Atti del Convegno giuridico "Informazione Diffamazione Risarcimento" promosso dal Centro di Iniziativa Giuridica Piero Calamandrei (Roma, 24/26 novembre 1978, Hotel Parco dei Principi)Libertà di espressione e tutela dell'onore nei mezzi di comunicazione di massa
di Giovanni Conso
SOMMARIO: La critica, attraverso l'analisi dei lavori dell'Assemblea Costituente e delle sentenza della Corte Costituzionale, della legislazione vigente in materia di reato di diffamazione e libertà di stampa. L'inadempienza del Parlamento e le proposte per una nuova legislazione per la tutela dell'onore nei mezzi di comunicazione di massa.
(TUTELA DELL'ONORE E MEZZI DI COMUNICAZIONE DI MASSA, Giangiacomo Feltrinelli Editore, ottobre 1979)
Sono qui come ospite, un ospite incaricato di svolgere la relazione generale: debbo, quindi, cominciare con un ringraziamento a chi mi ha rivolto questo invito ed affidato questo compito. Vorrei però subito mettere le mani avanti, onde evitare di deludere troppo chi mi ascolta. Che cosa significa relazione generale? A rigore, per essere considerata generale, una relazione dovrebbe cogliere, progettare ed affrontare, almeno nelle grandi linee, tutti gli aspetti del tema oggetto del convegno. Ma il fatto è che il discorso introduttivo di Franco De Cataldo ha già indicato tali e tanti problemi di carattere politico, sociale e giuridico, che credo veramente indispensabile impormi dei limiti.
Il primo nasce dalla mia qualificazione di penalista (la trattazione civilistica sarà compito domani di Stefano Rodotà) ed il secondo dall'interpretazione dell'argomento che mi è stato affidato ("Libertà di espressione e tutela dell'onore nei mezzi di comunicazione di massa") alla luce del titolo dell'intero convegno ("Informazione, diffamazione, risarcimento"). Poiché per un penalista la diffamazione diventa il nucleo centrale del discorso, mi occuperò in prevalenza della figura della diffamazione, con particolare riguardo ai mezzi di comunicazione di massa. Non senza tener conto che gli interventi e le comunicazioni previsti sono così numerosi e significativi sia per il nome degli autori sia per la portata degli argomenti assegnati da garantirmi che i punti che tralascerò o toccherò di sfuggita saranno certamente evidenziati in prosieguo.
D'altra parte, in sede di premessa, non posso - anche se Luca Boneschi ha già parlato in proposito come animatore e rappresentante ufficiale di questo Centro - non fare un cenno alla polemica sorta intorno al nome fatidico di Piero Calamandrei. Lo farò prendendo spunto da un passaggio delle dichiarazioni rilasciate da Franco Calamandrei, a proposito della non omogeneità tra il pensiero di Piero Calamandrei e l'organizzazione di questo Centro di cui oggi sono ospite. Franco Calamandrei, parlando di suo padre, del suo antifascismo e della sua aspirazione socialista, parla anche del suo senso della capacità progressiva, profonda ed insostituibile della Costituzione. Ebbene, ritengo che proprio il tema stesso prescelto per questo dibattito sia assolutamente omogeneo con l'impostazione di fondo del pensiero di Piero Calamandrei, così ben sintetizzato da suo figlio. Anche se tutti sappiamo quale bandiera, quale propulsore di idee, quale costante punto di riferimento Piero Calamandrei sia stato e per molti anni anc
ora sarà, penso non sia inutile documentare, attraverso un suo intervento, la sua capacità di individuare quello che è il nucleo di questo convegno, la contrapposizione di due valori in decisa alternativa, un'alternativa da contemperare, bilanciandoli reciprocamente.
Tra la massa enorme di scritti che Piero Calamandrei ha dedicato alla politica, alla scienza, alla vita sociale, farò un riferimento particolare ad una relazione da lui tenuta nel 1952, al primo congresso della stampa femminile. E' il discorso più ampio che Calamandrei abbia dedicato all'argomento. Fin dalla primissima parte di tale discorso si ricava come Calamandrei avesse individuato il nocciolo, arduo da sciogliere, dell'intero problema. Il paragrafo inizia, infatti, con questo titolo: "La libertà di stampa è in pericolo." Collochiamolo storicamente (1952): la Costituzione era appena entrata in vigore eppure la libertà di stampa riconquistata era già in pericolo e Calamandrei lanciava l'allarme con una battuta stentorea accompagnata subito da una considerazione tuttora attualissima: "Con la stampa si possono commettere reati quali la diffamazione, le minacce, l'istigazione, ed essi quando sono commessi a mezzo della stampa sono più gravi, più diffusibili." Preoccupato di difendere la libertà di stampa, d
i scongiurare i pericoli su di essa incombenti, Calamandrei sottolineava come attraverso la stampa si possano commettere reati che, in quanto realizzati con tale mezzo, rivestono una carica di aggressività particolare, donde l'esigenza di un bilanciamento con il bene dell'onore. Di questo discorso desidero utilizzare anche le pagine conclusive, perché sono un inno alla libertà di stampa, ma un inno alla libertà di stampa intesa in quel senso sociale che la Costituzione vuole per la costruzione di una società democratica. Era il primo convegno della stampa femminile, e, dunque, Calamandrei parlava della libertà di stampa nel quadro dei problemi della donna. Rileggendo adesso quelle parole, sentirete implicitamente infiniti riscontri con tutto quanto è avvenuto dopo. "Annullata o limitata la libertà di stampa, sono annullate due libertà fondamentali, su cui si regge la democrazia e la civiltà: cioè la libertà di opinione, che poi vuol dire in campo politico libertà di opposizione; e la libertà di informazione
e di cultura, che poi vuol dire ricerca libera della verità e libera espressione dell'arte. Contro tutte le oppressioni, contro tutti i privilegi, contro tutte le corruzioni dei ceti dirigenti, la libertà di stampa è l'arma più potente degli oppressi, che propongono alla opinione pubblica le loro esigenze, le loro rivendicazioni."
"Io concepisco la democrazia soprattutto come libertà di opposizione. Dove l'opposizione è soffocata si marcia verso il totalitarismo. Sopprimere la libertà di stampa, vuol dire sopprimere l'opposizione e asfissiare la democrazia". E poi poco più oltre: "Il diritto di opposizione è in pericolo in un paese dove la polemica politica, ossigeno della democrazia, può essere fatta tacere sotto il pretesto dell'offesa alla morale o alla religione dello Stato." E tornando, per concludere al problema della libertà di stampa, visto sotto lo speciale profilo della stampa femminile, Calamandrei diceva: "Sussistono problemi sociali e culturali, nella attuale civiltà, in cui le donne hanno da dire la loro parola, per far trionfare le proprie ragioni di emancipazione, contro secolari oppressioni, proprie ragioni di verità contro secolari menzogne? Se sussistono questi problemi, anche la stampa ha bisogno per risolverli della libertà di stampa, e chi limita la libertà di stampa impedisce alle donne di camminare sulla via de
lla loro liberazione sociale." "Esistono questi problemi? Esistono sfruttamenti di cui le donne, più degli uomini, sono le vittime? Esistono dolori, sofferenze, umiliazioni, condanne che la società presente infligge spietatamente soprattutto alle donne? Esistono problemi politici, economici e morali che soprattutto le donne sono chiamate a discutere perché sono i loro problemi? Sì, ve ne è tutta una serie. Pensate: tutti i problemi relativi alla maternità, alla filiazione, allo stato di famiglia, allo stato dei figli legittimi, dei figli adulterini, il problema dell'educazione sessuale, il problema della limitazione delle nascite, il problema delle case chiuse, tutti questi problemi devono essere trattati con la delicatezza, con la sensibilità, ma anche con la spregiudicatezza che solo le donne, le mogli e le madri possono avere." "Ma come trattare questi problemi se non c'è una stampa libera? Se c'è una legge che ammette il sequestro di polizia contro gli scritti che divulgano mezzi rivolti a limitare la pr
ocreazione, come impedire che uno sciocco censore scambi per reato ciò che è solo una aperta e umana discussione scientifica?"
In queste due pagine c'è in previsione una parte grossissima della storia del nostro paese. Ed ecco dimostrato, al tempo stesso, quali conquiste si possono realizzare attraverso la libertà di stampa, se questa libertà viene rivendicata ad ogni momento, sostenuta, difesa e viene vissuta come un'esperienza, magari rischiando.
Non meno importante mi pare il far cenno anche ad una lettera di Calamandrei. Qui non siamo nei grossi discorsi, e nemmeno nei grossi temi, siamo piuttosto nelle vicende strettamente personali. E' la lettera che il 14 febbraio 1955 Calamandrei scrisse a Luigi Preti. Poche settimane prima Calamandrei era stato vittima di un odioso attacco al suo onore, alla sua persona, al suo credo politico. Più precisamente, il 21 dicembre 1954, al teatro Brancaccio in Roma, si era tenuto un convegno, nel corso del quale Calamandrei ed altri uomini politici erano stati sottoposti ad un autentico linciaggio morale per aver difeso il Partito comunista italiano nei confronti di una serie di misure discriminatorie che il governo dell'epoca aveva proposto e portato avanti. Per essersi espresso in termini di vera democrazia, Calamandrei fu tacciato di essere un "sicofante", anzi di essere stato un "sicofante dei gerarchi fascisti": un insulto veramente atroce. Ebbene, egli si limitò ad indirizzare a Preti, che era stato tra gli o
rganizzatori di quel convegno (anche se risultò che Preti non vi aveva partecipato), una lettera in cui, dolendosi dell'episodio, così concludeva: "Volevo dar querela con ampia facoltà di prova, poi decisi di non reagire pubblicamente per non esasperare in quel momento la polemica, e non contribuire con un nuovo scandaletto giudiziario a screditare sempre più questa povera democrazia." Ci troviamo, dunque, di fronte ad un'esperienza vissuta in prima persona da Piero Calamandrei, diffamato nel modo più volgare: Calamandrei risponde con questa lettera che viene pubblicata su 11 Ponte cioè servendosi della libertà di stampa anziché dando querela con ampia facoltà di prova, come avrebbe pur avuto il desiderio, e il diritto, di fare.
Non solo il pensiero, ma anche la vita di Calamandrei, si rivelano in perfetta sintonia con il nostro tema attraverso i due scritti ricordati: il primo imperniato sulla libertà di espressione il secondo sulla tutela dell'onore. L'atteggiamento del Calamandrei che rinuncia a querelarsi ha trovato recentissima eco, non so quanto consapevole, ma in ogni modo interessante, nello scritto di un magistrato che della tematica dei reati commessi con il mezzo della stampa è uno studioso particolarmente attento, tanto è vero che egli cura con Angelo Jannuzzi una pubblicazione contenente l'esposizione ragionata di tutta la giurisprudenza in materia di stampa. Questo magistrato è Umberto Ferrante. In un articolo dell'8 ottobre scorso su Il Mattino di Napoli Ferrante dava ai cittadini che si sentono offesi il consiglio di "limitare il numero delle querele": "Misurino l'altezza del giornalista e, nei congrui casi, ne ignorino le parole applicando il principio che le ingiurie, seguendo le leggi della gravità fisica, non han
no peso se non per l'altezza dalla quale cadono." Ne emerge chiaramente un tentativo di sdrammatizzare il problema, forse anche dovuto a quella che certamente deve essere una grossa preoccupazione per un magistrato: la preoccupazione che tante querele, tanti processi per diffamazione, soprattutto tanti processi per diffamazione con ampia facoltà di prova, possono comportare per la pubblica accusa e per gli uffici giudicanti un ulteriore carico di lavoro in un periodo storico nel quale la magistratura, quasi lasciata a se stessa dalle forze politiche, deve fronteggiare tra difficoltà di ogni genere, reati di gravità certamente superiore, come quelli che turbano la collettività più che il singolo individuo. Ferrante, però, è così obiettivo che non trascura gli aspetti umani del problema, sia sotto il profilo di chi si sente vittima di un'aggressione diffamatoria, sia sotto il profilo del giornalista che vuole scrivere senza remore anche per ragioni di impegno civile, oltreché professionali. Ed osserva: "Il cit
tadino aggredito da un giornalista avverte non solo l'angustia dell'offesa, ma anche l'angoscia di dover decidere sulla opportunità o meno di proporre querela, consapevole che, tacendo, dimostrerà di aver accettato l'offesa e, reagendo, dovrà affrontare l'alea di una decisione eventualmente ancorata non a criteri predeterminati e certi, ma all'una o all'altra delle molte opinioni discordanti; il giornalista, di contro, non sempre può attuare il necessario autocontrollo, oscillando, in mancanza di un sicuro punto di riferimento, tra la consapevolezza di esercitare un proprio diritto e la preoccupazione di violare, esercitandolo, un diritto altrui."
Il problema ritorna così nei suoi termini drammatici, oggi più gravi che mai, proprio per il protrarsi delle incertezze dei dubbi, degli equivoci. E' un problema che dal 1948 la società italiana, la cultura italiana, la dottrina giuridica italiana, la giurisprudenza italiana, il giornalismo italiano hanno vissuto e sofferto, direi giorno per giorno: anzi, con il passare del tempo e, quindi, con il moltiplicarsi dei casi concreti le incertezze che si protraggono, i dubbi che aumentano, gli equivoci che si susseguono, hanno aggravato ulteriormente il problema, perché possiamo ben ammettere che per un certo periodo di tempo, un dato problema ci tormenti direi che ciò sia addirittura inevitabile (ogni riforma comporta un primo periodo di collaudo durante il quale incertezze dubbi ed equivoci sono utili o comunque stimolanti perché aiutano a fare chiarezza), ma quando, dopo trent'anni, la chiarezza non è neppure sfiorata, evidentemente c'è qualcosa di particolare che non quadra, sia pure in un Paese turbato da ta
nte carenze.
Il problema di come contemperare libertà di manifestazione di pensiero e tutela dell'onore è, peraltro, acuito nella sua gravità non soltanto dal trascorrere del tempo nella deludente ricerca di soluzioni chiarificatrici, ma anche dalle accresciute tensioni della vita politica, dalle polemiche sul terrorismo, dai contrasti sulla strategia da seguire nella lotta contro il crimine, dalla denuncia via via più vibrata degli scandali di regime, dalla diffamazione usata anche come mezzo per emarginare chi dissente o dà fastidio. E' un'analisi che può essere efficacemente sintetizzata utilizzando le parole pronunciate meno di un anno fa da Aldo Sandulli in un discorso dedicato ai problemi giuridici dell'informazione. Arrivato al tema dei mass media, Sandulli li definì "i problemi più importanti, più delicati, soprattutto quando si tratta di stampa periodica", e ciò perché "la non remuneratività della gestione dei giornali, a causa della quale risale un groviglio di fattori storici, politici, sindacali e di altro ge
nere, ha esposto nel nostro Paese la stampa periodica a essere raccolta forse nella maggior parte dei casi da editori non soltanto privati, interessati da ragioni diverse, di sostegno politico ideologico o, peggio, clientelare, di pressioni in favore di obiettivi pubblici o, peggio, privati, o, peggio, particolari, anziché dalla ragione naturale che per qualsiasi tipo di impresa è la remunerazione del capitale impiegato. Si somma a ciò la mancata attuazione finora di quella prescrizione dell'art. 21 della Costituzione, che, autorizzando la legge a stabilire che siano resi noti i mezzi di finanziamento della stampa periodica - e la legge dovrebbe valere per tutti i mass media privati - si propone la finalità che anche il pubblico meno informato possa acquistare coscienza di chi sta dietro ciascuna testata. Il quadro si completa - e qui il discorso diventa comune a tutti i mass media - con le forti tensioni sociali e politiche e le connessioni ideologiche che caratterizzano la società contemporanea e, in misur
a assai accentuata, quella italiana. L'effetto è che l'informazione, in un modo o nell'altro interessata e pertanto distratta dall'obiettività, rischia di diventare, e spesso diventa, in concreto fuorviante. Le sofisticazioni attraverso le quali, senza necessariamente arrivare alla menzogna e neppure all'omissione, essa è in grado di suscitare gli altrui convincimenti, evidenziando e sottacendo particolari, ironizzando, colorando, insistendo, diffamando, affiancando, concedendo o negando spazio, usando caratteri maggiori o minori, impaginando, toccano alti livelli di raffinatezza dai quali è estremamente difficile cautelarsi. Le vittime più immediate sono i lettori o gli ascoltatori più inconsapevoli, quelli meno introdotti nella tecnica di tener serrata la guardia, che oggi è difesa essenziale di ogni fruitore dell'informazione. La vittima ultima e più esposta è però sempre la collettività, che da una ricezione indifesa da parte dei propri componenti può vedere innaturalmente deviato, talvolta in modo irrev
ersibile, il corso della sua storia. E l'altra vittima è il diffamato, se diffamazione c'è." Mi pare, allora, che questo convegno abbia il merito di collocarsi nel preciso momento in cui lo stridore, le tensioni, i tempi lunghi, hanno esasperato al massimo i toni del problema, evidenziando gli inconvenienti derivanti dalla sua mancata soluzione, non dico in termini automatici, perché ciò non sarà mai possibile, ma in termini di sufficiente chiarezza e concretezza. D'altra parte, accanto al problema centrale, vi è tutta una gamma di questioni particolari, sempre più delicate e complesse. Direi che non passa giorno senza che si profili un qualche nuovo problema o un qualche nuovo modo di applicare una norma di dubbio significato. E manca sempre una bussola sicura per risolverli, con il che ci rendiamo conto di come la mancanza di questa bussola sia fonte continua di turbamenti, di incertezze, di distorcimenti.
Mi limiterò a qualche rapidissimo esempio. E' dell'altro ieri la notizia che la Corte di cassazione ha respinto un ricorso dei difensori di Camilla Cederna, in ordine al problema se si possano rivolgere domande o no al querelante, quando l'oggetto della domanda, dando luogo ad un certo tipo di risposta, potrebbe portare all'incriminazione del querelante che in quel momento, oltre ad essere querelante e persona offesa, è anche teste. Dalla Gazzetta Ufficiale del 25 ottobre 1978, ricavo che è pervenuta alla Corte costituzionale un'ordinanza emessa il 13 maggio 1977 dal Tribunale di Milano in accoglimento di un'eccezione proposta dal difensore dell'imputato - l'imputato è il direttore di un periodico a grande tiratura -, tendente a porre in rilievo la "macroscopica diversità di struttura e di organizzazione che distingue il periodico di limitate dimensioni, per numero di fogli e di notizie (come ad esempio il periodico a diffusione locale), dal grande organo di stampa a diffusione nazionale o internazionale", c
osì da sollevare un problema di legittimità in relazione all'art. 57 del c.p. e all'art. 3 della legge sulla stampa, che trattano allo stesso modo il direttore di un grande quotidiano o di un grande periodico, impossibilitato a controllare tutte le notizie, e il direttore di un giornale locale che, per la ridotta conformazione tipografica e per l'ambito ristretto di notizie, è in grado, invece, di svolgere il controllo preteso dalle norme penali. D'altra parte, apprendiamo continuamente notizie di smentite, controsmentite, rettifiche, richiesta di rettifiche, rettifiche che non vengono date o vengono date non nei modi dovuti. Recentemente, a proposito di un'intervista sulle designazioni per i vertici delle principali banche italiane, fatta al presidente della Commissione finanze e tesoro della Camera, il giornalista intervistatore, avendo sentito definire dall'intervistato uno dei sei designati come un "avventuriero", non solo ha pubblicato la notizia in questi termini generici, ma ha indicato anche quale fr
a i sei, a suo avviso, sarebbe stato fatto implicitamente oggetto della poco lusinghiera qualificazione da parte dell'intervistato: ovvia la smentita di quest'ultimo. Che cosa dire, poi, dell'intervista rilasciata dal ministro Donat Cattin a proposito del professor Romano Prodi, candidato alla sua successione? Stando all'intervistatore il ministro avrebbe affermato che il professor Romano Prodi non aveva dato buona prova di sé in precedenti vicende di carattere economico, aventi stretta pertinenza con l'ambito operativo del ministero per cui la sua candidatura stava venendo a profilarsi: anche qui smentite e controsmentite. Più delicati ancora gli episodi sempre ritornanti di accuse imperniate sul vilipendio: le discussioni che dieci quindici anni fa avevano raggiunto un notevole livello di intensità, guadagnando larghi consensi sino a tradursi in un disegno di legge che avrebbe voluto eliminare le relative figure delittuose, sono state in gran parte accantonate, mentre tutti sappiamo che, addirittura a live
llo di ex presidenza della Repubblica, sono state elevate imputazioni recenti di vilipendio: anzi, le dimissioni del presidente della Repubblica, secondo i comunicati rilasciati da qualche partito, gli sarebbero state sollecitate anche per consentirgli, una volta liberato dai vincoli derivantigli dall'alta carica, di fugare i sospetti con la massima chiarezza, visto che il reato di vilipendio non consente quell'"exceptio veritatis" che, viceversa, la diffamazione consente ad ogni privato cittadino. Che cosa, infine, dire dei sequestri susseguitisi al ritmo di 28 volte su trenta per la rivista "Il Male"? Sono tutti problemi che viviamo giorno per giorno, alcuni destinati ad essere dimenticati dopo qualche settimana, altri destinati ad entrare nella storia del paese. Eppure, per la loro soluzione manca - dicevamo - una bussola, manca un punto di riferimento.
Come mai, alle soglie degli anni Ottanta dopo oltre un trentennio dalla entrata in vigore della Costituzione, ci troviamo in questa impasse che sembra insuperabile? Al solito, si potrebbe essere tentati di rispondere che la colpa è della giurisprudenza, la colpa è della dottrina, in quanto non avrebbero saputo elaborare teorie convincenti, chiare, limpide, sicure. Ritengo che una risposta del genere sia decisamente da respingere, perché se esiste un capitolo in cui dottrina e giurisprudenza si sono impegnate a fondo, questo è indubbiamente il capitolo della diffamazione e in particolare, della diffamazione a mezzo stampa. Non starò ad analizzare qui le tesi via via propugnate, tanto più che negli interventi e nelle comunicazioni le principali saranno certamente esaminate in dettaglio. Mi basta ricordare che ci sono degli scritti splendidi per dialettica, per problematicità, per acume propositivo, però la divergenza di conclusioni è tale che, sulla base di questi pur mirabili contributi scientifici, la prassi
non ha potuto trovare un solido "ubi consistam". Se dunque da Nuvolone a Vassalli, da Crisafulli a Fois, da Spasari a Mantovani, da Fiore a Gregori, tanto per indicare qualche nome, i contributi sono stati profondi, articolati, ispiratissimi, ma mai decisivi, il significato di questo impegno dialettico che inutilmente si protrae da decenni diventa evidente: alla dottrina non è proprio possibile fissare, a causa delle troppo scarse od ambigue basi che le si offrono, indiscutibili punti fermi. E lo stesso si può ripetere per la giurisprudenza, la quale, nonostante ripetuti sforzi, non è riuscita a stabilire criteri veramente convincenti. Basti pensare a quel criterio della continenza che, a parte la poco felice terminologia, suscita un senso di estrema vaghezza, che comporta anche equivocità e, quindi, inidoneità a fornire soluzioni sicure. La vera difficoltà, a parte sempre la delicatezza della tematica, sta nella carenza normativa di fondo, dovuta a leggi inadeguate e comunque insufficienti.
Gli stessi meccanismi che sono stati escogitati dalla legge sulla stampa del 1948, oltreché dalla tradizione che vuole questi reati perseguibili a querela, non sono certo fatti per favorire una chiarificazione che, sia pure con gli inevitabili limiti, possa spingersi il più avanti possibile. Il rito direttissimo che la legge del 1948 ha ribadito sulla scorta del decreto legislativo 3 marzo 1947, n. 156, rendendolo addirittura ultradirettissimo in quanto la sentenza dovrebbe venire emessa nel termine massimo di un mese, si è rilevato assolutamente fuori della realtà, fino a restarne sconfessato, nel senso che i processi per diffamazione a mezzo stampa sono di durata enorme, salvo remissione della querela. Tutti i processi in Italia hanno bisogno di tempi estremamente lunghi (anche se i giudizi per direttissima sono quasi sempre piuttosto celeri, almeno in primo grado), ma questi risultano addirittura interminabili. La statuizione del rito direttissimo, solitamente acceleratoria, ha ottenuto qui 1'effetto cont
rario: il procedimento di primo grado dura di più della media degli altri processi di primo grado non direttissimi, compresi quelli per fatti più complessi o, comunque, ben più gravi, come i delitti di competenza della Corte di assise. Qual è l' inconveniente di fondo che porta a questi ritardi? La possibilità di rimettere la querela fino al momento in cui la sentenza diventa irrevocabile induce l'autorità giudiziaria a pazientare, anche perché la remissione concordata tra querelante e querelato vanifica totalmente il lavoro da essa compiuto. In tempi nei quali la magistratura è oberata da impegni quantitativi e qualitativi enormi, privilegiare i procedimenti a querela rispetto agli altri rappresenta un autentico controsenso. Da noi la remissione è consentita al di là del tollerabile, ma una volta intervenuta la sentenza di primo grado, la causa dovrebbe intendersi definitivamente radicata e non più continuare sulle sabbie mobili di un condizionamento perenne, fino ad un attimo prima della decisione ultima d
ella Corte suprema; senza contare che la Corte potrebbe addirittura rinviare il procedimento ad un nuovo giudice di merito, facendolo continuare chissà ancora per quanto tempo. D'altra parte, la remissione provoca inconvenienti anche sul piano della formazione di una giurisprudenza costruttiva: infatti, se molte volte essa interviene addirittura prima della sentenza di primo grado, con conseguente mancanza di una qualsiasi decisione, le altre volte, intervenendo dopo la sentenza di primo grado o dopo la sentenza di appello, impedisce il vaglio della Corte di cassazione (l'unico vantaggio in questi casi, è che il carico della Cassazione risulta alleggerito) creando disparità occasionali tra i procedimenti che vanno avanti ed i procedimenti che si esauriscono anzitempo. Ma, al di sopra di tutto, c'è un limite connaturato al tipo stesso della normativa penale in materia di diffamazione: i concetti di reputazione, di onore, di offesa della reputazione o dell'onore comportano che l'indagine che il giudice deve co
mpiere sia un'indagine squisitamente di merito. Ne consegue che la Corte suprema, pur potendo fissare determinati canoni interpretativi, deve normalmente arrendersi di fronte alle valutazioni formulate in sede di merito e trasfuse in una motivazione debitamente accorta dal punto di vista tecnico. Prova ne sia che assai sovente, dopo aver formulato il principio di diritto, la sentenza della Corte suprema conclude con il rigetto del ricorso non potendo sovrapporsi alla valutazione discrezionale compiuta dal giudice di merito.
Tutto sommato, dobbiamo, quindi, fare i conti con le inadempienze di carattere normativo, che sono inadempienze anzitutto di carattere costituzionale. Ma non si tratta soltanto di quel normale tipo di inadempimento costituzionale di cui, praticamente, ci dogliamo ogni giorno in questa repubblica che dopo trent'anni ha una Costituzione in gran parte inattuata. C'è una inadempienza del tutto particolare nei confronti dell'Assemblea costituente, che si aggiunge a quella che concerne la Costituzione in sé e per sé. L'occasione offerta da questo convegno è buona per ricordare che, appena emanata la Costituzione della Repubblica italiana, con il suo articolo 21 e tutti gli altri che sappiamo, la stessa Assemblea costituente, ha emanato anche quella legge 8 febbraio 1948, n. 47, intitolata "disposizioni sulla stampa", che praticamente è la legge sulla stampa da cui sono tuttora regolati i principali problemi in materia. Entrambe, dunque, e Costituzione e legge sulla stampa, sono nate dall'Assemblea costituente. Sot
to questo aspetto potremmo dire che la legge sulla stampa gode del privilegio di una origine eccelsa, ma ciò non significa che essa sia, come la Costituzione, modificabile soltanto in casi estremi e attraverso una procedura di revisione assai complessa. La legge sulla stampa è tutt'altro che un tabù intoccabile. Non vorrei che la sua sopravvivenza fino ad oggi fosse dovuta a una sorta di alibi più o meno inconscio della classe politica, incantata per l'origine particolare della legge. Si tratterebbe di un alibi assolutamente fallace perché, se è pur vero che questa legge è stata emanata dall'Assemblea costituente, è altrettanto vero che è stata emanata in chiave di indiscutibile provvisorietà, come una legge che doveva valere per l'immediato, anzi per un breve immediato. Il particolare è stato talmente obliterato dai nostri governanti, che a trent'anni di distanza ci troviamo con una legge che avrebbe dovuto vivere non dico trenta giorni, ma poco più di trecento: diciamo tre anni. Rivedere per un momento il
perché e il come sia nata questa legge può diventare utile per un rilancio del problema, un problema che ha vissuto momenti esaltanti sul piano dottrinale e sul piano politico, ma che, poi, forse perché altri problemi si sono sovrapposti, forse perché è nato un senso di delusione, quasi una sensazione di impossibilità nel fargli compiere qualche passo avanti, ha subito una caduta di tensione. Il problema resta, invece, di importanza fondamentale, addirittura prioritaria anche per il ritardo che si è venuto accumulando, un ritardo che si traduce in un tradimento dell'Assemblea costituente autrice di una legge che doveva durare pochissimo tempo e che invece sta diventando qualcosa di ineliminabile. Se almeno fosse una buona legge potremmo dire che, essendo stata l'Assemblea costituente troppo onesta nel volerla provvisoria dopo essere stata geniale nel costruirla, tanto varrebbe non privarcene mai. Ma poiché tutti constatiamo come queste norme siano inadeguate e, comunque, superate, il mantenerle in vita così
a lungo sa di disobbedienza verso l' Assemblea costituente. Per rendercene bene conto prendiamo tra le mani quelle disposizioni transitorie della Costituzione, di cui molto spesso ci si dimentica, quando addirittura non le si ignora. Ebbene, la XVII, che è l'ultima vera statuizione costituzionale, esordisce con il seguente primo comma: "L'Assemblea Costituente sarà convocata dal suo Presidente per deliberare, entro il 31 gennaio 1948, sulla legge per l'elezione del Senato della Repubblica, sugli statuti regionali speciali, e sulla legge per la stampa." Ecco: questi sono i tre obiettivi di cui l'Assemblea costituente - dopo aver assolto il suo compito primario, quello per il quale era nata, cioè dare alla Repubblica italiana la sua Costituzione - si è autoinvestita. Nulla di strano che la protrazione dei lavori venisse disposta al fine di dare al paese la legge per l'elezione del Senato della Repubblica: era un'autentica necessità, come doveva dimostrare l'appuntamento elettorale del 18 aprile 1948. Anche gli
statuti regionali speciali dovevano entrare immediatamente in vigore e bisognava pur provvedere. Ma la legge sulla stampa? Qui c'è qualcosa che, da un lato, appare affascinante e, dall'altro, risulta fuorviante. E' invero affascinante vedere posta allo stesso livello della legge per l'elezione del Senato e della legge sugli statuti regionali speciali la legge per la stampa, ed essa soltanto. Per tutti gli altri capitoli della Costituzione, per tutti gli altri aspetti attinenti alle libertà civili, l'Assemblea costituente non mostra di aver fretta nel deliberare in concreto, tutto demandando al Parlamento. Per la stampa, invece, sente il bisogno di provvedere immediatamente. Ed ecco, infatti, che nel gennaio 1948 lavora intensamente, così da onorare i compiti prefissi: prima del suo scioglimento vengono emanate le norme per l'elezione del Senato, quelle per gli statuti regionali speciali e le disposizioni sulla stampa racchiuse nella legge datata 8 febbraio 1948, n. 47.
Ma il quesito più interessante è un altro: come si è arrivati, perché si è ritenuto di arrivare a questa legge sulla stampa, almeno a queste prime norme relative alla materia, perché questa urgenza, questo battesimo, questo patrocinio dell'Assemblea costituente? Non resta che risalire al resoconto dei suoi lavori, e più precisamente alla seduta del 20 dicembre 1947. Erano ormai gli ultimi giorni. La Costituzione era pronta, mancavano soltanto alcune disposizioni finali. Tutti erano d'accordo sulla necessità di un breve prolungamento dei tempi per provvedere all'elezione del Senato e agli statuti regionali speciali. Fu l'onorevole Targetti a richiamare l'attenzione sulla esigenza di dettare norme anche sulla stampa. Si accese una grossa disputa: Targetti trovò l'appoggio di Mortati, ma ebbe molte opposizioni. L'emendamento da lui proposto fu, pochi giorni dopo, accantonato, ma poi reintrodotto in extremis. Ed ecco come Targetti motivò la sua battaglia: "Bisogna dettare queste norme sulla stampa, perché esse s
ono complementari, più che esse alla stampa, la libera stampa è complementare alle leggi elettorali. Perché il Paese possa affrontare la competizione elettorale per il suo primo Parlamento, ci deve essere la stampa libera, regolamentata, cautelata, non soltanto attraverso un principio costituzionale, ma attraverso disposizioni dettagliate. E - aggiungeva - questa legge è connessa con tutto ciò che è legge costituzionale, anche se non è legge costituzionale, e in quanto garantisce la libertà di stampa che fa parte del nostro sistema costituzionale, specialmente in riferimento al periodo elettorale." Un riconoscimento importante ed ineccepibile che si commenta da sé.
Nel mese di gennaio, dunque, l'Assemblea costituente si riunisce per affrontare il problema. Naturalmente il tempo non è molto, può dedicarvi soltanto una settimana: dal 12 al 20 gennaio. Sul tappeto c'era da vari mesi (dal 29 marzo 1947 per l'esattezza) un progetto presentato da De Gasperi con moltissime disposizioni. Ma in quei pochi giorni non è possibile trovare l'intesa su tutti i punti, su tutti i problemi, alcuni di così grande rilievo che le difficoltà per ottenere la necessaria maggioranza si rivelano insuperabili data la brevità del tempo disponibile. Nasce così questa legge monca, questa legge ridotta all'osso, con il minimo indispensabile, in via provvisoria. Gli altri problemi più grossi sono rinviati al dopo. Ad esempio, la intera tematica della stampa periodica, da regolamentare in modo organico; l'esigenza di facilitare le ritrattazioni, riducendo la pena a chi ritratta; l'opportunità di estendere il giurì d'onore anche alle offese larvate, allusive, indeterminate: ogni soluzione rimane in so
speso.
Pubblicata la legge, il commento generale fu quello che vi dicevo: una legge varata in fretta, per ragioni d'urgenza. Meuccio Ruini la definì: "Una legge stralcio frettolosamente varata"; quindi veramente transitoria, secondo l'etichetta che riunisce nella Costituzione le disposizioni conclusive, contrassegnate con numeri romani. Eppure, questa provvisorietà è diventata una stabilità al di là di ogni buon senso, trattandosi di norme che denunciano da sole, indipendentemente dalla origine, la loro impotenza, la loro inidoneità, la loro insufficienza. Del resto, non è che il problema si sia cristallizzato, nel senso di rimanere ancorato alle dimensioni di quel particolare momento storico: a parte che la storia nel suo fluire, soprattutto in un'epoca come questa, fatta di tecnologie avanzate e di rivolgimenti sociali profondi, porta alla ribalta prospettive sempre nuove, basterebbe il fatto dell'avvento della televisione a rendere superatissima una normativa basata soltanto sulla stampa dell'immediato dopoguerr
a. Sul piano delle modificazioni legislative, da allora ad oggi, vi è ben poco da registrare. Anzitutto la legge 4 marzo 1958, n. 127, suggerita da una sentenza della Corte costituzionale (la n. 3 del 1956), che, pur escludendo l'illegittimità del testo originario dell'art. 57 c.p., ne aveva auspicato una revisione al fine di renderlo anche formalmente più adeguato all'art. 27 della Costituzione per tutto quanto attiene alla posizione del direttore responsabile e, nel caso di stampa non periodica, dell'editore o dello stampatore: come risultato si è avuta la novellazione all'interno del codice Rocco degli artt. 57 e 58 e l'introduzione agli artt. 58 bis e 596 bis, tutti con riferimento al direttore responsabile, all'editore e allo stampatore, aspetti certamente importanti, ma collaterali che lasciano intatto il nucleo del problema, cioè la posizione del suo autore diretto, la posizione di colui che è offeso, I'"exceptio veritatis". Vi è stata poi la legge 3 febbraio 1963, n. 69 contenente l'ordinamento della
professione di giornalista: gli obiettivi sono, ovviamente, ben diversi e lontani dal nostro problema, se si eccettua un solo articolo, l'art. 2 dedicato ai diritti e doveri del giornalista: nel definire "il diritto insopprimibile dei giornalisti, la libertà di informazione e di critica, limitato dall'osservanza delle norme di legge dettate a tutela della personalità altrui", il legislatore riconosce che il valore sotteso alla tutela dell'onore deve essere tenuto presente e contemperato al principio della libertà di informazione. ("E' loro obbligo inderogabile", prosegue l'articolo, "il rispetto della verità sostanziale dei fatti, osservati sempre i doveri imposti dalla lealtà e dalla buona fede"; e, nel comma successivo: "Devono essere rettificate le notizie che risultino inesatte, e riparati gli eventuali errori"). Bisogna aspettare la legge 14 aprile 1975, n. 103 in materia di diffusione radiofonica e televisiva per trovare - unico fra i tanti - un altro articolo di una qualche rilevanza ai fini del nost
ro tema, l'art. 7, il cui primo comma estende ai telegiornali ed ai giornali radio le norme sulla registrazione dei giornali e ai loro direttori le norme sui direttori responsabili della stampa periodica, mentre i commi successivi regolano, in maniera quanto mai discutibile, il diritto di "chiunque si ritenga leso nei suoi interessi materiali o morali da trasmissioni contrarie a verità" a chiedere la trasmissione di una rettifica. Tutto qui.
Quando si parla di inadempienze sul piano legislativo nei confronti della Costituzione e dell'Assemblea costituente, credo si dica qualcosa che, se può valere in tanti campi del nostro vivere sociale, risulta qui di una lampante chiarezza, senza bisogno di dimostrazioni particolari. Ma come si spiega tutto questo? Come mai di un problema così importante, così esteso, sempre intensamente vissuto, sempre tormentatamente sofferto, non si è fatto nulla? I fattori frenanti evidentemente sono stati molti, a cominciare dall'esito della competizione elettorale del 18 aprile 1948, per continuare con gli sviluppi di quella prima legislatura e con le vicende relative alla cosiddetta "legge truffa", alla vigilia della legislazione successiva: anni certamente molto faticosi e faticati, asfittici addirittura per una democrazia che non riusciva a nascere. Questo sul piano generale. Poi, più specificamente, la polemica se l'art. 21 della Costituzione fosse una norma programmatica o una norma precettiva; se la libertà di man
ifestazione del pensiero fosse da vedere in funzione individuale o in funzione sociale. Tante discussioni: brillantissime, interessantissime da un punto di vista dogmatico, ma certo non utili ai fini di portare avanti la realizzazione di una nuova legge sulla stampa più organica e completa. Un'influenza negativa l'ha pure avuta un altro equivoco che potremmo dire di carattere emotivo, se non psicologico: la riconquista della libertà di stampa, dopo un periodo di dittatura, rappresentava un tipo di conquista che spiccava decisamente rispetto ad altre conquiste di cui la Carta costituzionale si era fatta portatrice. Indubbiamente, si trattava di un qualche cosa di toccabile dal vivo: la carta dei giornali, le testate che si moltiplicavano, i manifesti che si rincorrevano, i ciclostilati che circolavano liberamente mentre prima erano clandestini, in pochissime copie. Ecco: il tuffo nella libertà era soprattutto un tuffo nella libertà di stampa. Il che portava molti a credere che la libertà di stampa fosse un ti
po di libertà senza limiti, o comunque senza limiti di carattere individuale nel senso, cioè, che tutto fosse lecito, anche offendere, nell'esercizio della libertà di stampa. Tanto più che le riforme del 1948 (Costituzione, disposizioni sulla stampa) erano state precedute da un'innovazione di non piccolo rilievo, risalente al decreto legislativo luogotenenziale 14 settembre 1944, n. 288, che aveva introdotto l"'exceptio veritatis" nelle tre ipotesi attualmente elencate dal 3O comma dell'art. 596 del c.p. Una simile riforma, proprio agli albori di un'Italia già parzialmente liberata, denotava la pressante esigenza di scalfire quella tutela dell'onore che il testo originario dell'art. 596, non consentendo l"'exceptio veritatis", aveva racchiuso sotto un cristallo infrangibile sino a renderlo intoccabile: nemmeno la cosa più vera avrebbe mai potuto essere detta. Il fatto che nel settembre 1944, tra le primissime riforme vi fosse stata un'attenuazione della tutela del bene dell'onore a fronte della tutela del be
ne della libertà di stampa, poteva favorire il diffondersi della credenza dianzi ricordata: una credenza indubbiamente sbagliata, perché il valore dell'onore non veniva di certo bandito. Basterebbe una considerazione elementare: il decreto del 1944, non abolendo l'art. 596, ha mantenuto il reato di diffamazione. Ma c'è di più, proprio la legge 8 febbraio 1948 dimostra che a smentire ogni impostazione semplicistica era stata la stessa Assemblea costituente dal momento che tale legge aveva aumentato in modo consistente la pena prevista dall'art. 595 del c.p. (reclusione fino a due anni per il caso di diffamazione, non a mezzo della stampa, consistente nell'attribuzione di un fatto determinato) stabilendo che "nel caso di diffamazione commessa col mezzo della stampa, consistente nell'attribuzione di un fatto determinato, si applica la pena della reclusione da uno a sei anni". E' chiaro quindi che la legge del 1948 non intendeva assolutamente sacrificare l'onore alla libertà di stampa, e ciò non solo per l'aggra
vamento della sanzione, ma anche per l'attribuzione della competenza al tribunale e per l'introduzione del rito direttissimo, ad evidenti fini di esemplarità. Ritenere il contrario rappresenterebbe un colossale errore storico, dovuto magari agli entusiasmi, ma spesso, si sa, gli entusiasmi portano fuori strada. E qui c'è stato un periodo di fuorviamento.
D'altra parte, che la tutela dell'onore non potesse essere eliminata risultava anche dalle norme del diritto internazionale, a cui l'art. 10 della Costituzione fa espresso rinvio. L'art. 12 della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, adottata nel 1948, dice testualmente: "Nessun individuo può essere sottoposto a interferenze arbitrarie nella sua vita privata, nella sua famiglia, nella sua casa, nella sua corrispondenza, né a lesioni del suo onore e della sua reputazione." E l'art. 10 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, sottoscritta nel 1952, statuisce, a sua volta: "Ogni persona ha il diritto alla libertà di espressione, tale diritto include la libertà di opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee [...]. L'esercizio di queste libertà, comportando doveri di responsabilità, può essere sottoposto a determinate formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni previste dalla legge e costituenti misure necessarie in una società democratica, per la sicurezza nazionale
[...], la protezione della reputazione o dei diritti altrui, o per impedire la divulgazione di informazioni confidenziali, ecc." Con il che viene ad emergere il problema della tutela della riservatezza, anche se esso rimane estraneo alla tematica penalistica imperniata sulla diffamazione, configurandosi tuttora come problema a sfondo tipicamente civilistico, pur tenuto conto della legge 8 aprile 1974, n. 98, che ha aperto, per la prima volta una breccia alla tutela penale della riservatezza, sia pur soltanto con riferimento all'uso indebito di strumenti di ripresa visiva o sonora nell'ambito della vita privata. Tornando alla "protezione della reputazione" era, quindi, già l'art. 10 della Convenzione europea a ribadirne espressamente la possibile rilevanza di fronte all'esercizio della libertà di espressione. Eppure l'entusiasmo per le ritrovate libertà, l'omaggio particolare alla libertà di stampa, riavuta finalmente dopo tanto patire, aveva portato uno studioso come Capograssi a commentare l'art. 19 della D
ichiarazione universale dei diritti dell'uomo prescindendo dall'art. 12. Scriveva nel 1950, Capograssi che l'art. 19 rivestiva una importanza fondamentale, addirittura primaria, perché "disciplinando la libertà di opinione e di espressione, sancisce la nuova libertà, che l'esperienza ha dimostrato necessaria di fronte ai sistemi totalitari di propaganda, la libertà di informarsi e di aver modo di informarsi: cioè di poter sfuggire alle allucinanti imposizioni delle verità ufficiali". Parole splendide, verissime, giustissime, alle quali però si sarebbe dovuto aggiungere che, stando all'art. 12, la legge deve proteggere ogni persona dagli attacchi al suo onore ed alla sua reputazione. D'altra parte, in quegli anni, in cui si discuteva di norme programmatiche o precettive, in cui ci si soffermava sui significati dell'art. 21 della Costituzione perché continuavano i sequestri e le censure, in cui non si era ancora colta la precisa portata dell'art. 2 sui diritti inviolabili, dell'art. 3 sulla dignità sociale e d
ell'art. 10 sulle norme internazionali, non esisteva ancora la Corte costituzionale. Di fronte alla situazione delineata, l'entrata in funzione della Corte costituzionale avrebbe potuto costituire veramente una svolta. Era cioè lecita la speranza che, attraverso adeguati interventi della Corte costituzionale, la tematica rimasta inevasa, elusa dal legislatore ordinario, fermo alla legge 8 febbraio 1948, trovasse qualche ancoraggio in più, qualche avanzamento.
Che cosa è accaduto, invece? Anche a non voler negare che la Corte costituzionale abbia fatto compiere qualche passo al problema, certo è che di passi avanti ne sono stati compiuti troppo pochi. E ciò non tanto per colpa della Corte costituzionale, quanto per un eccesso di timidezza da parte dei giudici ordinari (per altri versi così pronti a rivolgersi alla Corte costituzionale) nel sottoporre al vaglio della Corte questioni attinenti all'art. 596 del c.p. Per trovare un intervento in materia bisogna attendere fino al 1971. Si aggiunga che quel primo intervento (sentenza 175 del 1971), più che l'art. 596, considerato di per se stesso, riguardava rapporti tra tale articolo e il decreto concessivo dell'amnistia del 1970 che aveva escluso dal beneficio le ipotesi previste dal 3· comma dell'art. 596. Ecco allora profilarsi, inevitabile, un'altra domanda: come mai tanta cautela nel demandare alla Corte costituzionale la soluzione di problemi strettamente legati ad un bilanciamento di valori costituzionali, da un
lato il valore tutelato dall'art. 21 e dall'altro il valore emergente dal combinato disposto dagli artt. 2, 3 e, se vogliamo, 10 della Costituzione? Come mai tanta riluttanza? Non è il caso di richiamare la polemica sul ruolo che hanno avuto i pretori nel sollecitare l'intervento della Corte, mentre qui, in materia di diffamazione, col mezzo della stampa, la competenza è sempre del Tribunale. Credo che la vera ragione sia un'altra, insita in quella remissione della querela continuamente alle spalle dei processi di questo tipo, che già di per sé provoca rinvii, nell'attesa di una conciliazione profilata quasi sempre come possibile dalla buona volontà dei difensori ed incombente quale desiderabile spada di Damocle sulle sorti del processo, senza bisogno di portarlo dinnanzi alla Corte costituzionale. Nell'ambito di siffatta diagnosi, il compito di una devoluzione sarebbe, se mai, spettato alla Corte di Cassazione.
A questo punto, non resterebbe che affidarsi ad un rapido excursus sulle principali, anche se poche, sentenze costituzionali in tema di art. 21, nell'intento di rintracciarvi il maggior numero di spunti utilizzabili ai fini della soluzione del problema che ci assilla. Anticipo subito che questi spunti non bastano per un chiarimento effettivo e determinante. La conclusione è una sola: il legislatore non può pretendere che sia la Corte costituzionale a risolvere i problemi, tutti i problemi, enunciando precetti risolutori al di là dell'abrogazione della norma. Non sarebbe del resto suo compito. Si potrebbero magari sollevare incidenti più pregnanti e più incisivi di quelli fin qui proposti, ma la situazione non cambierebbe ormai di molto su tale piano: è il legislatore che ha il preciso dovere di affrontare questo problema. Rasenta l'assurdo che alle soglie del 1979 dobbiamo ancora rifarci ad episodi del 1944, del 1948, del 1956 (prima sentenza della Corte costituzionale) per trovare qualche punto di riferimen
to, accorgendoci, al tempo stesso, che il legislatore non ha fatto nulla per trarre da quegli episodi il benché minimo corollario, lasciando tutti i cittadini (e anche gli stranieri che vengono nel nostro paese o che vi si trovano a vivere) nella balia perenne di esercitare questo diritto di manifestare il proprio pensiero con il rischio costante di incappare, a meno di dire cose banali o conformiste, in una querela per diffamazione. D'altra parte, ogni individuo può vedersi aggredito in qualunque momento, al di là del tollerabile, da un giornalista troppo esuberante o malevolo che non fa buon uso di quel diritto. Finché i confini del lecito non saranno, non dico fissati in modo perentorio perché non sarebbe cosa possibile (del resto i giuristi devono pur interpretare, i giudici devono pur applicare le norme) ma indicati in qualche modo dal legislatore, vivremo in un'atmosfera d'azzardo. Oggi si gioca continuamente sulla pelle di chi scrive o di chi parla, e di chi è "parlato" o di chi è "scritto" dagli altr
i.
Eppure - dicevo poco fa - non sarebbero mancate indicazioni preziose da parte della stessa Corte costituzionale. C'è una riscoperta particolarmente interessante che questo convegno mi ha dato l'occasione di fare, risalente addirittura alla prima sentenza della Corte costituzionale, la n. 1 del 1956, cioè la n. 1 del primo anno della Corte costituzionale. Una sentenza famosissima, lo sappiamo tutti. Ma famosissima perché? Anche questo è ben noto: non solo perché è stata la prima, ma altresì perché, nel suo contesto, ha rivendicato alla Corte costituzionale il potere di sindacare oltre alle leggi nuove, le stesse leggi anteriori all'entrata in vigore della Costituzione. Naturalmente, si trattava di un problema cruciale da affrontare e risolvere alla prima occasione utile. Ma la sentenza è importante anche perché la questione specificamente affrontata riguarda l'art. 21 della Costituzione, visto come termine di raffronto per la legittimità dell'art. 113 testo unico delle leggi di pubblica sicurezza. Pensate: c'
erano trenta ordinanze, dico trenta, arrivate da ogni parte d'Italia, per chiedere alla Corte costituzionale se l'art. 113 del T.U. delle leggi di PS del 1931 (che puniva chi, senza autorizzazione delle autorità di PS distribuiva avvisi o stampati sulla pubblica strada, o chi affiggeva manifesti o giornali o usava altoparlanti per comunicazioni al pubblico), fosse o no in contrasto con l'art. 21 della Costituzione. Certo, nel 1931 una norma del genere aveva una sua coerenza con il regime autoritario in atto. Ma dopo più di dieci anni dalla Liberazione e dopo più di otto anni dalla promulgazione della Costituzione ci si stava ancora tormentando con essa. Altro che campagne elettorali da tutelare e garantire, secondo le giuste preoccupazioni dell'Assemblea costituente. Belle campagne elettorali davvero, con tutto da sottoporre ad autorizzazione! Per me, la sentenza n. 1 del 1956 è degna di passare alla storia non soltanto per la prima questione, di carattere generalissimo, ma anche per aver posto fine ad ogni
ulteriore indugio, dichiarando illegittimo l'art. 113 del T.U. in ben sei dei suoi sette commi. Uno solo si è salvato, il quinto, quello relativo agli spazi riservati alle affissioni. Per tutto il resto, questo articolo è stato giustamente ritenuto in contrasto con l'art. 21 della Costituzione. Quali i passaggi principali della motivazione frutto di un estremo impegno, date le circostanze ed il rango dell'organo? Si comincia con una precisazione, che è storica e sistematica al tempo stesso: "Se le disposizioni dell'art. 113 della legge di PS possano coesistere con le dichiarazioni dell'art. 21 della Costituzione è questione che ha già formato oggetto di moltissime pronunce della Magistratura ordinaria e di numerosi scritti di studiosi. Ma la questione è stata posta, quasi esclusivamente, sotto il profilo dell'abrogazione dell'art. 113 per incompatibilità con l'art. 21 della Costituzione e le discussioni si sono svolte principalmente sul punto se le norme dettate in questo ultimo articolo fossero da ritenere
precettive di immediata attuazione o programmatiche. Anche nel presente giudizio queste discussioni sono state riprese dalle parti. Ma non occorre fermarsi su di esse, né ricordare la giurisprudenza formatasi in proposito, perché la nota distinzione fra norme precettive e norme programmatiche può essere bensì determinante per decidere dell'abrogazione o meno di una legge, ma non è decisiva nei giudizi di legittimità costituzionale potendo la illegittimità costituzionale di una legge derivare, in determinati casi, anche dalla sua non conciliabilità con norme che si dicono programmatiche, tanto più che in questa categoria sogliono essere comprese norme costituzionali di contenuto diverso: da quelle che si limitano a tracciare programmi generici di futura ed incerta attuazione, perché subordinata al verificarsi di situazioni che la consentano, a norme dove il programma, se così vogliamo denominarlo, ha concretezza che non può vincolare immediatamente il legislatore, ripercuotersi sulla interpretazione della leg
islazione precedente e sulla perdurante efficacia di alcune parti di questa; vi sono pure norme le quali fissano principi fondamentali, che anche essi si riverberano sull'intera legislazione."
Fatti questi opportuni chiarimenti, specie in ordine alla pericolosa, anzi nefasta, distinzione fra norme precettive e norme programmatiche (una categoria che spiega tanti ritardi, senza minimamente giustificarli), la Corte inquadra il problema nei suoi termini esatti che sono questi: E' il contenuto concreto delle norme dettate nell'art. 21 della Costituzione e il loro rapporto con le disposizioni dell'art 113 della legge di PS che dovranno essere presi direttamente in esame, per accertare se vi sia contrasto dal quale derivi la illegittimità costituzionale di queste disposizioni. Per escludere che contrasto vi sia, è stato da qualcuno asserito che bisogna distinguere tra manifestazione del pensiero, la quale deve essere libera, e la divulgazione del pensiero dichiarato, della quale non è menzione nella Costituzione. Ma tale distinzione non è consentita da alcuna norma costituzionale. Tuttavia è da rilevare, in via generale, che la norma, la quale attribuisce un diritto, non esclude il regolamento dell'eser
cizio di esso. Una disciplina delle modalità di esercizio di un diritto, in modo che l'attività di un individuo rivolta al perseguimento dei propri fini si concili con il perseguimento dei fini degli altri, non sarebbe perciò da considerare di per sé violazione o negazione del diritto. E se pure si pensasse che dalla disciplina dell'esercizio può anche derivare indirettamente un certo limite al diritto stesso, bisognerebbe ricordare che il concetto di limite è insito nel concetto di diritto e che nell'ambito dell'ordinamento le varie sfere giuridiche devono di necessità limitarsi reciprocamente, perché possano coesistere nell'ordinata convivenza civile." Limiti, dunque, anche per la libertà di manifestazione del pensiero, ma quali? Prosegue la Corte: "E' evidentemente da escludere che con l'enunciazione del diritto di libera manifestazione del pensiero la Costituzione abbia consentite attività le quali turbino la tranquillità pubblica, ovvero abbia sottratta alla polizia di sicurezza la funzione di prevenzio
ne dei reati. Sotto questo aspetto bisognerebbe non dubitare della legittimità costituzionale dell'art. 113, se il conferimento del potere ivi indicato all'Autorità di pubblica sicurezza risultasse vincolato al fine di impedire fatti che siano costitutivi di reati o che, secondo ragionevoli previsioni, potrebbero provocarli. Ma è innegabile che nessuna determinazione in tale senso vi è nel detto articolo, il quale, col prescrivere l'autorizzazione, sembra far dipendere quasi da una concessione dell'autorità di pubblica sicurezza il diritto, che l'art. 21 della Costituzione conferisce a tutti, attribuendo alla detta autorità poteri discrezionali illimitati, tali cioè che, indipendentemente dal fine specifico di tutela della tranquillità e di prevenzione dei reati, il concedere o il negare l'autorizzazione può significare praticamente consentire o impedire caso per caso la manifestazione del pensiero." L'analisi dei limiti non è evidentemente completa, né poteva esserlo, ma è egualmente significativa. Non meno
interessanti, al di là del dispositivo, le conclusioni in ordine al futuro: "La dichiarazione di illegittimità non implica che esse (cioè le disposizioni oggetto della dichiarazione) non possano essere sostituite da altre più adeguate le quali, senza lesione del diritto di libera manifestazione del pensiero enunciato nell'art. 21 della Costituzione, ne regolino l'esercizio in modo da evitarne gli abusi, anche in relazione alla espressa disposizione dettata nell'ultimo comma dello stesso art. 21 e, in generale, per la prevenzione dei reati. E' già stato osservato che la disciplina dell'esercizio di un diritto non è per se stessa lesione del diritto medesimo. Del resto, la scarsa aderenza di alcune disposizioni della legge di PS ai principi e alle norme della Costituzione sopravvenuta ha già da molto tempo indotto gli organi competenti a studiare una conveniente revisione della legge di PS; e parecchi disegni di legge sono stati a questo scopo presentati così alla Camera dei deputati come al Senato della Repu
bblica, l'ultimo dei quali ha pure recentemente avuto l'esame della competente Commissione senatoria. E' quindi desiderabile che una materia così delicata sia presto regolata in modo soddisfacente con disciplina adeguata alle nuove norme della Costituzione."
Dal 1956 al 1978 il desiderio non si è minimamente realizzato, neanche per quanto riguarda l'ammodernamento delle leggi di pubblica sicurezza. Il potere politico, oltre ad essere in mora nei confronti della Costituzione e dell'Assemblea costituente, è anche in mora nei confronti della Corte costituzionale. Una mora di oltre due decenni: altro che auspicio di veder "presto regolata in modo soddisfacente" la materia! Come si vede, le mancanze, i tradimenti, risultano continui, non soltanto sotto i nostri occhi, ma anche attraverso la lettura degli atti ufficiali di organi supremi. Qui non si tratta della opinione di questo o di quello, di un partito o di un sindacato: qui è la Corte costituzionale che parla, come prima era l'Assemblea costituente. Di fronte ad organi di simile livello, nessuno può parlare di tesi tendenziose o di illusione. Se l'impressione fosse che essi si sono illusi, ciò è dipeso dal fatto che chi aveva il compito di non tradire ha tradito il compito affidatogli.
Passo ora alla sentenza costituzionale n. 19 del 1962, che poi è la seconda in materia di art. 21. Vi si riparla della necessità di non incidere nel campo degli altri diritti e interessi costituzionalmente garantiti, con riferimento ad una norma senz'altro più interessante. La disposizione posta sotto accusa era infatti l'art. 656 del c.p., che punisce la diffusione o pubblicazione di notizie false, esagerate o tendenziose, atte a turbare l'ordine pubblico. La Corte costituzionale dichiara infondata la questione partendo dalla considerazione che l'ordine pubblico "è un bene collettivo che non è da meno della libertà di manifestazione del pensiero" e precisando che l'esigenza dell'ordine pubblico è connaturata in particolare proprio al regime democratico e legalitario (di qui il concetto di "ordine democratico" successivamente elaborato in chiave costituzionale), per cui "il senso di preservazione delle strutture giuridiche della convivenza sociale, instaurate mediante le leggi, da ogni attentato a modificarl
e o a renderle inoperanti mediante l'uso o la minaccia illegale della forza", diventa una "finalità immanente del sistema costituzionale". Come pretendere che la lotta politica in uno stato democratico pluripartitico, con la libertà di associazione tutelata, possa non far considerare non idonea a turbare l'ordine pubblico la divulgazione di notizie alterate, false o tendenziose? Una civiltà democratica non deve favorire deformazioni di questo genere. Al momento, anche perché il clima di allora era più tollerante, la sentenza fu vista da molti in chiave fortemente critica. Riletta oggi, essa merita un forte recupero.
Fatto un rapido cenno alle due sentenze in tema di art. 553 del c.p. (incitamento a pratiche contro la procreazione), cioè alla sentenza n. 9 del 1965 che ha dichiarato infondata la questione di legittimità "nei sensi di cui in motivazione", e la sentenza n. 49 del 1971, che, sulla base di un mutato clima sociopolitico e di una interpretazione troppo rigoristica che la giurisprudenza aveva continuato a dare alla disposizione, ne ha dichiarato l'illegittimità per contrasto con l'art. 21, qualche parola di più andrebbe dedicata alle sentenze in tema di istigazione a delinquere e di apologia di reato (sentenze n. 68 del 1965 n. 87 e 100 del 1966, n. 65 del 1970 e n. 16 del 1973), tutte imperniante sulla definizione del concetto di "pensiero" inteso in senso puro, così da negare che siano manifestazione del pensiero sia l'istigazione che è diretto incitamento all'azione sia l'apologia che anch'essa è eccitamento all'azione criminosa, con conseguente esclusione dall'ambito dell'art. 21. Della sentenza n. 175 del
1971, la prima dedicata all'art. 596 c.p., già si è ricordata la genesi, del tutto particolare. Ma ci sono altri passaggi della motivazione da menzionare. Anzitutto, laddove la Corte afferma che il giornalista nell'esercitare il diritto di cronaca e il diritto di critica non ha bisogno dell'"exceptio veritatis", perché il provare la verità, e quindi l'essere discolpato se risulta vero quanto egli ha attribuito alla persona offesa, rappresenta un automatico corollario dell'art. 51 del Codice penale. Poiché si tratta dell'esercizio di un diritto, l'esercizio di un diritto costituzionale non c'è bisogno di calarsi nella tematica della "exceptio" ché si colloca all'esterno di questo settore, cioè fuori della cronaca, fuori della critica, soprattutto della critica da parte della stampa. Al di là di questo chiarimento certamente importante, ma che già in dottrina era stato sottolineato in più di un'occasione, vanno segnalate le considerazioni che la sentenza dedica alla nozione di verità. Com'è noto, la Cassazione
ha da tempo escogitato il meccanismo interpretativo per cui in tanto il giornalista può essere assolto, in quanto i fatti dei quali parla risultino veri, siano di interesse pubblico ed esista la cosiddetta continenza. Per quanto riguarda la verità dei fatti, la Corte costituzionale sembra, invece, accontentarsi della semplice verosimiglianza, segnando un punto di vantaggio in favore della libertà di stampa e, per converso, a favore dell'onore. Ma il tutto si limita ad un rapido passaggio, praticamente non utilizzato, nelle decisioni successive, anche se la sentenza n. 172 del 1972 ha ribadito che "la libertà di manifestazione del pensiero è fondamento della democrazia e che la stampa, considerata come essenziale strumento di quella libertà deve essere salvaguardata contro ogni minaccia o coartazione, diretta o indiretta".
Dal punto di vista della tutela dell'onore fa, invece, spicco la sentenza n. 122 del 1970, che ricomprende il diritto all'immagine "nella categoria dei diritti inviolabili dell'uomo, genericamente contemplati nell'art. 2 che al singolo sono riconosciuti e che il singolo deve poter far valere 'erga omnes'": se questo diritto all'immagine viene "ricompreso" nella categoria dei diritti inviolabili dell'uomo, con rinvio all' art. 2, mi pare che altrettanto debba valere per il diritto dell'onore. La conferma viene puntualmente dalle sentenze n. 20 del 1974 in tema di vilipendio e n. 86 del 1974 in tema di diffamazione a mezzo stampa. La prima esclude la sussistenza di un contrasto con l'art. 21 proprio perché "il vilipendio consiste nel tenere a vile, nel rifiutare qualsiasi valore etico o sociale o politico all'entità contro cui la manifestazione è diretta sì da negarle ogni prestigio, rispetto, fiducia". La seconda esclude che l'art. 21 "tutelando nel modo più ampio la libertà di espressione postuli - implicita
mente ma necessariamente - che, allorquando il diritto di manifestazione del pensiero entra in conflitto col diritto altrui al rispetto della propria reputazione ed onorabilità, sia concessa all'incolpato l'incondizionata facoltà di provare la verità delle sue affermazioni. La previsione costituzionale del diritto di manifestare il proprio pensiero non integra una tutela incondizionata ed illimitata della libertà di manifestazione del pensiero giacché, anzi, a questa sono posti limiti derivanti dalla tutela del buon costume o dell'esistenza di beni o interessi diversi che siano parimenti garantiti o protetti dalla Costituzione [...]. E tra codesti beni ed interessi, e in particolare tra quelli inviolabili, in quanto essenzialmente connessi con la persona umana, è l'onore (comprensivo del decoro e della reputazione) che trova difesa nelle previsioni degli artt. 594 e 595 c.p."
Gli inviti al legislatore non mancano neppure nelle sentenze più recenti. Ricorderò l'ultima in materia, la n. 43 del 1977, che coinvolge i rapporti tra televisione radio e stampa. E' pur vero che la Corte ha concluso per la inammissibilità della questione proposta, ma è altrettanto vero che la Corte ha espresso l'augurio che il legislatore provveda sollecitamente a colmare nella sua discrezionalità le lacune esistenti, non potendosi sostituire ad esso. L'invito al legislatore è dunque costante, anzi pressante, ma fin qui inascoltato in maniera preoccupante. Domandiamoci se c'è qualcosa che può far sperare, almeno sul piano dei lavori parlamentari; se, cioè, ci sono dei progetti in fase più o meno avanzata. Nella legislatura precedente era stato presentato un disegno di legge per l'istituzione delle Corti d'onore, cioè per reinventare, rivivificare i giurì d'onore, questo istituto che non funziona e che, per funzionare, andrebbe rinnovato profondamente. Ebbene quel progetto non solo si fermò subito, ma non è
stato neppure ripresentato nella nuova legislatura. A me pare, invece, che potrebbe essere utile richiamarlo anche nel quadro delle proposte dirette alla introduzione del giudice onorario o di pace; una materia come questa, per lo meno in certi casi, si potrebbe prestare o sotto forma di un giurì d'onore, o sotto forma di una particolare magistratura onoraria, alla realizzazione dell'intento di togliere alla magistratura togata impegni dispersivi rispetto a quelli più gravosi sul piano della criminalità vera e propria, che oggi le richiedono una dedizione costante. Il 27 maggio 1972, sempre nella scorsa legislatura, era stata presentata una proposta di modifica del codice penale che, diretta all'abolizione dei reati di vilipendio e di oltraggio, così da riportare il tutto nell'ambito della diffamazione, sarebbe stata una riforma importantissima, non solo perché avrebbe eliminato istituti che, avendo un sapore di tempi autoritari, di autentica sacralità del potere, dovrebbero aver fatto il loro tempo, ma anc
he perché avrebbe pianificato tutto al livello della diffamazione, concentrando le forze nella ricerca di un assetto meglio calibrato e con l'"exceptio veritatis" estensibile anche ai casi che oggi, essendo etichettati vilipendio oppure oltraggio, non consentono di avvalersi dell'"exceptio veritatis".
Non essendovi più nulla di tutto questo, c'è almeno qualcosa d'altro in corso di discussione? Ho rintracciato tre progetti presentati alla Camera dei deputati: il più ambizioso è quello concordato dai sei partiti il 7 luglio 1977, sotto il titolo di "riforma dell'editoria", a cui sono state abbinate le altre due proposte risalenti al 1976, l'una ad iniziativa del deputato Cicchitto e l'altra ad iniziativa dei cinque deputati liberali. Mi soffermerò soltanto su quest'ultima presentata in parallelo anche al Senato dai due senatori liberali, perché è l'unica che ha il merito di proporre, bene o male, qualcosa di nuovo in tema di diffamazione. Accanto alle norme sull'organizzazione dell'editoria in generale, ve ne sono altre tre che riguardano la parte penale. A dire il vero, esse sono già state inghiottite, sino al punto di scomparire, nel corso dei lavori che le commissioni interessate hanno lungamente dedicato al progetto presentato dai sei partiti, l'unico che sembra veramente contare al momento, persino per
i liberali, che lo hanno pur essi sottoscritto. Ciononostante può essere egualmente utile soffermarsi un attimo sulle tre norme accantonate, allo scopo di verificare se, muovendo da esse, sarebbe possibile avviare un discorso che porti alla presentazione di una proposta di legge capace di affrontare in modo organico il problema. Basterebbero forse alcuni punti ben centrati per dare finalmente una scrollata alla vecchia legge del 1948.
Il progetto liberale si limita a suggerire, da un lato, una modifica dell'art. 57 e l'abrogazione dell'art. 596 bis e, dall'altro, un'aggiunta all'art. 596 del codice penale. Le prime due proposte tendono ad alleggerire sensibilmente la posizione del direttore responsabile, dell'editore o dello stampatore, nel senso che, quando è noto l'autore dello scritto nessun altro dovrebbe risponderne. Più vicina al vero nucleo del problema, che riguarda la sussistenza del reato, è la proposta di aggiungere una postilla all'art. 596, in tema di "exceptio veritatis". La norma, pur molto discutibile, è importante perché si preoccupa di dare tutela alla riservatezza. Eccone il testo: "se il reato è commesso con il mezzo della stampa, il giudice può non ammettere la prova (cioè, la prova della verità, nei casi in cui questa verrebbe ammessa) se ritiene che essa possa ledere la riservatezza della vita privata del querelante". Non voglio discutere qui sull'opportunità di un potere così fortemente discrezionale da conferire a
l giudice, ma soltanto sottolineare il profilarsi, per la prima volta in una prospettiva di carattere generale (ben più ampia di quanto non faccia la legge 8 aprile 1974, n. 98, che punisce le cosiddette interferenze illecite nella vita privata: è chiaro, infatti, che, se qualcuno si inserisce in una linea telefonica o va a nascondersi dietro ad una porta per fotografare o registrare di nascosto, cade automaticamente nell'illecito), della preoccupazione di tutelare penalmente la "riservatezza della vita privata". Quando parliamo di aggressione alla riservatezza, parliamo di quell'aggressione di cui diceva Franco De Cataldo e che consiste nel divulgare i particolari della vita intima di una persona, della sua sfera familiare, che si vorrebbe coperta dalla privacy, anche se non c'è nulla di diffamante nel particolare rilevato. Lo spunto è da meditare, tenendo sempre presente l'esigenza di provvedere, non solo in modo che onore e riservatezza siano meglio tutelati, ma anche in modo che il giornalista sappia fin
o a che punto spingersi, senza correre il rischio di venire querelato e, se la querela risulti giustificata, condannato. A rendere ancora più urgente quest'esigenza da tempo tormentosamente sentita è intervenuta una recentissima legge, la legge 25 ottobre 1977 n. 881, che ha autorizzato la ratifica, oltre che del Patto internazionale relativo ai diritti economici, sociali e culturali, adottato a New York il 16 dicembre 1966, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici adottato a New York il 19 dicembre 1966. L'art. 17 di questo patto statuisce chiaramente che: "nessuno può essere sottoposto a interferenze nella sua vita privata, nella sua casa, nella sua corrispondenza, né a illegittime offese al suo onore e alla sua reputazione. Ogni individuo ha diritto a essere tutelato dalla legge, contro tali interferenze ed offese". E l'art. 19: "... l'esercizio del diritto alla libertà di espressione può essere sottoposto a talune restrizioni, stabilite per legge, rese necessarie per il rispetto dei
diritti e della reputazione altrui". Poiché gli strumenti di ratifica sono stati depositati il 15 ottobre, il Patto diventerà vincolante per l'Italia a partire dal 15 dicembre prossimo, con un ulteriore stimolo, anzi obbligo, ad attivarsi.
Riassumendo, ecco un breve elenco di possibili proposte. Richiamare anzitutto quelle di cui si parlò alla Assemblea costituente, nella settimana dal 12 al 20 gennaio 1948, e su cui non si poté concludere per mancanza di tempo. Poi, ristudiare la remissione della querela, non solo processualmente, ma anche sostanzialmente, data l'ambiguità del suo attuale significato, non sempre valutabile in termini di ritrattazione. Verificare la possibilità di ampliare i casi di "exceptio veritatis", senza dimenticare di estendere l'istituto alle ipotesi di vilipendio e di oltraggio, qualora queste dovessero rimanere. Attuare il quinto comma dell'art. 21 della Costituzione, che vuole siano resi noti i mezzi di finanziamento della stampa periodica. Preventivare una rettifica più ampia: oggi troppo spesso la rettifica si risolve in un amaro gioco, perché, a parte tutte le condizioni che vengono imposte al richiedente, non gli si garantisce l'evidenza che ha avuto, invece, la notizia diffamatoria. La legge del 1975 in materia
radiotelevisiva colloca le rettifiche nell'ambito di trasmissioni apposite. La proposta dei sei partiti dedica al problema l'art 3, prevedendo che anche i giornali destinino una apposita sede fissa. L'intento è che lo spazio apposito dia maggior risalto alla rettifica, ma la formula è tutt'altro che rassicurante: la rubrica potrebbe venire sistemata in un angolo di scarso risalto, con poco respiro, magari elencando una serie di rettifiche, l'una dopo l'altra, tutto confondendo in un gran calderone. Una certa proporzione è indispensabile, se non altro, per risarcire il danno. Anche se non voglio entrare nel terreno che domani Rodotà arerà da par suo, ritengo che, in un modo o nell'altro, il problema dovrà essere risolto: le carenze che ho enumerato dimostrano quanti sono i creditori, anzi quanti e quali sono i creditori che esigono (è un'istanza della pubblica opinione, è un'istanza univoca dei cittadini) una sua soluzione in chiave moderna, nuova ed adeguata.
Il problema, dunque, va rilanciato e portato avanti nel nome di Piero Calamandrei. Ciò significa porsi in consonanza con i suoi alti insegnamenti, soprattutto con quei suoi insegnamenti in questa materia di libertà di stampa che tanti frutti hanno prodotto in ordine ai problemi della donna, specialmente negli ultimi anni. Lo stesso deve avvenire sul piano dei rapporti tra la libertà di stampa in generale e tutela dell'onore.