di Federico StameSOMMARIO: Un saggio sulla natura e le radici storiche del nuovo radicalismo e un confronto sulla questione radicale con interventi di: Baget-Bozzo, Galli, Ciafaloni, Tarizzo, Galli della Loggia, Lalonde, Alfassio Grimaldi, Are, Asor Rosa, Corvisieri, Orfei, Cotta, Stame, Ungari, Amato, Mussi, Savelli.
(SAVELLI editore, ottobre 1978)
Indice:
Parte prima
I Politica e società (1376)
II Radicali sotto accusa (1377)
III Il Pr come partito bifronte (1378)
IV Radicalismo e socialismo (1379)
V Radicalismo o marxismo, convivialità o tecnofascismo (1380)
Parte seconda
Un confronto sulla questione radicale (1381 - 1397)
Referendum e antipolitica
di Federico Stame
(»Argomenti radicali , n. 6, febbraio-marzo 1978).
Sono sempre stato convinto che l'emergenza - in questi ultimi anni - di un tipo di azione politica svincolata dalla rigida centralizzazione operativa dei grandi partiti, e di cui il Partito radicale è stato uno dei protagonisti, sia un fatto di importanza decisiva e, per di più, testimonianza di una modificazione morfologica irreversibile del sistema politico e dei suoi principi di funzionamento interno. Già altre volte ho rilevato come, in termini di riflessione teorica generale, questo fatto sia espressione di una crisi profonda dei modelli organizzativi-strategici con cui la sinistra si è posta in rapporto con lo Stato del capitalismo avanzato e mi pare di rilevare che tale crisi è crisi del »leninismo inteso appunto come processo di sintesi attraverso il quale movimento operaio vede il suo rapporto con lo Stato.
Tale crisi del leninismo è però peculiare in quanto non si manifesta come "crisi di potere" delle organizzazioni centralizzate ma piuttosto come "rovesciamento" della loro funzione nella società: da strumento di immissione nello Stato dei bisogni della società civile (come Gramsci teorizzava e come i comunisti ancor oggi vorrebbero contrabbandare) il Partito diviene strumento dello Stato per ridurre a obbedienza la società civile stessa. Il Partito è "articolazione costituzionale" dello Stato per il controllo dell'antagonismo sociale; lo Stato dei Partiti, appunto.
Il problema mi sembra di primario interesse; anche per una riflessione politologica, poiché consente di leggere in una chiave nuova la storia delle società industriali avanzate, che il marxismo ufficializzato dei partiti della sinistra storica aveva costretto entro le maglie di una sistemazione dei rapporti tra sfera pubblica e sfera privata che non ha più riscontro, nelle nostre società, da molto tempo. La tematizzazione classica, ancor oggi funzionale ad una prospettiva democratico-autoritaria portata avanti dal Pci in Italia, ad esempio, tra sfera pubblica e sfera privata, in cui la prima è lo spazio del bene pubblico, del disinteresse, mentre la seconda è il luogo dell'egoismo, della demonicità privata è el tutto inattuale; le lotte politiche dei paesi più avanzati mostrano appunto che tale tematizzazione è del tutto superata e, se permane, è per le funzionalità di controllo politico autoritario che tale schematizzazione produce come strumento di razionalizzazione.
Per una nuova teoria del conflitto politico, e per una sua tematizzazione che abbia funzioni liberanti e "dinamiche" verso la tipologia dei conflitti presenti e futuri, mi sembra che vada assunto come determinante, e irreversibile, questo dato di fondo: il processo dominante la crisi dello stato tardo-capitalistico è la progressiva integrazione, nello Stato, di tutta la dinamica sociale e, di conseguenza, le forme politiche di questa tendenza sono la progressiva estensione della sfera apparente di rappresentanza delle istituzioni che si "fanno Stato" (i partiti, appunto). Ma la contraddizione principale - a questo livello - diviene appunto quella tra questo processo di razionalizzazione apparente e le tendenze reali che si manifestano sempre più intensamente e di cui i movimenti emergenti al di fuori dei partiti sono la manifestazione oggettiva.
Il punto di fondo - su cui tuttora continuo a essere perplesso, e non mi nascondo il pericolo che la mia perplessità possa anche'essa essere il residuo di una passata formazione leninista (perché ancora interna alla tradizione teorica del movimento operaio) - è se questa nuova forma di manifestazione del conflitto politico, liberatasi dalla gabbia della centralizzazione leninista (che è poi una storica articolazione del rapporto strategia-tattica) debba porsi ancora il problema della mediazione politica o se debba soltanto affidarsi alla componente "eversiva" della propria "autonomia". Se cioè debba pensarsi come "un nuovo livello della azione politica" o, meramente, come critica della politica. Non mi nascondo il carattere dissacratorio di una critica ontologica della politica ma resto tuttora legato ad una concezione "storicamente determinata" della critica politica. Capisco che qualsiasi critica determinata deve rivendicare un carattere di universalità, ma resto convinto che la politica, oggi, è »l'orizzo
nte trascendentale di un agire collettivo dentro una società di massa; non capire questo significato tornare indietro, ad una critica indeterminata, assimilabile - il paragone è grosso - a quella dei pensatori controrivoluzionari del dopo 1789. E perciò penso che neppure i movimenti nuovi della nostra società politica possano sfuggire alle esigenze razionalizzatrici, »repressive della mediazione politica perché solo l'accettazione "disincantata" del proprio orizzonte trascendentale è condizione della propria verità teorica; che, nell'agire collettivo, è sempre mediata dalla razionalità rispetto al valore della trasformazione.
Queste premesse teoriche così generali possono sembrare esagerate rispetto alle concrete esperienze politiche di questi ultimi tempi. Ma io sono stato proprio portato a riflettervi sulla base dei fallimenti, oggettivi, dell'azione dei radicali sulla materia dei referendum. Il resto convinto della validità politica dell'iniziativa assunta ma continuo a restare molto perplesso sulle tecniche concrete con le quelli l'azione è stata condotta. Mi sembra che al fondo della azione dei radicali, vi sia una sostanziale insensibilità alle condizioni istituzionali in cui l'iniziativa ha preso corpo. La indeterminata astrattezza delle iniziative referendarie, la molteplicità delle norme che, confusamente, si è posta all'attenzione del popolo, evidenziano, secondo me, una sostanziale disattenzione alle condizioni politiche in cui la cosa si è sviluppata, un misconoscimento dei problemi di alleanze, una insufficiente considerazione del rapporto tra i vertici del Pci - tesi ad una brutale delimitazione delle possibilità di
autonomia della opinione pubblica non irreggimentata dai partiti - e la sua stessa base sociale, largamente favorevole all'abrogazione delle materie di cui si proponeva la prova referendaria. E' ciò solo una disattenzione? Non lo credo; credo invece che si sia data una grossa occasione ai vertici del Pci, alla Dc, alla Corte Costituzionale di prendere in contropiede le forze politiche promotrici della iniziativa; e credo che vada onestamente riconosciuto che quella subita è una sostanziale sconfitta politica. E' meglio riuscire ad abrogare pochi articoli del Codice penale Rocco piuttosto che impostare una battaglia generale - di per sé giusta - ma che non tiene conto delle possibilità che in questo caso si offrono agli avversari. Sono consapevole che le mie argomentazione collimano in modo non secondario con quelle di coloro che hanno tentato di affossare i referendum. Ma la cosa non deve spaventare chi formula considerazioni critiche, interne al progetto di chi vuole rivitalizzare le energie sociali estern
e ai grandi partiti.
L'esempio portato non è comunque il solo; in molti altri casi le iniziative dei radicali hanno mostrato troppa poca attenzione alle condizioni politiche concrete in cui la loro iniziativa si svolgeva; e, inoltre, troppa poca attenzione alla logica delle forze sociali senza le quali nessun progetto di avanzamento sociale è possibile. Il che ripropone, secondo me, una definizione delle strategie di azione, "dentro la politica", senza la quale anche i movimenti emergenti, espressione della maturità della contraddizione sociale, rischiano di diventare solo sintomo, e non anche negazione dinamica, della crisi di orientamento delle grandi organizzazioni tradizionali.