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Spadaccia Gianfranco - 8 novembre 1978
Come vogliamo cambiare il Partito Radicale
Intervista con Gianfranco Spadaccia dopo il congresso di Bari

SOMMARIO: Il Partito Radicale ha tenuto nei giorni scorsi a Bari il suo XX congresso, conclusosi con l'elezione ci un segretario "straniero": Jean Fabre, il quale è stato affiancato da una segreteria con 16 dirigenti "storici" del partito. Sul bilancio del congresso, sui programmi del PR, sui suoi rapporti con la nuova sinistra, riteniamo utile pubblicare il parere di Gianfranco Spadaccia)

(LOTTA CONTINUA, 8 novembre 1978)

L.C. - Quali ritieni essere le forme più efficaci dell'opposizione oggi in Italia? Quelle "sociali" o quelle "istituzionali"?

Spadaccia - Le une o le altre. Dipende da come si fanno e, per le prime, avendo la preoccupazione di trovare uno sbocco politico e istituzionale: preoccuparsi cioè di farle entrare in rapporto e in conflitto con il diritto, con i dati di potere e con le istituzioni, facendo leva sulle loro contraddizioni per sconvolgerle, trasformarle, rovesciarne la logica di classe.

Sembra che intendiate impegnarci sempre più su battaglie di tipo "sociale" contro il "nucleare" ad esempio. Che modifiche implica ciò nella vostra stessa organizzazione?

Qualcuno ha scritto che, sconfitti sul piano nazionale, ci preparavamo a ritirarci nelle regioni. E' una ben strana sconfitta quella che avemmo subito l'11 di giugno se ha prodotto la caduta di un presidente della Repubblica, l'elezione di Pertini, l'allarme di tutte le forze politiche e se ha rivelato lo scollamento dei partiti di regime e il loro elettorato. Tanto poco ci sentivamo e ci sentiamo sconfitti che ci siamo presentati al congresso ponendoci l'obiettivo delle elezioni europee come mobilitazione eccezionale del partito e siamo, in questa prospettiva, usciti dal congresso con la segreteria del compagno Fabre che, dalle prime reazioni, ha già mostrato, le possibilità d'intervento e di iniziativa sul piano italiano e internazionale e le contraddizioni che può suscitare ed aprire.

E' esattamente il contrario, dunque: è il moltiplicare le nostre iniziative e i luoghi dello scontro, insediando le lotte radicali ed alternative anche in dimensioni territoriali diverse da quella nazionale: nelle periferie urbane e nelle metropoli industriali come nelle metropoli disgregate delle regioni "depresse". Moltiplicare i referendum, attivando gli istituti della democrazia diretta regionale (referendum regionali e progetti di iniziativa popolare), moltiplicare le lotte per i diritti civili e farsi carico ormai direttamente dei problemi economici e sociali con le lotte contro il nucleare civile e militare (pensate a Trieste gli effetti che ha avuto la lotta per la difesa del Carso, pensate al referendum austriaco), e per conquistare condizioni più umane di vita e di lavoro contro la logica distruttiva di questo sistema produttivo e di questa meccanica dello sviluppo (distruttrice di ricchezza, distruttrice dell'ambiente e della vita concreta e quotidiana di masse sempre più vaste e consistenti di pe

rsone). Portare queste lotte nelle regioni e nel territorio, ma riconquistare ad esse anche la dimensione internazionale e internazionalista.

Nella scelta di un segretario francese, oltre a un giudizio evidentemente positivo sulle sue capacità, traspare anche l'intenzione di lanciare in grande "l'ipotesi europea" del PR. Che intenzioni avete, di qui alle elezioni europee di primavera?

Le elezioni europee, come ogni elezione, possono essere micidiali per una forza alternativa se vengono viste come una scadenza "obbligata" cui si "deve" partecipare. Possono essere invece un moltiplicatore della forza alternativa di un partito e di un movimento se vengono colte come una occasione per rafforzare le proprie caratteristiche internazionaliste e quindi per conquistare anche gli strumenti organizzativi e di lotta internazionali e trans-nazionali senza i quali l'internazionalismo o è soltanto una vuota affermazione ideologica e solidaristica o è politica diplomatica di vertice e di potenza. Questo è dunque il nostro primo compito. Le elezioni sono un momento collegato e successivo. Questo è il contributo che può darci Jean Fabre, un militante nonviolento, obiettore di coscienza, su cui pende un mandato di cattura dei tribunali militari francesi e che ha sperimentato in Francia, in Belgio, in altri paesi le tecniche della disubbidienza civile: guidare il partito potenziando le nostre lotte internazi

onaliste, antimilitariste, antinucleari di rivoluzionari nonviolenti.

Non hai l'impressione che la base del PR sia la più "turbolenta", ma in ultima analisi anche la più subalterna al fascino e al ruolo del suo gruppo dirigente?

La verità è che da noi il gruppo dirigente si modifica, si allarga e si trasforma durante il lavoro di un anno e trova poi sanzione quasi visiva in congresso con processo palese, per lo più in nulla preordinato e quindi che può risultare talora drammatico perché sotto il fuoco di un momento collettivo. Ma è anche vero che esiste un patrimonio di un gruppo che lavora da molti anni, anzi per alcuni da molti decenni, che ha costruito anno dopo anno (fin dalla fine degli anni '50) il nuovo PR: un patrimonio di esperienze, di lotte e di capacità che non può essere cancellato con un colpo di spugna, e che finisce quindi giustamente per pesare sulle soluzioni. In questo senso se non si vuol fare della facile retorica della base, bisogna guardare alle trasformazioni dei ruoli ed alla modifica delle composizioni delle responsabilità tra i diversi compagni che hanno operato in un anno piuttosto che a mitiche contrapposizioni tra "dirigenti" e "diretti" che non hanno senso in un organismo di poche migliaia di persone.

E che ha il suo campo d'azione non nel partito ma nella società. Da noi ogni congresso è come l'ultimo, bellissimo, che ha avuto "Lotta Continua" organizzata, a Rimini. Solo che ne abbiamo uno l'anno. Gli scontri - anche quelli su e contro il "gruppo dirigente" - avvengono con durezza e senza mediazioni. E cambiano, ad ogni congresso, il partito, lo trasformano, e cambiano e trasformano il cosiddetto gruppo dirigente. Ogni anno ogni segretario era considerato un'"invenzione". E' stato così per i ventenni Cicciomessere ed Ercolessi, per la "donna" segretario Adelaide Aglietta, per le deputate Adele Faccio ed Emma Bonino. In realtà non erano invenzioni, era uno sconvolgere i ruoli, dissacrare lo stereotipo delle "cariche", sperimentare le responsabilità. Sarà così, è così anche per Jean Fabre. Queste "invenzioni" diventano capacità militanti, patrimonio personale di ognuno e collettivo di tutti. E tutti noi ne impariamo a non cristallizzarci, a non rientrare nei ritmi e nelle abitudini usuali dell'impegno poli

tico, cioè nei ruoli.

Circola una voce maligna: che con il suo ultimo congresso quello che si definisce il partito libertario per eccellenza abbia accentuato una posizione "dittatoriale" della sua direzione (e di Marco Pannella in particolare).

Marco Pannella esiste e sarebbe stupido fingere di ignorarlo. E' il discorso del cosiddetto "carisma". La parola, usata sapientemente dagli avversari, finisce per dare al problema connotazioni quasi magiche, non razionali. La razionalità organizzata dei libertari come non deve condizionare, comprimere, schiacciare le "diversità" dei suoi militanti così come non deve comprimere o temere la loro forza della loro personalità soprattutto quando è il prodotto di una straordinaria e coerente esperienza, personale e politica, di vita e di lotta e di uno sforzo collettivo durano oltre vent'anni.

In misura diversa questo vale per tutti gli altri compagni che hanno una lunga continuità di iniziative e di lotta. Come impedire che questa esperienza si trasformi in "dittatura"? Attraverso la distinzione delle responsabilità e la loro precisa individuazione, senza infingimenti collettivistici, collegiali, assemblearistici: non nascondendo quindi nel collettivo queste responsabilità ma portandole direttamente in primo piano.

Facciamo il paragone con Sofri: il suo "carisma" (perché infatti usare questo criterio solo per Pannella?) era utilizzato all'interno di una struttura collettiva (la segreteria collegiale) e rivolto tutto all'interno del movimento. Quello di Marco si è sempre rivolto all'esterno nella lotta politica. Certo, è impensabile che non abbia influenze importanti di riflesso anche all'interno, dirette o indirette. Ma queste come quelle degli altri compagni hanno un metro di misura, esplicito, nei fatti nei comportamenti, e nei risultati.

Quanto alla soluzione adottata dal congresso, da due anni abbiamo sperimentato la netta separazione dei due soggetti radicali (partito e gruppo parlamentare) nelle reciproche sfere di responsabilità, il primo impegnato nella lotta politica nel paese, il secondo nel lavoro legislativo. Ma quando entrambi i soggetti sono impegnati nei referendum o nelle elezioni, ieri a Trieste, oggi a Trento e Bolzano, domani alle europee o alle politiche anticipate, occorre creare evidentemente un momento di coordinamento, di dibattito, di confronto, non soltanto informale. Lo abbiamo trovato in un organismo consultivo, che non ha poteri né deliberativi né formali, il cui scopo è anche di assicurare al segretario il confronto con quanti hanno avuto in precedenza responsabilità dirette nel partito. Non è un direttorio. E' un momento di confronto.

Al congresso di Bologna avevamo notato una notevolissima coincidenza - anche fisica - tra i militanti radicali e i lettori e i compagni che fanno riferimento al nostro giornale. Secondo te fin dove arriva questa coincidenza, e dove iniziano le differenziazioni (non tanto politiche, ma anche di aree sociali e culturali)?

Questo è vero per la generazione più giovane (e anche più militante) del PR. La differenza comincia quando si esce da questa generazione. Le assemblee radicali sono sempre molto più promiscue (donne e uomini, giovani e anziani): per sesso ed età dunque, ma anche per quando riguarda le classi sociali, ed anche le aree politico-culturali. I dati teorici e di prassi che ci sono comuni (nonviolenza, laicismo, libertarismo, libero amore, pacifismo, anticlericalismo, antimilitarismo) sono conquistati da gente di provenienza culturale, fede, orientamento ideologico almeno inizialmente diverso. E' la caratteristica di un partito laico e nonviolento (non ideologico): il modo laico di stare assieme per raggiungere specifici obiettivi di lotta. Una delle differenze è, credo, nel fatto che non siamo nati nel '68. Il '68 non ci ha dato dei frammenti del suo movimento, ma ci ha dato come risultato la liberazione di energie sociali provenienti da ogni strato della società, e che oggi ritroviamo anche nel partito.

In che cosa vi ha cambiato il rapporto con Lotta Continua?

In passato dandoci la possibilità di mettere a confronto diretto due scelte radicalmente diverse, nella prassi di lotta e nella organizzazione. La lotta per i referendum, l'esperienza in Parlamento, la lettura del quotidiano ci trasformano come ci si trasforma sempre a contatto con realtà ed esperienze "diverse". Ne son nati rapporti, anche personali ovunque sempre più diffusi, una conoscenza più diretta senza la quale le trasformazioni reali non sono possibili. Entrambi siamo alle prese con i problema della nonviolenza e della sua prassi alternativa di fronte all'esplosione della violenza di regime e alla violenza del partito armato: voi ancora come vostra contraddizione (e quindi non necessariamente nel senso negativo del termine); noi per non essere riusciti ancora a dare, se non eccezionalmente, a questa prassi nonviolenta dimensioni nuove e di massa.

In Trentino Alto Adige i compagni radicali e di Lotta Continua, insieme a moltissime "realtà di base", hanno dato vita alla lista elettorale di "Nuova Sinistra". Nella campagna elettorale sembrerebbe che voi diate per assodata una "divisione dei comitati": a voi i grandi comizi e la campagna d'"opinione", agli altri il lavoro di base.

In nessun campo, e neppure in questo, credo alle divisioni dei compiti e ai "ruoli": noi gli operatori del "politico", voi quello del "sociale", noi gli animatori delle campagne d'opinione, voi i protagonisti delle esperienze di base. Queste classificazioni usate da sociologi e da politologi sono spesso schematiche e superficiali: usate da movimenti di lotta e da organizzazioni politiche sono suicide o servono solo ad autolimitarsi. Non ho esperienza diretta della campagna della lista di "Nuova Sinistra" se non limitata a due soli giorni. Ma perso che in una campagna elettorale il problema è quello di riuscire a parlare a tutti, ad assicurare a tutti la conoscenza della lista e dei suoi programmi, della sua volontà alternativa.

E' questo il motivo del nostro sostegno alla lista, come partito, partiti regionali e gruppo parlamentare. E non credo che i miei compagni si limitino a parlare per radio o nei comizi, e rifiutino invece di andare nelle assemblee di fabbrica o di scuola. Una forza è rivoluzionaria quando riesce a suscitare e a far esplodere contraddizioni in ogni settore della società, anche il più lontano. C'è invece nei compagni di "Lotta Continua" ancora una sorta di complesso di inferiorità, un residuo di mentalità gruppettara nonostante il dissolvimento del "gruppo", una tendenza a chiudersi nel movimento invece di rivolgersi all'esterno nella lotta politica contro il regime, contro l'avversario di classe, contro le strategie perdenti della sinistra storica, creatrici di disfatte per la classe.

 
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