di Mario SignorinoSOMMARIO: La scelta ecologista è la più appropriata alle dimensioni delle lotte radicali. Essa è centrata sulla parola d'ordine del "governo ai cittadini", della presa di possesso da parte della gente dei problemi economici e sociali che determinano la vita di ogni giorno e che da sempre erano riservati agli esperti, cioè al regime. Non è una riappropriazione che muove dal centro, dallo Stato, ma dalle periferie, dalla rivitalizzazione dei governi locali contro il centralismo, dalla concretezza del quotidiano contrapposto al monopolio ideologico dei partiti "romani". Nuovi soggetti collettivi entrano nella lotta politica: i paesi, le piccole e le medie città, le regioni intese come corpo unitario, anche sul piano culturale, di prospettiva, di sviluppo; insomma, gente più territorio più autogoverno, il conflitto con i "superiori interessi nazionali".
(NOTIZIE RADICALI N. 123, 18 ottobre 1978)
I radicali attraversano un periodo singolare e per molti aspetti indecifrabile: il partito appare ripiegato su se stesso, alla ricerca di nuovi punti di equilibrio dopo il successo politico dei referendum, ma anche dopo il trauma della sospensione dell'attività degli organi esecutivi centrali. La stessa indicazione della "regionalizzazione", cioè di un nuovo radicamento nelle realtà locali, rimane in gran parte vuota di contenuti. Così pure l'impegno per il superamento dei limiti "centro-nordisti" del partito, con l'avvio di poli di iniziativa nel Sud, si è finora risolto in una constatazione d'impotenza.
Dall'altra parte, però, alcuni partiti regionali cominciano a ricercare programmi di lotta autonomi o, più esattamente, la capacità e gli strumenti per farsi davvero partiti, soggetti politici autonomi nello spirito vero dello Statuto. E c'è una constatazione da fare: molti partiti regionali, molti radicali hanno già operato una scelta verso l'ecologia politica. E' stata un'adesione istintiva, verso battaglie nuove ma singolari vicine alla cultura e alla prassi radicali; e non sono mancate iniziative spontanee e decentrate, nate senza una parola d'ordine dal centro.
Queste iniziative, l'azione della Lega antinucleare (oggi "Amici della Terra"), l'appello dei deputati radicali per una moratoria nucleare, hanno già avuto nel 1977 un primo risultato politico: impedire che tutti i partiti, compresi Pdup e Dp, passassero nel silenzio il piano nucleare dell'Enel. Ma si è trattato pur sempre di iniziative slegate, prive di obiettivi a lungo respiro, senza alcun raccordo nazionale.
Questo, almeno, facendo il punto della situazione oggi. Però, se non c'è un programma definito, vi sono elementi più che sufficienti per individuare la direzione in cui possiamo (e dobbiamo) muoverci. "Ecologia, referendum regionali, leggi d'iniziativa popolare regionale" rappresentano un complesso unitario di indicazioni che possono trovare una valida prospettiva comune. Le condizioni già esistono.
Non è un caso: la scelta ecologista è la più appropriata alle dimensioni delle lotte radicali. Essa è centrata sulla parola d'ordine del "governo ai cittadini", della presa di possesso da parte della gente dei problemi economici e sociali che determinano la vita di ogni giorno e che da sempre erano riservati agli esperti, cioè al regime. Non è una riappropriazione che muove dal centro, dallo Stato, ma dalle periferie, dalla rivitalizzazione dei governi locali contro il centralismo, dalla concretezza del quotidiano contrapposto al monopolio ideologico dei partiti "romani". Nuovi soggetti collettivi entrano nella lotta politica: i paesi, le piccole e le medie città, le regioni intese come corpo unitario, anche sul piano culturale, di prospettiva, di sviluppo; insomma, gente più territorio più autogoverno, il conflitto con i "superiori interessi nazionali". Come stava accadendo (e poteva succedere) a Montalto di Castro, come è successo a Trieste. Dieci Trieste, dev'essere la scommessa della regionalizzazione: n
ei prossimi anni, non potendo essere il programma di un anno solo.
E' su questo piano, infatti, che oggi si determina la contraddizione nuova del regime, e si aprono nuovi fronti di lotta per un partito radicale che vede ridursi sempre più gli spazi di iniziativa a livello istituzionale e anche la possibilità di suscitare contraddizioni nei partiti della sinistra.
L'esito del voto referendario ha reso manifesta la crisi di credibilità dei partiti. Le elezioni di Trieste (dove il partito radicale ha conquistato il 6 per cento dei voti) l'hanno confermata. Si può pensare perciò che, malgrado tutti i fattori a nostro svantaggio, il terreno elettorale ci offre la possibilità di confronto politico che non possiamo trascurare.
Che significa: che dobbiamo trasformarci in un'agenzia elettorale? Magari tenendo presente che, obiettivamente, nel prossimo anno vi saranno le elezioni europee, forse anche le elezioni politiche anticipate, che dovremo prepararci per quelle regionali in Sardegna e poi, entro due anni, in quasi tutta l'Italia? La china sembra pericolosa. Ma il caso di Trieste ci dice che c'è un modo corretto di andare agli appuntamenti elettorali: non sfruttando rendite di posizione che potrebbero rivelarsi illusorie, ma conquistandoci con iniziative precise e identificabili una reale presenza politica nelle città, nei paesi, nelle periferie, sui problemi sui quali più netto si manifesta il rifiuto popolare della politica di regime. In questo senso, lo scontro elettorale sarebbe uno strumento di amplificazione e di verifica della nostra iniziativa politica.
Nell'esperienza radicale, tuttavia, Trieste è un caso isolato. In tutte le Regioni il partito è estraniato dai problemi locali, i radicali lombardi fanno le stesse cose dei radicali siciliani o romani (vi è persino un'identità di linguaggio). In fin dei conti, il partito è esistito finora solo come "task-force" finalizzata all'esecuzione di progetti centralizzati, è stato anch'esso cioè un corpo centralizzato o, più precisamente, una grossa testa nazionale con una corona di militanti isolati e di associazioni per lo più limitate alle grandi città, assenti in genere nei piccoli centri e nel Mezzogiorno.
Insomma, un partito lontano dal progetto statutario e privo di radici nelle realtà locali; un antagonista politico senza retroterra e senza santuari, segnato profondamente degli stessi squilibri del regime che pretende di combattere. Quando in Regioni come la Sicilia, le Puglie, la Toscana, la Sardegna, l'Abruzzo, le Marche, la Liguria, il Trentino, il Friuli, l'Umbria ci sono solo alcune decine di iscritti; quando in Calabria o in Basilicata gli iscritti sono 2 o 3, si possono trarre solo due conclusioni: in gran parte delle Regioni il partito radicale non esiste, ed è quindi urgente e vitale porsi l'obiettivo di superare questa situazione. Ecco il senso della "regionalizzazione" e la sua necessità.
Non dobbiamo però nasconderci le difficoltà di questa scelta e le contraddizioni oggettive che solleva a ogni passo. Come conciliare ad esempio l'impegno sulle scadenze immediate (come le elezioni) con lo sforzo a media scadenza per costruire i partiti regionali? Sarà difficile trovare il giusto punto di equilibrio, e correremo il rischio di esaurirci nella rincorsa delle scadenze immediate ed "esterne". Può accadere poi, che la nuova scelta venga interpretata come una ritirata in ghetti localistici, isolati e slegati, senza un chiaro disegno percepibile ugualmente da tutti, a Trieste come a Palermo o a Firenze; che si arrivi cioè a un semplice sparpagliamento, alla frantumazione delle già esigue capacità di iniziativa.
Possiamo evitarlo, se avremo la capacità di individuare uno, due, al massimo tre poli di iniziativa con peso e valenza interregionale (se dispiace l'espressione "nazionale"), in una o due o tre Regioni, e su di essi concentrare risorse e capacità. Uno di questi poli dovrebbe essere, ovviamente, nel Sud.
Dal punto di vista dei partiti regionali, si tratta di individuare iniziative locali che abbiano rilevanza generale, capaci di alimentare lotte per grandi diritti civili, valide per tutti. Lotte locali, quindi, che possono rientrare in campagne nazionali e trovare in queste un supporto e un motivo di amplificazione (è impensabile che basti una parola d'ordine a creare un'autosufficienza finora inesistente o quasi). E dove trovare questo, se non nell'ecologia politica?
Esistono già alcune condizioni necessarie, se non sufficienti. Le ipotesi di lotte ecologiste su cui si discute sono già parecchie e rendono possibili convergenze più ampie, interregionali, di energie, di esperienze, di capacità. La moratoria nucleare per esempio, o il "processo" all'Enel quale maggiore istituzione della politica centralistica dell'energia; oppure il riassetto idrogeologico del territorio, che presenta momenti di grande rilievo per il "governo" delle città e delle campagne e per l'occupazione; o un'iniziativa esemplare, intransigente e documentata, sull'Italsider di Taranto, l'industria che fa più morti della legge Reale. O, ancora, il problema dell'acqua di cui in intere regioni, come in Sicilia, c'è penuria permanente. Senza dimenticare - il referendum sulla caccia che presenta, se gestito dai radicali, un potenziale politico di grande portata, e sul quale a Bari dovremo prendere una decisione definitiva.
Una cosa però occorre riaffermare: l'impegno prioritario dei radicali, a livello locale dove possibile e comunque a livello "nazionale", dovrebbe essere rivolto alla richiesta di moratoria nucleare. E' il problema più grosso e drammatico che le scadenze ci impongono, è la chiave di volta dell'ecologia politica, è il terreno sul quale il conflitto tra poteri locali e Stato accentrato si fa ormai esplosivo. L'ecologismo, senza questa lotta, è pura accademia.
No si tratta ancora di programmi definiti, certo. Anche perché non può esservi programma senza una capacità d'iniziativa che, sia a livello locale che "nazionale", è ancora tutta da inventare. Non si tratta neppure di scadenze a breve (quindi, anche per questo, adeguate alla prospettiva a medio termine della "regionalizzazione"). Ma di sicuro ci dovremo porre - già a Bari, ma soprattutto nel corso del prossimo anno - di fronte a una limpida scelta di tendenza. Essa rappresenta l'unico complesso di contenuti finora individuato per dare concretezza alla decisione di far politica locale attivando gli strumenti disponibili di democrazia diretta a livello regionale: referendum, leggi di iniziativa popolare; "gusci" che non possono essere separati dai contenuti per i quali sono stati pensati senza svuotarli pericolosamente.
Le difficoltà di queste scelte sono enormi, né si risolvono a breve scadenza; sappiamo di avviarci su fronti di lotta sconosciuti. E tuttavia c'è sempre un momento in cui bisogna decidere di tentare. L'importante è non ripetere quanto è stato pur necessario in passato, continuare cioè ad attendere le indicazioni da quel "centro nazionale" che ha assicurato in questi anni le condizioni di sopravvivenza e di sviluppo del partito. Non abbiamo alternativa: a meno di non voler passare il nostro tempo a suonare il piffero per la regionalizzazione, continuando in pratica a muoverci nella direzione opposta. O a non muoverci affatto.