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Panebianco Angelo - 25 settembre 1978
Nuovi partiti, nuove elezioni (primarie)
di Angelo Panebianco

SOMMARIO: I partiti di massa gestiscono la società. Si ha quindi la crisi della rappresentanza che si riperquote sulla governabilità. Regolamentazione pubblica della vita interna dei partiti con controllo dei vertici dal basso. Oggi, nel nostro sistema politico la richiesta di partecipazione è grande e sarebbero necessarie elezioni primarie, anche per introdurre elementi di contraddizione tra le forze politiche. Possibile anche una autocandidatura dei cittadini. Si sfalderebbe il meccanismo aggregante della disciplina di partito e si promuoverebbe l'autonomia dei parlamentari.

(ARGOMENTI RADICALI, BIMESTRALE POLITICO PER L'ALTERNATIVA, Giugno-Settembre 1978, n. 8-9)

Il dibattito sulla partitocrazia e sui fenomeni di rigetto di questa forma di gestione del potere - il cosiddetto "qualunquismo" - che si è ampiamente sviluppato all'indomani del voto sul finanziamento pubblico e dei risultati elettorali in Friuli e in Val d'Aosta, è stato recentemente messo un po' in ombra dalla nuova polemica, ideologico-elettorale, sui "massimi sistemi". Sulla quale, per inciso, condivido il duro e sarcastico giudizio espresso da Alessandro Pizzorno su "La Repubblica" del 17/8/78: ma in una cultura politica ad alto tasso di ideologia come quella italiana richiamare ai problemi del controllo del potere "qui e ora", come ha fatto Pizzorno contro le fughe nella ideologia, è sempre un atto impopolare, una sconveniente violazione delle regole del gioco.

Mentre però il dibattito su Lenin, Proudhon e la "terza via"si esaurirà, ritengo, quando sarà sufficientemente ridefinita l'immagine elettorale del PSI e del PCI il problema del ruolo e delle funzioni dei partiti nel nostro sistema democratico non potrà essere facilmente eluso: si ripresenterà quando e se le forme di rigetto che abbiamo visto in azione nei mesi scorsi troveranno ancora modo di esprimersi attraverso canali e formazioni politiche non tradizionali oppure quando e se, per disattenzione o per reciproco condizionamento, i vertici dei partiti di massa consentiranno ancora ai radicali di dare diretta espressione ai cittadini su specifiche battaglie di libertà. Proprio perché le sue radici mi sembrano rintracciabili in alcune tendenze di fondo della società industriale contemporanea italiana in particolare ma non soltanto, e non su motivi contingenti legati alle polemiche sul finanziamento pubblico e perché, a mio avviso, qui stanno alcuni nodi cruciali da cui dipende per buona parte il futuro assett

o della democrazia italiana, conviene ritornare sull'argomento.

A conclusione di un intervento scritto qualche mese prima del 12 giugno (cfr. "AR", n. 7) indicavo in qualche forma di regolamentazione pubblica della vita interna dei partiti e nella adozione di un sistema di elezioni primarie per le assemblee elettive due possibili mezzi per contenere o limitare il potere

della partitocrazia. Deve essere chiaro che si trattava soltanto di una provocazione: non sono così ingenuo da pensare che i vertici dei partiti siano disponibili alla adozione di strumenti volti a ridurre il potere che essi stessi esercitano sulla società italiana. Potrebbero peraltro esservi costretti prima o poi se gli orientamenti manifestatisi nella pubblica opinione persistessero e se i costi di un eccessivo potere finissero per superare i vantaggi: è il re in persona, a volte ad accorgersi in tempo che conviene trasformare in costituzionale una monarchia assoluta.

Anche se le strade per ora sono politicamente sbarrate la riflessione sui modi per massimizzare il potere del cittadino-elettore può essere comunque utile anche perché questo è uno dei temi centrali che ha sempre ispirato e che tutt'ora ispira l'azione politica dei radicali.

Partitocrazia e crisi di rappresentanza

Per capire il senso e la direzione di queste proposte occorre però brevemente sintetizzare il quadro generale entro le quali esse si inserivano:

1) I partiti di massa a seguito di profonde trasformazioni del rapporto partito-Stato-società civile sono ormai le più importanti strutture di controllo e di gestione della società. Queste strutture, a loro volta, sono controllate da ristretti gruppi di dirigenti (il "cerchio interno" secondo la definizione di Maurice Duverger): la "base" dei partiti è completamente esclusa dai luoghi dove si prendono le decisioni cruciali. Per parte loro gli "elettori" possono usufruire solo raramente di strumenti di intervento diretto e di controllo (ciò accade quando accade-vedi referendum "contro" la volontà dei partiti). La manipolazione di un certo numero di risorse fra le quali l'organizzazione di partito, i processi di comunicazione nella società (legami di mutua dipendenza fra un sistema di mass media centralizzato o comunque controllato da pochi e le diverse frazioni della classe politica) finanziarie (ad esempio, ma non solo, un finanziamento pubblico centralizzato) e di definizione della agenda politica (la decis

ione, del tutto sottratta agli elettori, su che cosa deve, in ogni momento, essere argomento del dibattito politico) ha consentito a una ristretta classe politica di aumentare fino a livelli a mio avviso patologici la sua autonomia da coloro, i cittadini, che dovrebbero teoricamente controllarla.

2) La conseguenza è una crisi di rappresentanza: ampi settori dell'elettorato non si sentono sufficientemente rappresentati da organizzazioni che perseguono, al posto degli obiettivi dichiarati, obiettivi di mantenimento o di rafforzamento organizzativo (processo di sostituzione dei fini). Occorre precisare a questo proposito che tutte le organizzazioni, per ragioni fisiologiche puntano al mantenimento e al rafforzamento organizzativo. Il problema è verificare quando esiste equilibrio fra il perseguimento degli obiettivi ufficiali e la spinta alla conservazione dell'organizzazione e quando invece l'equilibrio si spezza e il secondo diventa il fine principale.

3) La crisi di rappresentanza con i suoi contraccolpi sulla "governabilità" del sistema politico è stata inoltre aggravata dal crescere della domanda di partecipazione alle decisioni (o, se si preferisce, dalla riduzione dei tassi di apatia politica e di adesione acritica ai partiti). E' un teorema noto quello secondo cui all'aumentare del volume complessivo della domanda di partecipazione e al crescere della sua intensità o le istituzioni si adattano per così dire si "aprono", in concreto danno soddisfazione alla richiesta oppure il sistema diventa ingovernabile e va incontro a un più o meno rapido processo di decadenza politica. In ipotesi i rimedi non possono che essere di due tipi: (a) costringere le istituzioni ad aprirsi realmente alla domanda di partecipazione il che significa moltiplicare i luoghi e le sedi della "democrazia diretta", essenzialmente il referendum, come correttivo della democrazia rappresentativa: (b) trovare i modi per aumentare il tasso di "circolazione delle élites" nel sistema pol

itico indebolendo i meccanismi della cooptazione. Il che significa ricercare le strade per aumentare la competizione e il conflitto fra le élites di partito ma anche fra le "vecchie" élites e potenziali nuove élites concorrenti. Si può giudicare come si vuole il caso di Trieste ma non si può non convenire che l'ingresso nel sistema politico locale di élites non tradizionali costringerà probabilmente le vecchie forze a ricercare la strada del rinnovamento. Per usare una facile analogia: un mercato che si avvicina alla libera concorrenza è molto meglio di uno oligopolio (i "cartelli" sono esclusi e la qualità del prodotto è migliore). Il sistema politico italiano è e resterà essenzialmente un oligopolio ma si tratta, come sempre, di una questione di grado: tanto maggiore è il "potenziale di ricatto" di cui dispone l'elettore, cioè tanto più forte è l'aspettativa (e la possibilità) dell'ingresso nel mercato politico di nuove forze tanto minore è la libertà di manovra delle élites tradizionali, cioè in definitiv

a, tanto più "controllate" esse sono. E ciò che vale per il sistema politico in generale vale anche, sia pure con alcune differenze per la vita interna ai partiti.

Democrazia di partito e oligarchie: quali correttivi?

E' all'interno di questa più generale riflessione sui mezzi per aumentare "sia" la partecipazione diretta del singolo cittadino al processo decisionale pubblico "sia" il tasso di ricambio all'interno della classe politica sia infine la "ricettività" dei leaders alle domande dei rappresentanti (tre problemi collegati ma analiticamente distinti) che ho formulato proposte come quelle ricordate che al di fuori di questo quadro potrebbero apparire estemporanee richieste di interventi di ingegneria politica quali che siano.

Il dibattito che si è successivamente sviluppato su l'"Avanti!", su "Mondoperaio" e in altre sedi ha toccato alcuni di questi punti. In particolare, da parte degli intellettuali socialisti intervenuti (soprattutto Federico Mancini e, in parte, Giuliano Amato) l'ipotesi delle primarie è stata giudicata forse praticabile e comunque da approfondire.

Su questo dibattito mi preme però fare alcune osservazioni. Innanzitutto, la polemica contro la partitocrazia non può essere ridotta, all'osso, a una polemica anticomunista, come mi pare propenda a pensare Amato (cfr. "Avanti!", 24/7/1978). Certamente il PCI è, fra tutti i partiti italiani, quello che più e meglio ha sviluppato i caratteri del partito "integrazione sociale" a somiglianza non tanto dei partiti leninisti classici quanto di alcuni grandi partiti socialdemocratici, come la socialdemocrazia tedesca dell'epoca imperiale e poi weimeriana (e a differenza del PSI, anche dell'epoca prefascista che, per parte sua, non c'è mai completamente riuscito) con tutti lati "positivi" (soprattutto in passato), di inquadramento e di educazione politica di grandi masse precedentemente apatiche e "esterne" al sistema politico e "negativi" (soprattutto oggi) di controllo verticistico del potere. Ma il problema della democrazia interna non riguarda soltanto i comunisti. Certamente è giusto polemizzare con il centrali

smo democratico e con ciò che esso significa in termini di nondemocrazia. Vorrei però ricordare che non esiste un pulpito che sia uno fra i partiti italiani (meno che mai le loro segreterie) dal quale possano venire lezioni sulla democrazia interna di partito.

Il discorso sulla partitocrazia riguarda invece tutti i partiti italiani e naturalmente, soprattutto i tre partiti di massa democristiano, comunista e socialista se non altro perché sono questi tre partiti (o meglio le oligarchie che li guidano) ad esercitare mediante le risorse indicate in precedenza, il maggiore controllo sulla vita pubblica italiana.

La proposta di una regolamentazione pubblica della vita interna ai partiti (elezione diretta degli organi dirigenti, referendum aperti agli iscritti ecc.) ha ovviamente lo scopo di indicare alcuni strumenti per agevolare la partecipazione degli iscritti oltre che per incentivarla (è probabile che l'interesse del semplice iscritto cresca se invece di eleggere dei delegati, egli è chiamato direttamente alla scelta del gruppo dirigente). Non si eliminerebbero certo le molte possibilità di manipolazione dall'alto di cui le élites di partito dispongono: crescerebbero però probabilmente le chances di gruppi di militanti slegati dalle frazioni di vertice di pesare di più nelle scelte del partito.

Se si trattasse veramente oggi di predisporre una regolamentazione giuridica i problemi sarebbero sicuramente molti (cfr. le osservazioni di Federico Mancini sull'"Avanti!", 16/7/1978). Gli obiettivi di una proposta volutamente provocatoria erano però altri: mostrare che, a causa dei mutamenti intervenuti nel nostro sistema politico proposte già formulate negli anni cinquanta (anche la regolamentazione pubblica dei partiti fu in quegli anni un tema della destra liberale) e che avevano allora una valenza conservatrice, possono oggi essere riprese in un quadro di segno politico opposto. Fare risaltare inoltre la contraddizione propria della natura dei partiti contemporanei che sono "alla base" associazioni volontarie (ogni cittadino è libero di iscriversi o di non iscriversi a qualsivoglia partito) e, "al vertice", organi dello Stato (che assommano funzioni deliberative e esecutive, che forniscono il personale per tutti o quasi tutti i ruoli politici rilevanti ecc.). E se il problema della democrazia è che gli

organi dello Stato siano scelti e controllati dal basso i vertici di partito si sottraggono sicuramente a questa regola non essendo scelti o controllati né dal cittadino-elettore né dal cittadino-iscritto.

In altre parole non credo più di tanto nella praticabilità di una integrale regolamentazione giuridica. Credo però alla necessità di porsi seriamente il problema del rafforzamento del potere degli iscritti e della modificazione dei metodi di selezione e di reclutamento delle élites dei partiti (e non soltanto di quelli a centralismo democratico).

Soprattutto mi interessava, con quella proposta, mettere in chiaro che il problema della democrazia interna ai partiti non può essere più un fatto "privato" che riguarda soltanto iscritti e militanti di ciascun partito, dal momento che il carattere oligarchico dei partiti è ormai diventato un fattore di profonda distorsione del più generale processo democratico.

Potere degli elettori, proporzionale e elezioni primarie

Veniamo ora al secondo dei correttivi proposti: le "primarie". Preciso subito che questa proposta, almeno nelle mie intenzioni, non si accorda - proprio perché le finalità sono diverse - con altre proposte che sono nell'aria soprattutto in casa socialista di modifica in senso maggioritario del sistema elettorale. Non che ci si debba scandalizzare per partito preso di fronte a queste ipotesi in nome delle pretese virtù democratiche del sistema proporzionale: i sistemi elettorali sono di per sé soltanto strumenti di traduzione del voto popolare in seggi; il loro maggiore o minore tasso di "democrazia" non può essere giudicato a priori ma implica una valutazione complessa all'intero contesto socio-politico nel quale si inseriscono. E d'altra parte nessuna discussione attenta e spassionata sui meccanismi elettorali deve, a mio avviso, essere accolta con favore perché può forse consentire di sensibilizzare i cittadini su aspetti sicuramente cruciali della nostra vita politica.

Resta il fatto però che "oggi", in "questo" sistema politico e di fronte a una domanda di partecipazione che non trova sbocchi istituzionali adeguati, l'obiettivo deve essere quello di moltiplicare le sedi e le possibilità di decisione dell'elettore e di favorire una accelerazione della circolazione delle élites e, in questo ambito, l'adozione di un sistema maggioritario non è, a mio avviso, la scelta migliore. Vero è che la stabilità governativa (e l'efficacia decisionale che ne deriva) è un valore importantissimo, perché un sistema inefficiente è sempre non democratico. E, si dice, evocando una famosa "legge sociologica" enunciata molti anni fa da Duverger, un sistema maggioritario tende a massimizzare questo aspetto. Ma si può obiettare che le "leggi" di Duverger sono state in ampia misura contraddette dalla esperienza successiva: stabilità governativa ed efficienza dipendono infatti da una molteplicità di fattori "soltanto uno" dei quali è il tipo di sistema elettorale. Una modifica elettorale in senso m

aggioritario quindi produrrebbe un risultato negativo "certo" (compressione delle possibilità di scelta dell'elettore, sbarramento dell'accesso al sistema di nuove élites) senza che questo assicuri necessariamente il risultato positivo auspicato (stabilità ed efficacia decisionale).

La mia ipotesi di partenza - come ho già detto - è che la stessa ingovernabilità (e inefficienza) del sistema sia oggi il frutto non solo ovviamente ma soprattutto, di una non-apertura delle istituzioni alla aumentata domanda di partecipazione. E se così è si tratta di allargare la "democrazia in entrata" (cioè la possibilità di scelta dello elettore) e non di comprimerla.

E' vero però che il sistema proporzionale in vigore non ha fino ad oggi impedito la cristallizzazione di oligarchie inamovibili. Si tratta allora non di abbandonare la proporzionale ma semmai di integrarla mediante correttivi sufficientemente potenti. Un sistema di elezioni primarie potrebbe essere uno di questi correttivi.

Anche dietro questa proposta stanno obiettivi molteplici:

1) Sottrarre alla decisione di gruppi ristretti la composizione delle liste dei candidati massimizzando il potere di scelta del cittadino-elettore.

2) Incentivare e premiare la partecipazione dei cittadini più desiderosi di contare politicamente: l'esperienza americana, come provano diverse ricerche sull'argomento mostra che di solito è la frazione più attiva e con maggiore senso della "efficacia politica" quella che vota alle primarie. In un paese fortemente politicizzato come l'Italia la quota di elettorato che prenderebbe parte alle primarie sarebbe probabilmente molto più ampia del suo corrispettivo statunitense. L'elettorato più passivo e meno interessato avrebbe sempre la possibilità di partecipare all'ultima fase del processo elettorale, e cioè alle elezioni vere e proprie.

3) Introdurre infine "elementi di contraddizione" fra gruppi politici elettivi (ad es., i gruppi parlamentari) e gruppi dirigenti dei partiti. Si parla da tempo della necessità di ridare potere alle assemblee elettive: soltanto se i parlamentari e in genere gli eletti alle diverse assemblee dispongono di un "potere autonomo" dai vertici di partito - come avverrebbe almeno in parte se la loro designazione fosse sottratta al partito e consegnata agli elettori - le assemblee possono tornare ad essere centri parzialmente autonomi di elaborazione politica.

Per fare un esempio (puramente indicativo) si potrebbe pensare a un sistema in "tre" tempi: 1) primarie "chiuse" nelle quali intervengono soltanto gli iscritti al partito e dalle quali dovrebbe uscire una prima lista di candidati. In ipotesi, una eventuale regolamentazione pubblica dei partiti potrebbe anche riguardare solo "questo" particolare processo interno al fine di garantire la piena libertà di scelta dello iscritto; 2) primarie "aperte" nelle quali l'elettore che lo voglia vota i candidati della lista uscita dalle primarie chiuse (stabilendo chi e in quale ordine entrerà, nella lista definitiva) e con la facoltà anche di votare per nomi non compresi nella lista. A questa fase del processo elettorale dovrebbero essere ammesse le formazioni politiche nuove.

Per rispondere maggiormente alla domanda di partecipazione si potrebbe anche ipotizzare la libera autocandidatura dei cittadini nelle diverse liste. L'obiettivo dovrebbe essere quello di aprire i partiti allo interscambio con singoli cittadini impegnati politicamente attivi e associazioni o gruppi impegnati su temi specifici. Unico vincolo, a somiglianza del sistema in vigore in alcuni Stati americani dovrebbe essere quello di consentire il voto per le primarie di un "solo" partito: ad esempio, chi vota alle primarie del PCI non può partecipare alle primarie di altri partiti.

Infine: 3) elezioni generali sulle liste stabilite nelle fasi 1 e 2.

Disciplina di partito e parlamentari

Un sistema di primarie bene congegnato costringerebbe gli attuali partiti a profonde modificazioni e renderebbe assai più problematico e complesso per i "cerchi interni" dei diversi partiti mantenere intatto il potere che ora esercitano.

Conosco alcune delle possibili obiezioni. Si potrebbe sostenere ad esempio, che attribuendo, mediante elezioni primarie un potere autonomo agli eletti sganciandoli dal controllo delle segreterie di partito si comprometterebbe la possibilità di formare indirizzi unitari in parlamento e nelle altre assemblee e si determinerebbero contrapposizioni più o meno artificiali fra frazioni parlamentari libere da quel meccanismo "aggregante" che è la disciplina di partito. Ma questa obiezione è inconsistente: il ferreo controllo dei vertici di partito sui gruppi parlamentari, come dimostra l'esperienza italiana, non consente necessariamente la formazione di coerenti indirizzi di riforma ed è anzi almeno uno dei fattori che ha portato alla degradazione delle funzioni del parlamento. Per contro è noto che il Congresso degli Stati Uniti, per una serie di ragioni, non ultimo il tipo di reclutamento dei parlamenti, è uno dei più forti ed autorevoli parlamenti del mondo occidentale (anche perché la punizione dell'elettore in

soddisfatto colpisce alla prima occasione non solo il partito ma anche e direttamente il parlamentare inefficiente).

Né si può pensare che un sistema di elezioni primarie trasformerebbe i partiti italiani in pure e semplici macchine elettorali. Non potrebbero infatti scomparire facilmente le differenze fra un sistema di partiti fortemente strutturato come quello italiano e il più fluido sistema americano. Un sistema di primarie introdurrebbe però più libertà di movimento e costringerebbe i candidati che vogliono vincere le elezioni a "caratterizzarsi" individualmente su temi politici concreti anziché nascondersi dietro fumosi simboli di partito La qualità del personale delle assemblee elettive potrebbe per conseguenza migliorare. E i parlamentari, sganciati da una ferrea disciplina di partito, sarebbero ugualmente indotti a collaborare e/o a scontrarsi secondo linee di divisione non artificiali facendo il possibile per massimizzare l'efficacia dell'azione parlamentare al fine di evitare la sostituzione alle elezioni successive. Il merito politico potrebbe forse così contare di più delle fedeltà di tipo mafioso a ristretti

gruppi di leaders di partito. Infine, un sistema di primarie che non riguardi soltanto il parlamento ma anche le assemblee locali, costringendo i candidati a caratterizzarsi su temi concreti potrebbe consentire qualche passo verso quell'autogoverno degli enti locali che la costituzione prescrive e che la pratica politica ha completamente disatteso; potrebbe cioè consentire che si formino maggioranze e minoranze rispondenti ai problemi locali (e non come oggi, che si riproducano sul piano locale le alleanze nazionali).

Non si tratta ovviamente di proporre panacee (che non esistono) per ovviare ai mali della democrazia italiana. Né, da soli, i rimedi proposti possono drasticamente ridimensionare il potere dei gruppi dirigenti dei partiti. Si tratta però di correttivi capaci almeno di attenuare la crisi di rappresentanza in cui versa il nostro sistema politico consentendo di aumentare il potere di decisione e di intervento del cittadino. Frequenti referendum, locali e nazionali su temi politici rilevanti e possibilità reali per il cittadino di scegliere i propri rappresentanti sono sicuramente mezzi omogenei rispetto allo scopo.

E' evidente quale è il vero ostacolo. La classe politica italiana non farà mai passare provvedimenti che aumentino il potere dei cittadini. A meno che, grazie all'azione delle minoranze intense che operano democraticamente in questo sistema, i vertici dei partiti - come è accaduto con i referendum del 12 giugno - non si trovino ripetutamente in serie difficoltà Solo in quel caso potrebbero forse accettare sia pure a denti stretti di trasformare in democratico un potere oggi sostanzialmente autocratico.

 
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