classe, il Partito Radicale, contro tutte le apparenze, non ha mai sopravalutato il momento dell'azione rispetto e contro il momento del pensiero" (60).

Secondo Lasswell Kaplan, "la teoria, anche nel dominio politico, non va confusa con la speculazione metafisica su astrazioni irrimediabilmente staccate dall'osservazione e dal controllo empirico" (61); e così - secondo Spadaccia - "i radicali d'assalto delle marce e dei `si-in', dei processi e dei digiuni, dell'obiezione di coscienza e dei referendum, sono stati degli sperimentalisti rigorosi, mai dei pragmatisti e degli spontaneisti. Lo statuto è stato la nostra teoria dell'organizzazione" (62).

Egli intendeva così contestare la visione semplicistica che molti avevano del partito giudicandolo solo dalla provocatorietà delle sue forme di lotta (adottate, fra l'altro, perché idonee a `passare' attraverso i mass-media). La marcia (e - si noti - non il corteo) consentiva una manifestazione continua per 24 ore su 24 a diretto contatto con la gente `della strada', per luoghi altrimenti mai raggiungibili da una propaganda radicale (v. le `marce antimilitariste'). I processi, come si vedrà oltre, discendevano dalla loro concezione del diritto e dello scontro legale con le istituzioni. I digiuni erano la proposta di un nuovo metodo di lotta, già sperimentato con successo da altri movimenti per i diritti civili.

Questa qualità, secondo Pannella (1978), è stata determinante per l'esistenza stessa del PR: "Come mai proprio noi abbiamo potuto reggere (per vent'anni, ndr) cioè i più scalcinati, apparentemente quelli, fra tutti, teoricamente meno muniti? Teoria e durata sono due volti della stessa realtà. Senza teoria non avete durata perché, senza teoria, con l'attivismo vi fate fare e non fate attività, con lo spontaneismo ammazzate la spontaneità e non la esaltate e nutrite, così come con le sbronze razionalistiche si ammazza anche la razionalità e quanto di razionalità deve esserci nella organizzazione" (63). "Viene da sorridere - conclude Spadaccia - di fronte a questi ancoraggi teorici ed ideali, che ci si voglia confondere con una forza equivoca, disgregatrice e qualunquistica. Non è neppure polemica artificiosa e strumentale. Purtroppo è di peggio: è grossolana ignoranza di quel che siamo e siamo stati, mancanza di conoscenza che è il prodotto di intolleranza e di rifiuto del dialogo" (64).

IL RAPPORTO CON LA SOCIETA' CIVILE

E' stato fatto notare nel capitolo II (65) come i radicali fossero assolutamente privi (e lo sono tuttora) di insediamenti sociali ed istituzionali. Viene da chiedersi, quindi, dove essi abbiano trovato le energie, anche solo materiali, per condurre al successo quelle iniziative politiche come il divorzio, l'aborto, i referendum che hanno, nel corso dell'ultimo quindicennio, intrapreso. Se - secondo i radicali - le energie ideali si trovavano nella loro teoria, quelle materiali possono essere individuate nel loro rapporto con la `società civile'. La sua particolarità ha il suo presupposto in una valutazione, certamente polemica e drastica ma al tempo stesso piena di interessanti conseguenze; "Siamo convinti - affermava Pergameno nel 1966 - che esiste oggi una società civile assai più progredita della società politica, una opinione pubblica che tende sempre di più a far valere i propri diritti e che non trova gli strumenti adeguati per poterlo fare" (66). La polemica sul `paese immaturo' è secolare; la tesi e

ra stata sostenuta perfino dai `vecchi' radicali sulle colonne del `Mondo' (67) all'indomani della sconfitta delle liste PRI-PR alle elezioni politiche del 1958: sfuggiva loro che il `paese maturo' non aveva canali di espressione e che le elezioni, fintanto che i `mass-media' erano monopolizzati dal governo, non fornivano una reale possibilità di scelta. I radicali ne fecero un `cavallo di battaglia'; era, d'altronde, una scelta obbligata, vista la generale avversione dei gruppi politici dirigenti alle loro iniziative apparentemente `scandalose'; essi non potevano fare altro che appellarsi al popolo'.

"Una rigorosa e organizzata battaglia anticlericale farebbe cadere - scrivevano nel 1967 - l'alibi di un popolo insensibile, di un paese irresponsabile, di un laicismo solamente prepolitico e agnostico, alibi che cela la realtà di una classe dirigente `laica' pavida, accomodante e molto più retrograda ed incapace dei cittadini che pretende di esprimere e dirigere" (68).

E tre anni dopo: "Ricomincia la triste storia del `popolo immaturo'. Si afferma che il popolo italiano e le `masse cristiane' non sono maturi per questa nuova battaglia di liberazione (l'aborto ndr). Come accadde per non pochi anni di sentire dire per il divorzio. Immaturi, invece, sono questi dirigenti che continuano a pensare ad un popolo incivile, debole, incosciente, da `proteggere"' (69).

Il problema era, quindi, di creare strumenti di partecipazione non mediati e creativi: "Rispetto ai comunisti, come rispetto a tutte le altre forze della sinistra, il compito dei radicali è quello di condurre un dialogo spregiudicato, non ai vertici, alla maniera frontista, non con le dirigenze, ma per quanto possibile alla base, alla radice dei possibili momenti unitari a partire dalle situazioni e dalle condizioni obiettive dei lavoratori, dei militanti e dei simpatizzanti" (70).

Ma la base dei partiti e dei sindacati era pur sempre una minoranza del corpo politico; e i destinatari delle loro proposte politiche erano invece la totalità dei cittadini. Nasce così la teoria della `gente' come `classe': "Ad avviso dei radicali, la classe degli sfruttati moderni assume sempre più essenzialmente, al momento dell'impatto e dello scontro, l'aspetto e la veste di `gente'; costituita dal lavoratore, come dal non-lavoratore sempre meno garantito dalle scelte del capitalismo di stato; dal lavoratore come dal consumatore" (71). "Si evidenziava sempre di più il dato dell'esistenza di una pluralità di rivendicazioni che passavano non solo attraverso il momento dell'occupazione e del luogo di lavoro, ma attraverso tutte le dimensioni della vita associata, il tempo libero, i consumi, la famiglia, la sessualità, la sanità, l'assistenza, la cultura, la scuola, le organizzazioni militari e quelle carcerarie, le strutture burocratiche dello stato, i mezzi di comunicazione di massa, le istituzioni religio

se... Ne conseguiva l'emergere di una vasta gamma di canali di iniziativa e di scontro politico, con la conseguente impossibilità di distinguere alleati e avversari secondo l'appartenenza partitica tradizionale o quella religiosa o quella di classe" (72). E' questa l'origine di ciò che viene solitamente definito dai suoi avversari politici il `qualunquismo radicale', di cui si parlerà successivamente.

E' "il principio della separazione necessaria tra società civile e società politica e tra questa e lo Stato" che determina nei radicali - secondo Teodori - (73) il rifiuto del controllo statale nella regolamentazione dell'aborto, il rifiuto del finanziamento dei partiti, la rivendicazione dell'esercizio dei referendum. Cofrancesco, invece, fornisce una analisi diversa: i radicali sono caratterizzati da una forma di `illuminismo politico' che li porta "a riguardare la società civile sempre come potenzialmente buona e quella politica sempre come tendenzialmente oppressiva e malvagia". "In piena coerenza con questo atteggiamento, essi hanno esasperato la contrapposizione tra società civile intesa come la fonte del consenso e società politica riguardata con diffidenza solo come detentrice della forza coattiva. E' dai radicali, più che da ogni altro gruppo politico, che, per usare le parole di Bobbio, `la dicotomia di società civile e società politica viene per lo più usata allo scopo di mostrare il distacco, com

e si diceva un tempo, tra paese legale e paese reale, per mettere in evidenza i termini in cui si rivela una crisi di legittimità, e il modo o i modi in cui la crisi può essere risolta, consistenti appunto in una riscoperta o rivalutazione o liberazione della società civile nella quale risiedono... le forze vive, spontanee, sane, non corrotte della società"' (74). V'è però un aspetto positivo - rileva Cofrancesco: il radicale "guarda al futuro e non al passato, vuole rinnovare, non restaurare; e tuttavia al passato rimane in certo modo legato, nella misura in cui si avverte (in lui) la sopravvivenza di un ideale di vita comunitaria, che intende la partecipazione alla lotta politica non solo come difesa di interessi determinati di gruppo e di classe (che è un po' il succo delle moderne teorie poliarchiche e pluralistiche), ma soprattutto come uno `scendere in piazza' per discutere con gli altri, con l'uomo del bar non meno che col politico di professione, di decisioni che, riguardando tutti allo stesso modo,

debbono coinvolgere e impegnare tutti" (75).

Si arriva così al tema del `qualunquismo' e della incerta collocazione di `classe' dei radicali. L'accusa di `qualunquismo' è la risposta dei diretti interessati agli attacchi rivolti dai radicali alla classe politica tradizionale; se da una parte si accusano i gruppi politici dirigenti di non `rappresentare' i depositari della sovranità popolare, questi replicano che i radicali seminano e fanno leva su un malcontento generico, sostanzialmente reazionario. Secondo i radicali (1967) i partiti tradizionali non vogliono prendere atto di e risolvere un "`distacco dalla politica' (che) appare più come un `distacco' da una `certa' politica, che altro; e non è liquidabile con la facile accusa di qualunquismo" (76).

Omettendo di riportare tutto lo scambio di `botte e risposte' tra i protagonisti di questa polemica, si riferiranno qui i pareri di tre studiosi: Per Matteucci, "i radicali, in fondo, non sono, né possono essere, un partito collocabile nella geografia parlamentare: stando dalla parte dell'individuo contro l'autorità, essi sono portati a contestare continuamente l'operato della classe politica, a essere sempre insoddisfatti. Taluno dirà che questo è qualunquismo, ma questa parola magica non è un argomento logico: infatti, in tutta la tradizione del radicalismo europeo... gli `uomini qualunque' sono dei cittadini politicamente attivi, che si sentono veramente, in quanto parte del popolo, sovrani e trattano la classe politica come la propria mandataria e non come il proprio padrone" (77). Anche Galli Della Loggia cerca di dare al termine un significato più preciso e meno dispregiativo: "Nel repertorio concettuale e nel linguaggio della sinistra, per indicare questa sensazione (d'insofferenza, ndr)... si usa una

parola che al solo pronunciarla dovrebbe evocare all'istante il marchio dell'infamia: qualunquismo!... Io credo, tuttavia, che non ci si debba far spaventare dalle parole e che senza vergogna si possa e si debba dire che il PR rappresenta... la protesta `qualunquista' del paese". "Il `qualunquismo' è il sintomo del fatto che i meccanismi democratico-rappresentativi, con tutte le loro appendici, interessano sempre di meno il cuore e il cervello della gente". "Il `qualunquismo' prende atto dei caratteri del sistema che ha di fronte e li ribalta: se il sistema non comporta più alcuno scontro ideologico-politico, ebbene esso sarà contro le ideologie e contro la `politica"' (78).

Per Cofrancesco, invece, sono numerose le differenze di fondo fra qualunquismo e radicalismo: "Il radicalismo è il fratello aristocratico del qualunquismo di Giannini: in entrambi i casi, vengono prese le difese dell'uomo della strada, a cui non si promette - come al proletariato - il potere, ma solo il diritto di essere ascoltato dal governo, di presentargli le proprie rimostranze". Ma, "se il qualunquismo chiede che la politica, intesa come momento conflittuale della partecipazione al controllo o al condizionamento delle scelte di governo, sia sostituita dall'amministrazione, il radicalismo vuole che l'amministrazione - come gestione degli affari pubblici da parte di uno strato di burocrati responsabili solo dinanzi ai propri superiori e indifferenti ai bisogni degli amministrati - sia sostituita dalla politica". Inoltre "la base elettorale del qualunquismo è da ricercarsi prevalentemente in ceti non legati ad un ruolo ben definito nel processo produttivo...; la base di simpatizzanti del radicalismo, al co

ntrario, è costituita, in genere, da cittadini che, avendo un'occupazione o un ruolo stabile, hanno pure una maggiore coscienza dei loro diritti e dell'arma elettorale a loro disposizione". Infine, "i qualunquisti vogliono `limitare' l'azione di governo...; i radicali invece chiedono al governo la difesa attiva e l'allargamento della sfera delle libertà civili" (79). Come si vede, i giudizi riportati tendono o a negare l'attributo di `qualunquista' al PR (Cofrancesco) o a riferirglielo conferendogli un significato positivo (Matteucci, Della Loggia). Nonostante queste valutazioni più meditate, è ragionevole supporre che i gruppi politici dirigenti continueranno a qualificare, dispregiativamente, il PR come `qualunquista' fintanto che permarranno le condizioni che hanno reso possibili i `successi' radicali; fintanto, cioè, che i partiti punteranno - come scrive Angelo Panebianco - "ad esercitare una egemonia sulla società civile, alla direzione unitaria dei settori che organizzano e/o rappresentano" e i radica

li persevereranno nel "progetto politico ...di ridare alla società civile un'espressione politica autonoma, facendo `saltare' almeno in parte la mediazione della società politica" (80). Questa strategia potrebbe anche anche essere spiegata con le parole di Elmer Schattschneider: "E' il (gruppo) debole che vuole socializzare il conflitto, cioè coinvolgervi un numero crescente di persone fino a che l'equilibrio del potere ne risulti alterato" (81).

FEDERATIVISMO E ASSOCIAZIONISMO

La loro particolare concezione della `società civile' spingeva i radicali a sviluppare strumenti teorici e pratici per comunicare con essa, raccoglierne le spinte, dargli sbocco istituzionale. Il federalismo/federativismo radicale trova origine, principalmente, nella comune militanza di molti di essi nel Movimento Federalista Europeo. Erano gli anni del `Patto di Roma', della costituzione di organismi comunitari, delle grandi speranze per una `Europa unita'. I `federalisti' si contrapponevano allora agli `europeisti': proponevano un parlamento comune eletto a suffragio elettorale, una moneta unica, insomma, gli Stati Uniti d'Europa; gli `europeisti', invece, erano accusati di moderatismo e minimalismo, di proporre organi di emanazione diretta dei vari governi, anziché rappresentativi delle comunità. Al IX congresso del MFE a Lione, nel febbraio del 1962, parteciparono diversi radicali in qualità di delegati della sezione romana del Movimento, presentando un documento intitolato "Per una politica federalista

di sinistra" (82) sottoscritto da G. Rendi, A. Bandinelli, F. Bugno, M. Colucci, S. Pergameno, S. Silvestri e Gf. Spadaccia. Il federalismo era la causa/conseguenza dell'anti-nazionalismo e dell'internazionalismo radicale. "Internazionalismo radicale significa - scriverà 16 anni più tardi Bandinelli - rifiuto del quadro e della logica nazionale, consapevolezza che i problemi economici e istituzionali, anche in termini di classe, non si risolvono se non in ambiti sovra - o comunque infra - nazionali, che sono gli stessi in cui opera la grande tecnostruttura moderna e il capitale... Le vie nazionali al socialismo, di conseguenza, sono o impossibili, o una caricatura, o un pericoloso equivoco: lo Stato nazionale - sulla scia di un federalismo di un Rossi - non può essere che culla di nazionalismo, di militarismo, di clericalismo, di oppressione autarchica di classe, nonostante tutto già profondamente antistorica". "Con il federalismo prende corpo e dignità teorica e storica, dunque, il deperimento dello Stato,

dello Stato nazionale" (83). Ancora una volta c'era la polemica con la sinistra tradizionale, l'indicazione di vie alternative, come risulta anche da questa dichiarazione di Pannella in occasione della morte di Palmiro Togliatti nel '64: "Profondamente ancorato alla realtà nazionale, in questo forse è la radice stessa dei limiti (di Togliatti ndr). L'obiettivo dell'incontro tra masse cattoliche e masse socialiste, con la contemporanea rinuncia alla realizzazione dell'unità della sinistra socialista e laica, l'affermazione dell'attualità delle `vie nazionali' al socialismo in luogo della ricerca di concrete e strutturali vie sovranazionali ed internazionali, non sono che due aspetti particolarmente significativi di questa sua adesione alla tradizionale realtà italiana" (84). "La teorica federalista - aggiunge Bandinelli - era lo strumento della presa di distanza dal modello del blocco storico gramsciano, dell'egemonia, del `nazional-popolare'. Attraverso Gramsci, i radicali vedevano continuarsi e consolidarsi

vecchi modelli, con il rischio di legare le spinte di progresso, avanzate, europee (anche in un'ottica gobettiana) alle strutture e forze più arretrate della cultura e della vita nazionale" (85).

Con queste premesse, era abbastanza naturale che i `nuovi' radicali, nel ristrutturare il partito cercassero di infondervi le teorie federaliste, a partire dalla concreta opera di ricostruzione del PR. Nell'assemblea dell'aprile '65 si affermava: "Crediamo nella necessità di articolare il nostro lavoro in maniera estremamente federativa, al nostro interno dando grande spazio alle autonomie dei singoli gruppi, cellule, settori che aderiscono al partito... Fare di noi stessi un modello di sviluppo per lo stato, e non rimandare a domani la realizzazione dei principi e degli obiettivi ideali nei quali crediamo" (86). Gli stessi concetti erano espressi in un "Contributo di un gruppo di amici romani al dibattito precongressuale", diffuso in quella stessa assemblea: "Il Partito Radicale ritiene che l'organizzazione di un moderno e democratico partito della sinistra debba essere studiata sulle seguenti basi: a) struttura federalista del partito; b) riconoscimento di ampie sfere di autonomia sia alla direzione, sia a

gli organi regionali locali e di settore nell'ambito delle rispettive competenze; c) autonomia del momento rappresentativo nel rapporto fra partito e parlamentari" (87). D'altronde il federalismo/federativismo è in intima connessione con l'anti-ideologismo, come viene rilevato in questo passo dell'intervento di Pannella al convegno di Faenza nel '66: "Il pensiero federalista sostiene che lo stato federale è più forte dello stato accentratore, proprio perché vi sono maggiormente specificate le responsabilità statuali; ha maggiori possibilità di reggere nella storia perché, a differenza dell'altro (lo stato nazionale ndr), non pretende di organizzare autoritativamente l'intera vita collettiva. E' proprio qui che si fondano, nella nostra concezione del partito, laicismo e federalismo... Il partito a struttura federalistica e federativa si riunirebbe a Congresso per decidere su un limitato numero di proposte programmatiche, da realizzarsi in un determinato periodo di tempo - intorno alle quali si porrebbe il pro

blema della disciplina, dell'unità - mentre poi spetterebbe alle singole organizzazioni la discussione e la decisione attorno agli altri problemi" (88). Di conseguenza, "un partito federativo non può essere ideologico; mancherebbe degli strumenti idonei, statutari, per esercitare un qualsiasi controllo in tal senso" (89).

Il federalismo/federativismo non è concepito dai radicali nella sola funzione interna di partito: esso diventa l'elemento indispensabile per attuare quell'unità e alternativa delle sinistre che è l'obiettivo, da vent'anni, della strategia dei radicali. E non solo da essi; sostiene Guiducci che "non certo un patto partitico, ma solo un impegno federativo dei movimenti della società civile, basato su una ben diversa fase di costituente aperta, potrebbe contrastare il disegno tecno-autocratico" (90). Ed è sempre Guiducci che scrive: "In Italia due rivoluzioni sono mancate nella storia contemporanea; quella protestante, nel senso di laica, e quella francese, nel senso di illuministica, scientifica ed enciclopedica. Si è così creata una tendenza alla istituzionalizzazione politica nella forma della Chiesa egemonica, totalizzante, universalizzante, piuttosto che nella forma associazionistica, federativa, empirica e pragmatica di altri paesi che hanno vissuto le `due rivoluzioni"' (91). Le conclusioni, quindi, dovr

ebbero essere: "Il primo punto per adeguare la sinistra italiana ad una società civile oppressa, ma matura e capace di autogestione, sarebbe di `chiudere' i partiti così come ancora sono, e `aprire' i movimenti orizzontali e autogestiti, organizzati in forme originali per creare una diversa sinistra unificata e articolata in una libera federazione, in cui ogni parte possa avere la sua esplicazione" (92).

Negli anni '60 il federalismo radicale aveva anche un significato polemico nei confronti dell'unica forma di unità che aveva caratterizzato la sinistra: il frontismo. "Tutto il nostro passato e le nostre polemiche verso quel tipo di unità, dovrebbero portarci ad escludere una soluzione di tipo frontista, una unità concepita soltanto come politica di alleanze e di accordi programmatici ed elettorali". Cosicché, "una unificazione di tipo federativo appare l'unica risposta valida a realizzare una unità laica e aperta delle forze della sinistra" (93).

Secondo i radicali l'ipotesi federativa si proponeva di risolvere positivamente, nella sinistra, "il dramma della ricerca di un'impossibile unità perché attuata sempre e soltanto a scapito della diversità nella povertà burocratica dell'appiattimento; e l'altro dramma dell'altra ricerca di un'altrettanto impossibile diversità, perché articolata in una sequenza di inutili scissioni" (94).

Parlare di scissioni significa necessariamente affrontare il tema delle correnti di partito o, come dice Luigi D'Amato, del `partito di correnti'. Esaltando la diversità, conferendole dignità e quasi `naturalezza', i radicali si sforzavano di indicare una via d'uscita dalla constatazione che "la corrente è fenomeno immanente a tutti i partiti" (94 bis) e che l'unico federativismo realizzabile fosse quello di una "confederazione di correnti".

La teoria del federalismo radicale si concretò nella promozione o nel sostegno ai cosiddetti movimenti federati (95): LID (1967), MLD (1970), LOC (1972), FUORI (1974), CISA (1974). Angelo Panebianco ha analizzato attentamente la natura sociologica dei legami fra partito, movimenti federati e movimenti collettivi. "Il PR si trova al centro di un rapporto complesso con la società civile che gli consente di ricevere, senza mediazioni burocratiche, le domande dei movimenti collettivi. I movimenti federati al PR... mantengono un legame privilegiato... con i movimenti collettivi (con le lotte dei soldati, delle donne, delle minoranze etniche e sessuali ecc.) ... La sintonia del PR con questi movimenti è data appunto dal legame istituzionale con i singoli movimenti federati... radicati a loro volta nei diversi movimenti di contestazione. Ciò spiega anche, in parte, la capacità del PR di anticipare, nelle sue azioni politiche, i temi che, di lì a poco, diventeranno obiettivi di movimenti di massa: la lotta antimilit

arista che precede la contestazione nelle caserme nelle sue forme più generalizzate, la battaglia per l'aborto impostata prima che divenisse il fulcro della lotta e della crescita del movimento femminista". "Da questo particolare rapporto discendono poi rilevanti conseguenze: il PR mantiene i caratteri di un partito politico anomalo, a metà strada fra il partito vero e proprio, da cui lo separa l'assenza di strutture di controllo sociale e di ricomposizione unitaria (aggregazione) delle diverse domande politiche, e il movimento politico di contestazione con cui ha in comune un legame non meditato burocraticamente con la società civile" (96). E per quanto esili possano essere apparse le strutture di questi movimenti federati, la realtà è che essi sono stati determinanti per l'attuazione dei vari progetti radicali: non è un caso, infatti, che i maggiori `successi' radicali (divorzio, aborto, obiezione di coscienza) coincidano con la presenza di un combattivo movimento federato.

I `movimenti federati' radicali corrispondono, peraltro, a quelle forme di "associazionismo per le riforme" di cui Pizzorno nel '69 lamentava l'assenza, indicando l'unica eccezione, appunto, nel movimento divorzista (97). Essi vengono a spezzare quella consuetudine, per cui "PCI e DC tendono - le parole sono di Paolo Farneti - a monopolizzare l'associazionismo e, per meglio controllarlo, a trasformarlo al suo interno da associazionismo di solidarietà a associazionismo di interesse" (98). Ed estendendo il problema dell'associazionismo, Zampetti affermava: "I partiti che si sono costituiti nell'immediato dopoguerra sono stati concepiti come associazione di individui, non à già come associazione di individui inseriti nei gruppi". "La vera funzione dei partiti consiste, allora, nel collegare una società di gruppi, efficiente e democratica, allo stato, dando così vita ad una comunità intesa in senso solidaristico, come solidarietà di gruppi". E concludeva: "Per... dare un fondamento popolare al governo, occorre c

he il partito risolva due problemi di fondo, che sono i due teoremi fondamentali della vita politica contemporanea: a) inserire gli elettori nei partiti senza costringerli ad iscriversi; b) inserire i gruppi nei partiti senza chiedere la iscrizione dei suoi membri" (98 bis).

Per concludere si può affermare che nei `movimenti federati' si trovano condensati e messi in atto i principi dell'associazionismo universitario e anglosassone, dell'autonomia e del partecipazionismo, di cui si è parlato nella prima parte di questo capitolo, e del federalismo/federativismo.

LA METODOLOGIA

Finora si è prestata particolare attenzione agli aspetti teorici del Partito Radicale. Ma una delle caratteristiche del PR è quella di aver cercato, anche se non poche volte senza successo (99), di superare lo iato fra teoria e prassi, tipico della tradizione politica italiana cui si è già accennato nella conclusione del capitolo II; i radicali cercavano, insomma, di non "predicare bene e razzolare male". L'ideazione di originali strumenti di lotta nasce da questa ricerca; essa, più di ogni aspetto della politica radicale, è frutto dei numerosi rapporti internazionali intrattenuti dal PR di cui si è fornito un elenco nelle pagine precedenti (100) ed ha caratterizzato profondamente di fronte all'opinione pubblica l'immagine del PR, definito, a seconda dell'inclinazione politica dei commentatori, `fantasioso' oppure `folkloristico'. Di questa connotazione saranno trattati poi tre argomenti che paiono i più rilevanti:

1) le tecniche di informazione

2) la nonviolenza

3) la disobbedienza civile

Le tecniche di informazione

"Data la scarsa consistenza numerica, il Partito Radicale ha pesato sulla vita pubblica italiana... quasi esclusivamente attraverso tecniche controinformative" scrivono Umberto Eco e Patrizia Violi (101). In realtà, sembra più appropriato rovesciare questo giudizio, nel senso, cioè, di sostenere che la "scarsa consistenza numerica" dipende dalla chiusura dei canali ufficiali di informazione. La ricerca di "tecniche controinformative" è il tentativo di aggirare il silenzio dei `mass-media'.

Esaminando la multiforme stampa radicale (dal volantino al comunicato stampa, dall'agenzia stampa ciclostilata al più tradizionale giornale) si può dire che esistono due principi-base per la concezione radicale dell'informazione: il primo, meta-politico, è: "E' necessario conoscere per poter giudicare", ed ispira tutta l'azione radicale di rivendicazione di informazione nei confronti dei mass-media; il secondo è: "Il valore di un'azione politica è proporzionale al numero delle persone che ne vengono a conoscenza", e condiziona i modi d'essere dell'azione radicale.

Secondo i radicali perché possa esserci democrazia in una `società di massa' è indispensabile che i soggetti politici abbiano accesso ai mezzi di comunicazione di massa per poter trasmettere le proprie proposte politiche ai più larghi settori del corpo politico. Fintanto che questo non è possibile, i partiti esclusi non possono "concorrere a determinare l'indirizzo della politica nazionale" (102) e "il sistema dei partiti è meno una fotografia dell'opinione pubblica di quanto questa non sia una proiezione del sistema dei partiti" (103).

In sostanza, adottando un modello schumpteriano, si verifica quello che avviene in un mercato nel quale la distribuzione sia in mano ad un monopolio: un `nuovo prodotto' non ha alcuna possibilità di competere sul mercato perché non può essere `scelto' dai consumatori. E' quanto sostiene Melucci quando scrive, in polemica con la teoria dei `gruppi', che "esiste, in un sistema, una vasta area di non-domanda, di interessi esclusi, emarginati o repressi che non arrivano ad esprimersi e ad organizzarsi, che non accedono al sistema politico perché non sono riconosciuti" (104). Anche Lasswell Kaplan danno un rilievo centrale al problema dell'espressione delle proposte politiche: "Se allarghiamo il concetto di `informazione' fino ad includervi le notizie sulla cui base si prendono le decisioni è evidente che in una società democratica, dove la partecipazione al processo di decisione è diffusa, la possibilità di una opinione pubblica razionale dipende in misura considerevole dal modo in cui il quadro di attenzione p

ubblica è organizzato dai mezzi di comunicazione di massa" (105).

Senza questa premessa non si comprende il continuo violento attacco dei radicali ai metodi di gestione dei `mass-media', in particolare quelli in mano al monopolio pubblico, e non si comprende nemmeno la non partecipazione diretta alle elezioni politiche per un così lungo tempo dalla `rifondazione'. Si sono citati nel capitolo I i giudizi di Ernesto Rossi, nel 1959, sulla Rai-Tv; come s'è detto essi rimarranno una costante della polemica radicale. Scrive "Notizie Radicali" nel 1970: "Quando si preclude l'uso della Televisione e della Radio, ufficialmente, a qualsiasi forza che non sia già consistentemente rappresentata in Parlamento, non solo censurandone le notizie sulla attività quotidiana, ma escludendola dalla competizione elettorale, quando le `Tribune politiche' vengono assegnate esclusivamente a coloro cui - su un altro piano - si assegnano a prezzi speciali e `politici' la carta per i quotidiani e le pubblicazioni periodiche, ci si trova dinanzi ad un `racket' della informazione e ad un sindacato di

partiti di regime che si attribuiscono la spartizione della responsabilità parlamentari e di gestione dello Stato" (106). E in quello stesso anno l'accordo con il PSI per il sostegno radicale nelle elezioni di primi consigli regionali si basò, oltre che su alcune battaglie in corso (divorzio, obiezione di coscienza ecc.), su un impegno comune per la modifica dei regolamenti di `Tribuna elettorale' e `Tribuna politica'. L'accesso alla Rai-Tv è al centro di due delle più clamorose e pericolose iniziative radicali, nel 1974 e nel 1976, condotte attraverso il metodo degli scioperi della fame e della sete di Pannella e decine di altri radicali. E già nel 1970, con una occupazione estiva della sede Rai a Roma, radicali e divorzisti erano riusciti ad ottenere una serie di dibattiti televisivi `faccia a faccia' tra oppositori e sostenitori della legge sul divorzio. La raccolta delle firme per un referendum abrogativo della legge sulla Rai-Tv venne sospeso a metà luglio del '74 per l'intervento della Corte Costituzio

nale che dichiarò incostituzionale la legge e dettò principi in gran parte coincidenti con le richieste radicali.

Quando l'accesso alla radio o alla televisione viene ottenuto, i radicali si sforzano di `distinguersi' dagli altri, badando non solo ai contenuti dei loro messaggi ma anche alla forma in cui vengono trasmessi: di qui l'indicazione dell'indirizzo del partito e del suo numero di conto corrente postale, con l'invito a scrivere, iscriversi e sottoscrivere (107), la comunicazione di luoghi e orari di manifestazione (108), l'uso di cartelli e fotografie, fino all'imbavagliamento e il silenzio per una durata di 24 minuti davanti a un pubblico valutato sui 7 milioni di telespettatori (109).

Fino a quando non ci fu una ragionevole certezza di poter conquistare spazio televisivo, i radicali non parteciparono direttamente con proprie liste alle elezioni, dando di volta in volta indicazioni di voto a sinistra (1963), per il PSIUP (1966), scheda bianca (1968), PSI (1970), astensione (1972); in questa ultima occasione ci fu una polemica fra PR e `Manifesto', i primi accusando i secondi di avvalorare, con la presenza di proprie liste, un `gioco truccato', essendo preclusa al movimento della sinistra extraparlamentare ogni accesso radiotelevisivo. I risultati (250.000 voti) confermavano che non erano assolutamente sufficienti insediamenti sociali di una certa consistenza e un quotidiano per poter raccogliere un fruttuoso consenso elettorale.

Non meno aspra l'iniziativa radicale nei confronti della stampa cosiddetta `indipendente': la richiesta di informazione "onesta e corretta" parte dalla considerazione che la stampa costituisce un `servizio di pubblica utilità' e quindi deve sottostare a determinate regole di obiettività e di imparzialità fra cui la separazione della notizia dal commento. A ciò si aggiunga la constatazione che i giornali italiani sono in gran parte sovvenzionati dalla collettività attraverso le varie leggi e provvedimenti sull'editoria e conseguentemente devono essere al suo servizio.

La volontà di comunicare alla generalità del corpo politico non ha portato soltanto a privilegiare l'accesso ai `mass-media' ma anche a scegliere particolari organi di stampa propri. "L'errore (dei radicali del '55-'60, ndr) - afferma Pannella - era quello dell'autosoddisfazione involontaria derivante dalla scelta di una comunicazione interna ad una comunità di non più di 40-50.000 lettori. In questo il Partito Radicale di allora era, molto più del Partito Radicale attuale, l'antecedente del `Manifesto"' (110). I `nuovi' radicali scelgono invece, fin dall'inizio, degli strumenti che possano fare da tramite verso organi ben più potenti e diffusi. "Pubblicare un'agenzia di stampa (`Agenzia Radicale' ndr) risultava - scrive Teodori - come la scelta di uno strumento funzionale agli obiettivi dell'azione che i nuovi radicali intendevano svolgere e ai metodi connessi con quegli obiettivi" (111). E l'obiettivo, negli anni '63-'65, era soprattutto raggiungere le basi dei partiti e dei sindacati di sinistra, cosa pos

sibile solo passando attraverso l'Unità, l'Avanti o i giornali letti dai militanti di sinistra. Un ricchissimo notiziario sindacale, quindi, e, soprattutto, internazionale che segnalava, oltre a tutte le battaglie per i diritti civili, ogni iniziativa a favore dell'unità delle sinistre e, prima fra tutte la stampa italiana, notizie riguardanti il progressivo impegno americano nel sud-est asiatico e la resistenza vietnamita, ottenute direttamente da Saigon. Lo strumento dell'agenzia di stampa verrà ripreso, dopo l'esperienza di Agenzia Radicale ('63 - '65), nel 1974 con `Notizie Radicali'.

A questa scelta di strumenti `poveri' (per fare un'agenzia di stampa è sufficiente un telefono, qualche macchina da scrivere e un ciclostile) corrisponde il cartello, importato dai paesi anglosassoni sul modello degli `uomini-sandwich'; e non è solo una questione economica, pur determinante in un partito senza sostegni finanziari esterni: il cartello costituisce, soprattutto negli anni '60, una novità, richiama l'attenzione ed è molto più comunicativo di uno slogan urlato o di un lungo volantino.

Al principio del `creare notizie' rispondono invece le modalità delle azioni radicali come i sit-in (clamoroso quello all'altare della patria nel '67), le occupazioni (delle sedi Rai o delle redazioni di giornali), gli incatenamenti (davanti alla questura o, perfino, all'estero come a Sofia nel '68), gli striscioni variopinti calati o alzati improvvisamente nel corso di eventi pubblici (per la pillola a piazza S. Pietro, Pasqua 1967, o per il NO durante il comizio di Fanfani nella campagna per il referendum abrogativo del divorzio); tutti accorgimenti per stimolare oltre all'informazione scritta anche quella visiva. A questo proposito, Baget-Bozzo scrive: "la sua (del PR, ndr) capacità si fonda sulla cultura delle immagini che consente l'efficacia risolutiva della parola e del gesto" (112).

Per concludere, va menzionata un'altra tecnica, presa in prestito, questa volta, dalle organizzazioni cattoliche: l'uso delle ridottissime tariffe di abbonamento postale per diffondere a basso costo giornali od opuscoli; e a questo mezzo va collegata la prassi di raccogliere per strada sottoscrizioni ed appelli vari, in cui i cittadini indicavano, oltre a nomi e cognomi, anche il recapito postale, che venivano poi riversati in indirizzari di possibili simpatizzanti. Una circolare della segreteria del PR nel marzo del '67 richiama la necessità di "procurarsi e trasmettere indirizzari di qualsiasi tipo, politico o no, anche (e meglio) se molto vasti. Insistiamo su questo punto, essenziale per la conoscenza delle nostre posizioni, che non possono essere trasmesse attraverso la grande stampa o la Rai-Tv" (113).

La nonviolenza e la disobbedienza civile

Non è questa la sede per analizzare computamente la teoria e la prassi radicale della nonviolenza e della disobbedienza civile. Oltretutto, il necessario richiamo al pensiero di personalità come Thoreau e Gandhi, Capitini e Dolci, comporterebbe un excursus che non rientra nell'economica di questo studio. Verranno quindi indicati qui soltanto gli aspetti più caratterizzanti dell'adozione della teoria e della prassi nonviolenta.

La nonviolenza entra nel patrimonio ideale radicale nei primi anni '60 assieme e come conseguenza logica dell'antimilitarismo. Se quest'ultimo è lotta contro la violenza eretta a istituzione e pedagogia, ne deriva che gli antimilitaristi coerenti non possono che adottare, nelle loro battaglie, il metodo diamentralmente opposto: la nonviolenza.

Scriveva Giuliano Rendi nel 1962: "Il metodo della nonviolenza è stato usato in questo dopoguerra con sempre maggiore frequenza, soprattutto quando si voleva drammatizzare il contrasto tra un sistema democratico e delle esigenze di umanità e di giustizia che quel sistema disconosce". "Noi riteniamo che il metodo della nonviolenza sia la più efficace forma di manifestazione popolare in un sistema costituzionale come quello italiano, e che contribuisce al rafforzamento democratico e all'incivilimento della lotta politica. Non si tratta di conquistare nuovi diritti, ma di usare, al limite, quelli esistenti per raggiungere obiettivi democratici" (113 bis).

E' il risultato, inoltre, di una analisi storica del giacobinismo e del leninismo: "Grande è sempre stata la sfiducia dei radicali, dopo tante esperienze storicamente fallite, della rivoluzione armata globale di tipo giacobino, che ha per risultato la sostituzione di un gruppo di potere al posto di un altro; sostituzione da cui deriverebbe poi automaticamente la soluzione di tutti i problemi, l'instaurazione di tutte le libertà, la realizzazione di tutte le riforme: tutte cose che poi non arrivano mai; e invece arriva Napoleone e arriva Stalin" (114).

Se la nonviolenza radicale è in polemica con i miti della nuova sinistra estraparlamentare, lo è altrettanto con quella visione, che si potrebbe definire "umanitaria-vegetariana", assai diffusa in certuni paesi, per la quale la nonviolenza è essenzialmente interiore e quindi scevra da ogni mobilitazione collettiva e politica. Per i radicali, invece, nonviolenza non vuol dire affatto passività e sottomissione. E a questo rifiuto della sottomissione si allaccia la `disobbedienza civile' radicale di cui, nel capitolo I, parlando di Guido Calogero, si sono forniti alcuni elementi teorici. Se il metodo nonviolento è in sintonia con il particolare rapporto che i radicali hanno con la società civile, in quanto strumento di maggioranze, dei "pacifici cittadini", utilizzabile teoricamente da tutti, senza distinzione di età o di sesso, quello della `disobbedienza civile' è in sintonia con la visione radicale del diritto: la `disobbedienza' è, infatti, per definizione disobbedienza ad una legge e comporta di conseguenz

a l'intervento dell'autorità giudiziaria e un processo. E, per i radicali, "il processo non è il luogo in cui si consuma la truffa e la mistificazione del garantismo borghese, ma, al contrario, è il luogo ed il momento in cui possono e devono essere messe a nudo le contraddizioni del regime e della classe al potere" (115). Per cui il momento del processo viene spesso addirittura cercato attraverso pubbliche autodenunce (ad es. per aborto, per reati d'opinione ecc.)

In queste azioni, i radicali fanno leva, come nota Panebianco, sullo iato esistente tra Costituzione formale e Costituzione materiale (116) cercando di "costringere coloro che si richiamano a certi valori alla più assoluta coerenza" (117).

Il senso più pieno di questa prassi è così sintetizzato da Bandinelli: "Nell'attivazione delle istituzioni, lo strumento più rigoroso è la disobbedienza civile... Se lo Stato non è un assoluto, l'infrazione alla legge scritta, l'obiezione di coscienza sono un metodo, il più rigoroso, per attivare, attraverso la `scommessa' personale, la verifica della legge e dell'istituzione; ...il disubbidiente civile può appellarsi alla giuria dell'opinione comune, cui fare constatare e giudicare da quale parte viene commessa l'infrazione della norma, della legge; un appello senza il quale la disubbidienza civile non è possibile, non soltanto in senso utilitario" (117 bis).

LA PROGETTUALITA'

Si affronterà per ultimo, in questo capitolo, la caratteristica della `progettualità' radicale. Essa è la naturale conseguenza dell'anti-ideologismo, ma più ancora di quest'ultimo aspetto, ha fatto sostenere a molti che il PR non è partito bensì un movimento o un gruppo di pressione o un'associazione ibrida. E' una conferma indiretta della originalità di molti elementi del Partito Radicale che ne impediscono la catalogazione in schemi classici o tradizionali.

"E' fondamentale stabilire che il partito nel congresso si impegna su singole battaglie politiche. I programmi di carattere generale sono fonte di irresponsabilità e creano il partito giacobino, ideologico e paternalistico... e lascia arbitri i funzionari di partito di determinare concretamente le linee di politica attiva" (118) affermavano i radicali nel '67 alla vigila del loro congresso di `rifondazione'. Questa che appare una posizione molto chiara e consegue da quanto si è cercato di esporre nelle pagine precedenti non trovò consenso nemmeno in persone solitamente concordi con la politica radicale, come Wladimiro Dorigo, il quale in una comunicazione al congresso del PR, a Roma nel 1971, scriveva che "un partito, non importa quanto piccolo... non può non dico ambire alle finalità della parola d'ordine congressuale (il `partito laico', ndr), ma nemmeno comportarsi come tale, se non si propone e propone un discorso completo sulla realtà nazionale e internazionale, a ogni livello". E chiudeva il suo interv

ento drasticamente: "Il Partito Radicale non è forse stato mai un partito, certamente non lo è oggi, e men che mai può diventarlo domani" (119). Gli stessi argomenti sono stati ripresi sette anni dopo da Paolo Ungari: "E' il PR un partito politico? E', specificamente, uno di quei partiti che la nostra Costituzione chiama a `determinare con metodo democratico l'indirizzo della della politica nazionale' e, come tali, sono istituzioni della Repubblica, momenti essenziali cioè dello stato-ordinamento e canale delle sue linee di forza e di movimento in direzione dello stato-apparato?" "Un partito è partito politico quando, anche dall'opposizione, si fa carico di quegli stessi problemi che dovrebbe affrontare se fosse forza di governo". "Un partito politico... si riconosce dalla responsabilità complessiva che assume di fronte alla situazione interna e internazionale di un paese e qui, quale che sia il merito di singole campagne sostenute, o la solidarietà di fronte a singole persecuzioni subite dal PR, le cose si

fanno nebbiose" (120).

I radicali hanno sempre risposto molto vivacemente a queste osservazioni, analogamente a quanto hanno fatto quando veniva messa in dubbio la loro origine politica. Nel citato congresso di Roma furono molti gli interventi sul punto sollevato da Dorigo. Massimo Teodori così difendeva la scelta del PR: "Wladimiro Dorigo, nella usa comunicazione, scrive che abbiamo fatto delle egregie battaglie elettorali, ma non abbiamo una linea generale. Altri usano rimproverarci la carenza di `ideologia', altri ancora lamentano la mancanza di un `programma generale' e tutti concludono che la nostra funzione ed il nostro ruolo è quello di fare specifiche battaglie e dissolverci poi nell'ambito di quelle forze che sono invece `totali', cioè dicono di avere un bel corpo ideologico e programmatico globale'. Teodori faceva notare che "gli unici successi (della sinistra ndr) in Europa sono stati ottenuti, e l'esperienza storica vale pur qualcosa, sempre e soltanto quando è stato messo l'accento su pochi motivi qualificanti e sono

stati creati su questi dei momenti unificanti e unitari" (121). Spadaccia, da parte sua, in quella stessa sede, affermava: "Sono convinto che il successo della nostra azione in questi anni sia stato soprattutto il successo di una linea politica. Sbagliano profondamente coloro che ci rimproverano di essere i protagonisti di tante battaglie particolari, più o meno fortunate, ma non inquadrate in un disegno politico... Ma se un disegno politico è la capacità di individuare i grandi e reali nodi - storici e sociali - dello scontro politico e di classe, io mi chiedo che cosa siano divorzio, più lotta al concordato, più liberazione della donna, più lotta per l'aborto, più antimilitarismo se non una linea politica alternativa rispetto a quella pseudo-riformatrice e pseudo-rivoluzionaria che caratterizza la sinistra italiana, moderata e estrema, parlamentare ed extraparlamentare" (122). E due anni più tardi Teodori definiva coloro i quali affermavano che i radicali non avevano un programma "quelli che considerano no

rmale l'enunciazione di un bel disegno globale e contemporaneamente dei comportamenti concreti completamente scissi dal disegno, sia che siano al governo o all'opposizione; quelli che sono soliti richiamarsi ai principi per salvare la propria verginità politica, mentre in nome della real-politik sono pronti a mettere da parte ogni presa di posizione conseguente ai principi; coloro che rinviano continuamente ad un domani la realizzazione di, o almeno l'azione per, riforme o mutamenti che nei fatti ostacolano oggi col rafforzamento della situazione esistente" (123).

Non si può dire che i radicali fossero isolati in questa loro polemica: M. Dogan e O.M. Petracca definivano i programmi dei partiti "come cataloghi di aziende che offrono a domicilio la stessa mercanzia, con quel minimo di segni distintivi che impone il diritto della concorrenza" (124). Anche recentemente Pizzorno ha lamentato la quasi identità (e quindi genericità) dei programmi economici dei partiti (125). Ma forse le parole più chiare sui `programmi' sono queste scritte trent'anni fa da Benedetto Croce: "bei programmi panoramici che certamente gradiscono alle immaginazioni, lusingano i vaghi o gli incomposti desideri e raccolgono perciò il plauso di questi o quegli interessi e gruppi sociali o anche della generalità, ma che danno a credere che si sia soddisfatta l'esigenza di possedere un programma certo, quando non si è pur incominciata l'ideazione di quello serio e fattivo, né la fatica che richiede; sicché, quando poi a questa ci si accinge, il bel programma si scorge troppo largo o troppo stretto e, i

nsomma, inadeguato o disadatto, e lo si riverisce e mette da parte o lo si ricompone da cima a fondo o ci si abbandona passivamente al corso delle cose" (126).

A Guido Calogero che scriveva: "La chiarezza terminologica è un dovere civico; provvedano i radicali, nel loro prossimo congresso d'autunno (1972) a chiamarsi non più Partito Radicale ma movimento radicale. Essi hanno già dichiarato che prevedono di sciogliersi, se nel frattempo non avranno raggiunto la cifra di mille iscritti regolarmente paganti. Io auguro loro di raggiungere quel traguardo e che continuino a operare come viva forza di opinione, diventando magari insieme con altri movimenti i fabiani dell'ormai europeistico socialismo italiano" (127), Pannella rispondeva: "Che cosa cambierebbe se ci chiamassimo `movimento'? Anche noi siamo mossi da un rispetto per la parola: contestiamo (una lotta semantica: perché no?) l'appropriazione esclusiva che si fa della parola `partito' da parte di `questi' `partiti', con `queste' strutture, con `questi' metodi. Questo ci sembra necessario, proprio per contribuire a salvare la speranza nei `partiti' e nella possibilità di esserlo onestamente e in modo nuovo. E poi

, da noi, `movimento' significa, alla fine, qualcosa di subalterno o di marginale rispetto all'impegno politico `pieno'. Qualcosa che richiede meno rigore, meno impegno, meno speranze: il che non è il nostro caso" (128).

Il problema è intendersi sui termini della discussione, altrimenti è un dialogo fra sordi. Panebianco riassume così la questione: "La partecipazione alla campagna elettorale e l'ingresso di quattro radicali in Parlamento hanno reso di fatto questo interrogativo superato, essendo ormai a tutti evidente che il PR è un vero e proprio partito, se per tale si intende un'associazione volontaria che entra in competizione con altre associazioni con un suo specifico progetto e su questo progetto chiede il consenso della comunità politica". Ma "se si ritiene settoriale la `lotta per i diritti civili' (come a lungo la sinistra italiana ha ritenuto)... allora il PR va considerato (anche oggi che siede in Parlamento) un gruppo di pressione... Se, invece, ...la lotta per i diritti civili viene intesa come uno strumento, una leva per innestare una trasformazione generale dei rapporti sociali sullo sfondo di uno specifico modello di società (il `socialismo libertario'), allora il PR deve essere considerato un partito politi

co" (129).

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Note al CAPITOLO III

1) D. Fisichella, "Partiti e gruppi di pressione", Il Mulino, 1972, pag. 28

2) G. Sartori, "Democrazia, comando, minoranze", in S. Passigli: "Potere ed élites politiche", Il Mulino, 1974, pag. 176

3) F. Neumann, saggio in G. Sivini (a cura di) "Sociologia dei partiti politici", Il Mulino 1971, pag. 61

4) P.L. Zampetti, "Democrazia e potere dei partiti: il nuovo regime politico", Rizzoli 1969, pag. 93

5) C. Vallauri (a cura di), "La ricostruzione del partiti democratici (1943-48). La nascita del sistema politico italiano", Buzoni 1977

6) Vedi ad es. E. Fromm, "Avere o essere", Mondadori 1977 opp. "L'umanesimo socialista", Rizzoli, opp. "Fuga dalla libertà", Etas-Kompass

7) H. Lasswell-A. Kaplan, "Potere e società", Etas-Kompass 1969, pag. 245

8) ibidem, pag. 246

9) P. Bachrach, "La teoria dell'elitismo democratico: una impostazione alternativa", in S. Passigli, op. cit. pag. 185

10) G. Baget-Bozzo, "La `società radicale"' in `Argomenti Radicali', n. 1 aprile/maggio 1977, pagg. 107/108 [AGORA' TELEMATICA - ARCHIVIO PR - testo n. 1224]

11) Relazione del segretario al IV Congresso nazionale del partito - Firenze 3/4/5 novembre 1967 - ciclostilato

12) A. Bandinella, "Evitare le scissioni tra chi `pensa' e chi `esegue"' - in Notizie Radicali, 3/10/77

13) Gf. Spadaccia, "Relazione al convegno `La società laica e il partito moderno"' in `Informazioni per il Congresso' del 10/12/1966 [AGORA' TELEMATICA - ARCHIVIO PR - testo n. 3398]

14) Gf. Spadaccia, "Crisi di iniziativa politica" in "Sinistra Radicale' n. 5 febbraio 1962, pag. 2 [AGORA' TELEMATICA - ARCHIVIO PR - testo n. 3675]

15) S. Stanzani: intervento al convegno `La società laica ecc.' in `Informazioni per il Congresso' del 16/1/1967

16) R. Guiducci, "La società dei socialisti: alternativa al sistema o restaurazione", Rizzoli 1976 pag. 42

17) v. cap. I nota 41

18) S. Pergameno-S. Stanzani, op. cit.

19) `Agenzia Radicale', 7/9/1963

20) M. Teodori e altri, op. cit. pag. 29

21) ibidem

22) `Commissione per la preparazione del Congresso Nazionale' - ciclostilato, 20/8/1966

23) `Note introduttive al dibattito ecc.', op. cit.

24) `Informazioni per il Congresso' - 22/9/1966

25) `Informazioni per il Congresso' - 10/12/1966

26) L. Del Gatto - C. Oliva, "Relazione al convegno `La società laica acc."' - in `Informazioni per il Congresso' 10/12/1966 [AGORA' TELEMATICA - ARCHIVIO PR - testo n. 3397]

27) ibidem

28) citato in R. Parachini, op. cit. cap. 1, pag. 9

29) Gf. Spadaccia, Intervento al convegno `La società laica ecc.' in `Informazioni per il Congresso 16/1/1967 [AGORA' TELEMATICA - ARCHIVIO PR - testo n. 3398]

30) P. Bachrach, op. cit. pag. 181

31) M. Sernini, "Le dispute sui partiti", Marsilio 1968 pag. 145

32) C. Vallauri, "Partiti e società", Buzoni 1971, pag. 119

33) A. Pizzorno, "Schema teorico ecc." in op. cit. pag. 257

34) R. Dahl, "Ruolo e avvenire dell'opposizione" saggio in D. Fisichella, op. cit. pag. 258

35) M. Teodori, "Perché ci asteniamo" in `La Prova Radicale', n. 3 primavera 1972, pag. 24 [AGORA' TELEMATICA - ARCHIVIO PR - testo n. 2987]

36) Informazioni per il congresso, 21/10/1966

37) R. Michels, saggio in G. Sivini, op. cit. pag. 30

38) R. Michels, "La sociologia del partito politico", Il Mulino 1966, pag. 485

39) ibidem, pag. 531

40) G. Sartori, "Democrazia, comando ecc." in op. cit. pag. 176

41) `Notizie Radicali', 30/6/1972, "Per una struttura libertaria, socialista, federativa"

42) M. Pannella, intervento al convegno "La teoria e la pratica ecc." cit. - dattiloscritto

43) Gf. Spadaccia, relazione al IV Congresso ecc. op. cit.

44) C. Vallauri, "La ricostruzione ecc.", op. cit. pag. 26

44 bis) M. Pannella, intervento nella riunione della direzione del PR del 9-10/9/1967 - ciclostilato

45) H. Lasswell-A. Laplan, op. cit. pag. 90

46) A. Bandinelli, relazione al convegno "La teoria e la pratica ecc." cit. - dattiloscritto, pag. 17

47) M. Pannella, intervento al convegno "La teoria e la pratica ecc." cit. - dattiloscritto

48) A. Bandinelli, relazione al convegno "La teoria e la pratica ecc." cit. - dattiloscritto, pag. 16

49) S. Pergameno-S. Stanzani, op. cit., pag. 4

50) H. Lasswell-A. Kaplan, op. cit. pag. 250

51) C. Mongardini, "Storia del concetto di ideologia", Buzoni 1968, pag. 6

52) v. K. Mannheim, "Ideology and uthopy", Routledge Kegon Paul, 1936

53) A. Melucci, "Sistema politico, partiti e movimenti sociali", Feltrinelli 1977, pag. 35

54) ibidem, pag. 48

55) A. Speafico, "Ideologia e comportamento politico" Comunità 1971, pag. 16

56) v. pagg. 138/140

57) M. Pannella, intervento al convegno "La società laica ecc." cit. in `Informazioni per il Congresso' 16/1/1967

58) Il Mulino, "Rinnovare le scelte, riformare le strutture", n. 255 gennaio/febbraio 1978, pag. 7

59) Riunione della direzione del PR del 9/3/1969 - ciclostilato

60) Gf. Spadaccia, introduzione al convegno "La teoria e pratica ecc." cit. - dattiloscritto

61) H. Lasswell-A. Kaplan, op. cit. pag. 2

62) Gf. Spadaccia, introduzione al convegno "La teoria e pratica ecc." cit. - dattiloscritto

63) M. Pannella, introduzione al convegno "La teoria e pratica ecc." cit. - dattiloscritto

64) Gf. Spadaccia, introduzione al convegno "La teoria e pratica ecc." cit. - dattiloscritto

65) v. pag. 99, 100

66) S. Pergameno, intervento al convegno "La società laica ecc.", cit. in `Informazioni per il congresso' del 16/1/1967

67) P. Pavolini, "Un paese immaturo", su Il Mondo del 3/6/1958

68) `Informazioni per il congresso' del 7/3/1967

69) Il Divorzista, "Dagli al leghista? rispondiamo `Unità laica"', 31/12/1970

70) Note introduttive al dibattito ecc., op. cit.

71) A. Bandinelli, relazione al convegno "La teoria e la pratica ecc." cit., pag. 14

72) S. Pergameno-S. Stanzani, op. cit. pag. 4

73) M. Teodori, "Radicali e comunisti: le ragioni vere del conflitto", in Argomenti Radicali, n. 1 aprile/maggio 1977, pag. 39 [AGORA' TELEMATICA - ARCHIVIO PR - testo n. 3342]

74) D. Cofrancesco, "La libertà radicale", su `Critica Sociale', ottobre 1974, pag. 477 [AGORA' TELEMATICA - ARCHIVIO PR - testo n. 3792]

75) ibidem, pag. 476

76) `Agenzia Radicale' del 10/8/1967 - "Primo successo"

77) N. Matteucci, "Una rabbia radicale" su `Il Mondo' 18/7/1974 [AGORA' TELEMATICA - ARCHIVIO PR - testo n. 3794]

78) E. Galli Della Loggia, "Il `qualunquismo' e i radicali", in Argomenti Radicali, n. 3/4 agosto/novembre 1977 [AGORA' TELEMATICA - ARCHIVIO PR - testo n. 1385]

79) D. Cofrancesco, "La libertà radicale" in `Critica Sociale' dicembre 1974, pag. 587 [AGORA' TELEMATICA - ARCHIVIO PR - testo n. 3792]

80) A. Panebianco, "Dalla società corporativa ai movimenti collettivi: natura e ruolo del Partito Radicale" in M. Teodori e altri, op. cit. pag. 306 [AGORA' TELEMATICA - ARCHIVIO PR - testi n. 1326 1327]

81) E. Schattschneider, "Interesse generale e sistema di pressione" in D. Fisichella, op. cit. pag. 85

82) "Per una politica federalista di sinistra" - ciclostilato

83) A. Bandinelli, relazione al convegno "La teoria e la pratica ecc." cit. pagg. 9/10

84) M. Pannella - dichiarazione in Agenzia Radicale del 25/8/1964

85). A. Bandinelli, relazione al convegno "La teoria e pratica ecc." cit. pag. 11

86) "Note introduttive al dibattito ecc.", op. cit.

87) "Contributo di un gruppo di amici romani al dibattito precongressuale" - ciclostilato

88) M. Pannella, intervento al convegno "La società laica ecc." cit. in `Informazione per il Congresso del 16/1/1967

89) A. Bandinelli in `Prova Radicale', n. 4, dicembre 1976, "A che serve uno statuto"

90) R. Guiducci, "La società dei socialisti ecc." op. cit., pag. 26

91) ibidem, pag. 61

92) ibidem, pag. 154

93) Gf. Spadaccia, relazione al convegno "La società laica ecc." in `Informazioni per il Congresso 10/12/1966

94) S. Pergameno-S. Stanzani, op. cit. pag. 12

94 bis) L. D'Amato, "Correnti di partito e partito di correnti", Giuffré 1965, pag. 15

95) Tra parentesi le date di federazione al PR

96) A. Panebianco, op. cit. in Teodori ed altri, op. cit., pagg. 304/6

97) A. Pizzorno, "Uno schema teorico ecc." op. cit. in P. Farneti, op. cit. pag. 252

98) P. Farneti, op. cit. pag. 38

98 bis) P.L. Zampetti, op. cit. pagg. 62 - 65 - 137

99) V. ad es. le considerazioni autocritiche nella riunione della direzione del PR del 10-11/1/1970

100) V. pag. 164

101) U. Eco - P. Violi, op. cit. pag. 141

102) art. 49 Cost.

103) M. Duverger, op. cit. pag. 513

104) A. Melucci, op. cit. pag. 74

105) H. Lasswell-A. Kaplan, op. cit. pag. 41

106) `Notizie Radicali' 29/4/1970

107) Intervento televisivo di M. Pannella del 16/7/74

108) `Tribuna elettorale' per le elezioni politiche del 20/6/1976

109) Tribuna del referendum del maggio 1972

110) M. Pannella, intervento al convegno "La teoria e la pratica ecc." cit.

111) M. Teodori e altri, op. cit. pag. 50

112) G. Baget-Bozzo, op. cit. pag. 109

113) Circolare della segreteria del PR a firma di Marco Pannella in `Informazioni per il Congresso' del 13/3/1967

113 bis) G.Rendi, "Eliminare gli eserciti", in 'Sinistra Radicale', n.6 marzo 1962, pag.3 [AGORA' TELEMATICA - ARCHIVIO PR - testo n. 3678]

114) S. Pergameno - S. Stanzani, op. cit. pag. 5

115) Gf. Spadaccia, "Dinanzi, contro, attraverso i processi" in `Notizie Radicali' del 10/6/1972

116) A. Panebianco, op. cit. pag. 317

117) D. Cofrancesco, op. cit., in Critica sociale - dicembre 1974, pag. 588

117 bis) A. Bandinelli, relazione al convegno "La teoria e la pratica ecc." cit. pag. 19

118) `Informazioni per il Congresso' del 9/11/1967 [AGORA' TELEMATICA - ARCHIVIO PR - testi n. 2018 2019]

119) W. Dorigo: "Presunzioni strategiche della sinistra e del PR" in `La Prova Radicale' n. 2 - inverno 72 pag. 191

120) P. Ungari, "Ma i radicali sono un partito politico?" in `Argomenti Radicali' n. 7 aprile/maggio 78 [AGORA' TELEMATICA - ARCHIVIO PR - testo n. 1394]

121) M. Teodori: "L'azione radicale si muove nel senso delle tensioni emergenti" in `La Prova Radicale', n. 2 inverno 1972, pag. 188

122) Gf. Spadaccia, "Struttura adeguate di resistenza, di organizzazione, di lotta", in `La Prova Radicale', n. 2 inverno 1972 - pag. 189

123) M. Teodori, "A proposito della nostra strategia" in `La Prova Radicale', n. 7/8/9/ maggio/giugno/luglio 1973 pag. 7

124) M. Dogan - O.M. Petracca, op. cit., pag. 21

125) A. Pizzorno - Panorama - luglio 1978

126) B. Croce, "Per la nuova vita dell'Italia" cit. in M. Dogan - O.M. Petracca, op. cit. pag. 119

127) G. Calogero, "La doppia tessera" su Panorama n. 326 del 20/7/1972 [AGORA' TELEMATICA - ARCHIVIO PR - testo n. 3789]

128) M. Pannella, in "La posta di Calogero" su Panorama n. 328 del 3/8/1072

129) A. Panebianco, op. cit. pag. 291

 
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