Radicali.it - sito ufficiale di Radicali Italiani
Notizie Radicali, il giornale telematico di Radicali Italiani
cerca [dal 1999]


i testi dal 1955 al 1998

  RSS
mer 08 mag. 2024
[ cerca in archivio ] ARCHIVIO STORICO RADICALE
Archivio Partito radicale
Gregori Giorgio - 25 novembre 1978
(40) TUTELA DELL'ONORE E MEZZI DI COMUNICAZIONE DI MASSA
Atti del Convegno giuridico "Informazione Diffamazione Risarcimento" promosso dal Centro di Iniziativa Giuridica Piero Calamandrei (Roma, 24/26 novembre 1978, Hotel Parco dei Principi)

Relazione di sintesi di Giorgio Gregori

SOMMARIO: La sintesi delle questioni sollevate dai vari interventi nel corso del Convegno. Il limiti della libertà d'informazione a garanzia del rispetto della persona umana; le condizioni che impediscono oggi all'informazione d'essere, nella realtà, oltre che tecnicamente aggiornata ed efficiente, libera e onesta; i limiti della legislazione vigente sulla stampa e la necessità di una urgente riforma; La situazione di oligopolio della stampa italiana; la diffamazione e le forme di risarcimento.

(TUTELA DELL'ONORE E MEZZI DI COMUNICAZIONE DI MASSA, Giangiacomo Feltrinelli Editore, ottobre 1979)

1. Il problema che il Convegno organizzato dal Centro Calamandrei ci ha proposto è vecchio forse quanto la nostra vicenda democratica. Ma è attualissimo, oggi, in questo momento di crisi di tutti i valori e di diffusa perplessità morale, in cui tutti coloro che in qualche modo partecipano alle inquietudini del tempo presente, sentono che è giunto il momento, per la nostra gloriosa e logora civiltà democratica, di ripiegarsi su se stessa e di fare i conti di cassa. Questa nostra grande e vecchia civiltà, il cui patrimonio appare troppo spesso ai nostri giorni un'eredità fatiscente e ipotecata, una tradizione che non sembra ormai avere altro pregio che la canizie, è chiamata a fare l'inventario di ciò che la sua storia ha ribadito o oscurato, di quanto ha confermato o disatteso, di ciò che è vivo e di ciò che è morto in questo preciso momento. Della gloriosa eredità della nostra vicenda democratica fanno certamente parte l'orgogliosa affermazione dei diritti di libertà e l'impegno ad una valorizzazione progres

siva e totale della persona umana, quali presupposti irrinunciabili dell'attuazione concreta dell'ideale democratico: l'uno e l'altro, nella prassi quotidiana, hanno dato, a volte in cooperazione più spesso in discordia, il carattere e il volto a quella che si chiama la civiltà democratica. Nell'assolutezza dei principi, infatti, tutela della persona e garanzia della libertà appaiono due facce inseparabili di una stessa medaglia; nella concretezza dello svolgimento storico, invece, esse si trasformano in esigenze ugualmente importanti, ma sovente in contrasto, per la difficoltà di delinearne un equilibrio stabile e soddisfacente.

Attorno a questa tensione problematica s'è svolto il Convegno. Ci siamo occupati per tre giorni del complesso rapporto che lega la libertà di manifestazione del pensiero e di cronaca e la protezione dell'onore e del decoro, della sua vicenda quotidiana, della sua proiezione processuale, della reintegrazione degli equilibri lesi. Abbiamo ascoltato un caleidoscopio di opinioni e di proposte che indagano le radici culturali del contrasto, le concezioni filosofiche che lo ispirano, le implicazioni di tecnica giuridica. Si sono sentite voci concordi e discordi che hanno messo in luce la nobiltà dei profili ideali del problema e le carenze e la miseria delle soluzioni pratiche. Ne è uscito un quadro ricco di chiaroscuri inquietanti e pregno di aspetti particolari di vibrante attualità. Abbiamo conosciuto esperienze diverse, di civiltà e ordinamenti diversi dal nostro, da cui trarre motivo per comparazioni costruttive e spunti per il miglioramento della disciplina legislativa vigente. Sotto i nostri occhi è scorsa,

insomma, tutta una tradizione ricca e varia di problemi e di annotazioni giuridiche, che possiamo ormai definire familiare, ed anche qualcosa in più. Non possiamo, infatti, sottovalutare quei ricorrenti spunti e valutazioni che non hanno costituito semplicemente aggiunta o chiarimento a ciò che è già noto, ma la cui assimilazione richiede, per dare i suoi effetti, la ricostruzione del problema rispetto al modo con cui viene abitualmente proposto e la modifica delle leggi vigenti e la ricostruzione delle teorie oggi in voga: in altre parole, una

nuova valutazione della questione che porta al cambiamento della sua immagine scientifica e politica, per renderla più rispondente all'altezza dei tempi che stiamo vivendo.

Talvolta il dibattito ha preso pieghe più polemiche e fattuali, come nel corso della Tavola rotonda di venerdì. Allora il problema ha assunto quella drammaticità e vivezza, che il rigore della discussione tecnica e scientifica costringe a soffocare. Sono stati sprazzi, che, meglio di ogni altro intervento, hanno illustrato la complessità del problema, la sua attualità e l'urgenza di nuove soluzioni più conformi alle regole democratiche di una città aperta, di quanto non lo siano quelle oggi in vigore. La straordinaria ampiezza del dibattito, la sua ricchezza problematica, la complessità e il carattere esauriente degli interventi rendono, perciò, il mio compito assai agevole. Non dovrò, infatti, propormi di suggerire qualcosa di nuovo, visto che così tanto e così bene e così lucidamente è stato detto. Ma, per un verso, ne accentuano la difficoltà. Non mi è facile, invero, imporre un filo conduttore una linea dominante, un ordine sistematico che organizzi interventi così diversi, espressioni di esperienze giur

idiche assai varie, di differenti frontiere culturali, di sfaccettature diverse dello stesso problema centrale, che, pure, sulla carta li accomuna tutti. Chiedo, dunque, a voi, grande comprensione, se, nella mia sintesi, resteranno lacune rilevanti, margini di indeterminatezza e interruzioni logiche che non rendono quell'atmosfera ricchissima di tensione unitaria che ha caratterizzato il ritmato succedersi delle relazioni. Lo scopo della mia sintesi è, perciò, essenzialmente quello d'essere specchio impressionistico di una situazione tanto importante quanto complessa. E di lanciare, da questa sede, un grido di allarme, e di difendere una posizione, per il riscontro, così ripetuto in questo dibattito, dei pericoli, le illusioni i molteplici abusi che il privilegiare oltre misura l'uno o l'altro dei corni del problema arreca inevitabilmente allo svolgersi della vicenda democratica.

2. L'oggetto del Convegno, l'illustrazione che ne ha fatto De Cataldo, e la premessa da cui sono mosse le relazioni è una presa di posizione ragionata sui limiti della libertà di informazione a garanzia del rispetto della persona umana. Per tanti anni ci si è battuti per avere la più piena libertà d'informazione e di stampa. In questa sede, è emerso, tuttavia, un atteggiamento critico. Si è rifuggiti da chiassose invocazioni retoriche della libertà di stampa, che approfondiscono di giorno in giorno il contrasto tra informazione e società, rendendo i diritti della prima sempre più astratti e pretestuosi. Si è rifiutato il conformismo diffuso, che vuole che l'informazione sia una pratica per iniziati, un ambito chiuso all'interno della comunità sociale, una professione stabile che vaglia, giudica, biasima spesso con distacco notarile e, talvolta, con canagliesca condiscendenza. Ci si è accostati al problema dell'informazione con matura consapevolezza critica, per verificare in che limiti essa sia di valido aiu

to ad una reale democrazia e quando essa scada ad avvedutezza conformistica o ad intollerabile privilegio. Non è, però, quella che si è attuata in questo Convegno, una diserzione dalle grandi lotte per le libertà fondamentali - tra le quali quella d'opinione e di stampa è in primo piano - che hanno contrappuntato le pagine migliori della nostra storia più recente. Mi si permetta di insistere su questo punto al fine di evitare ogni malinteso. Dal dibattito è emerso, a chiare note, che la libertà di parola e di informazione è regola essenziale alla strutturazione democratica della vita sociale. La "parola" ha un valore sacro in quanto attraverso essa, l'uomo, comunicando con gli altri, crea le basi ideologiche e morali della vita in comune. Ce lo ha ricordato Conso, nella relazione introduttiva, riproponendoci quelle pagine discrete del pensiero di Piero Calamandrei. La parola diffonde un pensiero costruttivo e, in quanto tale, fa la democrazia. In uno stato democratico, grande deve essere, quindi, il rispetto

per la libertà di parola e per quella d'informazione che contribuisce a diffonderla. A riprova di questa esigenza sta il fatto che là dove tale libertà è mortificata, lo Stato tiene in suo possesso i cittadini, nega ogni autonomia alle coscienze individuali, non tollera pensieri in contrasto coi suoi dogmi e orientamenti. Nello stato democratico, invece, il potere conosce un controllo continuo e puntuale, che lo segue come un'ombra: l'opinione pubblica. Diceva Francesco Ruffini, nel suo indimenticato e sofferto saggio sui "Diritti di libertà", che le due guarentigie della democrazia sono la legge e l'opinione pubblica. L'opinione è però più importante della legge, perché più flessibile; [...] nella vita, l'opinione crea un'atmosfera che noi chiamiamo il "tono", ed è dalla sua qualità che dipende l'altezza e il valore della vita pubblica. Ma una sana opinione pubblica, quale fattore di vita politica, non è concepibile se non con l'aiuto di una stampa efficiente e pienamente libera. "Opinione, pubblicità, sta

mpa, libertà", conclude Ruffini, "ecco i requisiti essenziali d'ogni vivere civile". La libertà d'informazione rappresenta la linfa della pubblica opinione e, perciò, della democrazia.

Va da sé, però, che l'opinione pubblica opera con genuina avvedutezza e, in concreto, con una sensibilità morale superiore al governo e al potere e riesce, pertanto, ad esercitare un proficuo controllo democratico, solo se è correttamente alimentata. Sfortunatamente - e troppo di frequente, in realtà - essa può essere "manipolata", da un'informazione disonesta. In tal caso essa diviene un pericolo letale per la libertà: ed è pericolosa, allora, come arbitra del giusto e inaccettabile come arbitra della libertà.

Un esempio paradigmatico di questo pericolo ci è stato proposto, con rara sensibilità, da Nobili che ha individuato nella capziosa utilizzazione dell'informazione in materia processuale uno strumento per rovesciare, nella prassi, il principio costituzionale della presunzione di non colpevolezza - o meglio d'innocenza - dell'imputato nel processo penale ed ha dimostrato come le tecniche di manipolazione della notizia divengono troppo spesso tecniche di manipolazione del processo penale. Ecco, dunque, la necessità di fissare se non dei limiti all'attività informativa, almeno alcune direttive che sottolineino quei caratteri di onestà, semplicità e chiarezza che ne garantiscono e valorizzano le funzioni di strumento democratico. Ecco, dunque, il primo proposito emerso nel dibattito: quello di individuare le condizioni che impediscono oggi all'informazione d'essere, nella realtà, oltre che tecnicamente aggiornata ed efficiente, "libera e onesta". Conso ha ricordato l'importanza che, fin dagli albori della democra

zia i Costituenti hanno dato a questo problema, rammentando che essi giunsero al punto di legiferare sulla stampa nella stessa sede costituzionale che deliberava i principi generali dello Stato democratico. E tutti gli studiosi stranieri che si sono avvicendati al microfono hanno illustrato l'attenzione privilegiata che ogni ordinamento democratico destina ad un problema, la cui accorta disciplina è, ovunque, considerata decisiva per lo sviluppo civile e politico. Dall'esame comparato delle differenti legislazioni, un fatto balza, però, all'evidenza: che, mentre negli altri paesi esiste, normalmente, una legislazione completa e aggiornata, da noi il fatto normativo è incompleto e non aggiornato. Conso ha spiegato come la legge sulla stampa del '48 non realizza compiutamente ne il precetto costituzionale dell'art. 21, né quelle altre condizioni che paiono irrinunciabili affinché si attui un'informazione sena e democratica. La legge del '48, infatti, tende, piuttosto a razionalizzare il passato, che a programm

are l'avvenire e non ebbe altro obiettivo che quello di preparare il terreno ad un nuovo e sistematico intervento del legislatore ordinano, che non c'è stato. Sicché, se mi è consentito procedere per accostamenti approssimativi, in questa materia si è più o meno verificato quanto è accaduto per il diritto sindacale. La Costituzione italiana riconobbe, all'art. 4, ad ogni cittadino il diritto al lavoro e ciò in anticipo o in contrasto con la legislazione esistente. Orbene, il diritto al lavoro si è sviluppato a partire da una grande carenza legislativa mediante un complesso lavorio degli interpreti. Ed ha trovato sistemazione legislativa solo con lo Statuto dei lavoratori. In maniera non dissimile, il diritto della stampa, più che armonizzare la legislazione ordinaria esistente con l'istanza costituzionale, si è venuto formando tabula rasa, almeno in alcuni settori, guidato da sporadiche sentenze della Corte Costituzionale e da qualche fortunata idea della dottrina ("continenza"), ma aiutato assai meno che il

diritto del lavoro dall'opera della giurisprudenza. Il progresso tecnico ha, poi, aggravato la situazione, determinando situazioni di disparità di trattamento che sono intollerabili in un ordinamento che si regge sul principio d'eguaglianza. Si pensi, ad esempio, alla norma penale sulla responsabilità del direttore, che si applica alla stampa, ma non alla radio e alla televisione, per l'assenza di un aggiornamento legislativo dell'art. 57 c.p. e l'impossibilità di estendere analogicamente il precetto in Vigore.

Una riforma, dunque, si impone. Una riforma che prenda lo spunto dai maturi risultati cui è giunta, in argomento, la cultura più sensibile e la scienza giuridica. Chiola, riproponendo in questa sede spunti significativi di un suo più ampio saggio, ha individuato nell'obiettività dell'informazione e nel pluralismo delle sue fonti i canoni fondamentali cui la riforma deve ispirarsi. La prima, in particolare, non va intesa come un feticcio, oggetto di adorazione fanatica, bensì come ideale da conquistare giorno per giorno, concretamente, attraverso il continuo confronto delle differenti voci d'informazione. Pluralismo delle fonti, dunque, come strumento insostituibile ad un'oggettività dialettica dell'informazione. Cavalla ha, infatti, dimostrato stamane che non può fissarsi, in democrazia, un concetto statico di oggettività della notizia. Sarebbe, invero, falsa la notizia o falsa, per contro, la democrazia. In una città aperta spiega il filosofo triestino, l'obiettività non può consistere in una visione neutra

le, non criticabile della realtà; ma nel mettere in mostra l'informazione falsa. Ed è falsa ogni informazione contraddittoria o che pretenda di possedere una verità assoluta e definitiva. E' invece obiettiva quell'informazione che denuncia e contrasta le notizie false e che espone le proprie al controllo dialettico di altre fonti di informazione. Ora l'obiettività così intesa, in chiave dialettica, come mediazione tra diverse posizioni che pretendono di escludersi, ha bisogno della massima ricchezza di voci contraddittorie. Ed è a questo punto che cozziamo contro una realtà ostica al pluralismo ed evolventesi sempre più verso forme di concentrazione. Quale pluralismo può, infatti sopravvivere alla marcata situazione di oligopolio che caratterizza la stampa periodica italiana; al surrettizio ed illegale inserimento in essa dello stato che opera attraversO enti o società in qualche modo controllate; ai condizionamenti della rilevante presenza pubblica nel settore pubblicitario? Quale pluralismo si salva nel mo

nopolio radiofonico televisivo, non più giustificato da necessità tecniche, ma solo da esigenze di manipolazione delle masse?

E' vero: Conso accennava al fatto che proprio in questi settori si vanno attuando le prime modifiche legislative. Sono in discussione alla Camera diversi progetti antitrusts in materia di stampa. Il testo unitario, tuttavia, che gode il consenso dei partiti al governo è mortificante proprio con riguardo alla fragilità delle barriere innalzate a difesa della pluralità delle testate. E Chiola ha dedicato larga parte del suo intervento ad illustrare l'istituto dell'"accesso" col quale la Rai Tv apre le porte a opinioni diverse, a problemi diversi da quelli consueti, alle minoranze che non hanno voce. Se il proposito è buono, la sua realizzazione appare, però, disastrosa sia per la mancanza di ricorsi effettivi contro immotivate esclusioni, sia perché l'accesso è stabilito e concesso da un organo - una sottocommissione della Commissione di vigilanza e di controllo parlamentare - che non è tenero verso le opposizioni.

Le voci dell'informazione sono, dunque, cadute, nel nostro paese, sotto un controllo anonimo che riflette le condizioni politiche esistenti; sotto un controllo che non solo le è imposto esteriormente, ma che ha finito per compenetrarle nella sostanza. Alle intese di autonomia queste condizioni materiali si impongono con la stessa spietatezza con cui prima l'ordinamento autoritario imponeva la sua verità ufficiale. Solo che l'apparenza di libertà che la retorica del tempo presente alimenta, rende la presa di coscienza dell'effettiva non libertà incomparabilmente più difficile di quanto non lo fosse nella contraddizione con l'aperta mancanza di libertà e rafforza in tal modo la dipendenza. Baldelli, con due interventi dove la polemica si sposa a lampi di grande lucidità, ha messo a fuoco la verità che manca nei fatti il pluralismo e che l'obiettività ufficiale si va sostituendo sempre più al confronto dialettico delle idee e delle opinioni.

La mancanza di obiettività e le precarie vicende dell'informazione più debole sono ostacoli interni al formarsi di un'informazione aperta e democratica. Accanto ad essi si collocano altri tipi di difficoltà che impediscono, dall'esterno, alla stampa, di realizzare la pienezza della sua missione. Conso, ha parlato, a questo proposito, anzitutto dei vincoli eccessivi e opprimenti offerti dalla disciplina penale dei reati d'opinione. Nel codice penale del 1931 e in alcune leggi speciali sono, infatti, in vigore molte disposizioni emanate con lo scopo dichiarato di tutelare il prestigio, il decoro e l'autorità d'uno Stato, che, essendo concepito come totalitario voleva impedire ogni sorta di critica agli ordinamenti, agli uomini, alla politica e alle ideologie del regime. Ora queste norme rendono la libera espressione delle opinioni soggetta a gravi limitazioni non più giustificate dall'avvento di tempi migliori. Tra questi reati vengono in considerazione quelli di vilipendio, di propaganda, di apologia, di oltr

aggio. Essi in quanto si realizzano ed esauriscono nella manifestazione d'un pensiero, non possono considerarsi in contrasto con il sistema politico della democrazia, né con lo spirito dell'ordinamento costituzionale ed incontrano l'unico limite corretto nel contrasto con diritti soggettivi costituzionalmente protetti. A ragione dunque, Calvi, con la cauta saggezza che gli è propria, suggerisce di sostituirli in toto con un'unica fattispecie, quella dell'attentato all'onorabilità, alle credenze e ai sentimenti personali.

Da ultimo il problema della responsabilità del direttore. La riforma del '58 non ha risolto né l'interrogativo del titolo di responsabilità del direttore responsabile, né le lacune sopra ricordate e puntualizzate efficacemente da Saraceni nella sua illustrazione delle immotivate differenze che caratterizzano la disciplina della Rai Tv da quella della stampa e delle radiotelevisioni private (via cavo). L'innovazione del '58 ha escluso ogni forma di responsabilità per fatto altrui ed ha fissato il titolo di responsabilità del direttore di giornale nella colpa. La punibilità a titolo di colpa, a causa del l'infelice formulazione della fattispecie, si traduce, però, soprattutto nell'applicazione giurisprudenziale, in un'inversione dell'onere della prova, grazie al quale, appunto fino alla difficilissima prova contraria, il direttore è ritenuto responsabile di omesso controllo, quando sulle pagine del giornale è stato commesso un reato. Sarà un'aberrazione giurisprudenziale: ma è chiaro che imputare al direttore

il carico della prova e il ritenerlo responsabile anche se assente - per ferie o malattia - va contro tutti i principi generali del diritto penale. Non siamo confortati dalla peggior sorte che al direttore assegna il diritto francese, dove, nell'ambito di un sistema di responsabilità "a cascata", autore principale viene considerato non l'autore dell'articolo, ma il direttore responsabile. La dettagliata esposizione degli artt. 42 e sgg. della legge del 1881 che ci ha fatto Chavanne non allevia il nostro disagio. Bene ha spiegato Viola che molte volte il controllo del direttore non è esigibile, perché esistono macroscopiche diversità di struttura nei giornali: nei periodici di grande dimensione, il direttore non è materialmente in grado di adempiere all'obbligo generale di controllo sommariamente impostogli dalla legge. Sarebbe opportuna una specificazione del dovere di sorveglianza e della conseguente responsabilità a livelli più bassi e meglio rispondenti alla finalità del disposto dell'art 57 c.p. Il probl

ema è ora alla Corte costituzionale: voglia essa o il legislatore rimuovere quella che, in concreto, si rivela un'ipotesi di responsabilità oggettiva, inaccettabile ai sensi del principio costituzionale sovrano della "personalità" della responsabilità penale.

3. Spezzata una lancia in favore d'una genuina e libera informazione, il dibattito è passato a definire l'ambito e le dimensioni della fattispecie di diffamazione, la più tipica tra gli "Ausseruregsdelikte", tra i delitti di espressione che costellano la nostra legislazione penale e l'unica che abbia una sua chiara, irrinunciabile ragion d'essere. La formazione della norma degli artt. 595 e 596 c.p., come ha spiegato De Cataldo nel prologo, è avvenuta in momenti successivi. La vicenda storica esprime appieno la tensione tra libertà d'informazione e di pensiero e la tutela della intangibilità dei tratti essenziali della personalità umana. Accostandosi alla descrizione dell'art. 595 si vede, a prima vista, come la nozione di tutela dell'onore ivi accolta sia assai ampia. Una conferma, argomentando a contrario, si ha nel principio che illumina l'art. 596 alinea, dove è ribadito che nei reati contro l'onore la verità dell'addebito non opera con effetto scriminante. Nei commi successivi si delineano, tuttavia, de

lle eccezioni a questo canone. In particolare, nel primo capoverso, la prova e la ricerca della verità è concessa, di fronte al giurì d'onore purché l'offesa consista in un fatto determinato. Nel secondo capoverso, la ricerca della verità diviene obbligatoria sempreché l'offesa sia determinata e nei limiti sostanziali e con le cautele processuali indicate dalla legge. La disposizione finale chiude l'orizzonte della disciplina ribadendo, con riguardo alla forma dell'espressione lesiva, il principio svolto nella prima parte della disposizione, quanto al contenuto: presupposto delle ipotesi scriminanti è che il fatto sia determinato e vero e che le modalità dell'espressione non eclissino tali caratteristiche sostanziali.

Questa progressione descrittiva non svolge a fondo le peculiarità dell'istituto che si presenta, inoltre, pregno di motivi processuali. In dettaglio, l'art. 595 descrive il fatto di diffamazione, attenendosi alle regole tradizionali. Ma l'intera norma dell'art. 596 è organizzata strutturalmente e concettualmente su coordinate differenti dalle usuali, perché gli aspetti "sostanziali" appaiono così intimamente compenetrati con gli aspetti "processuali" dal formare un tutto inscindibile. Ciò emerge da due enunciazioni simmetriche Anzitutto già l'irrilevanza della verità del fatto offensivo non è enunciata dall'art. 596 alinea nelle consuete formule asserite ma è proiettata nel quadro del processo: "Il colpevole... non e ammesso a provare, a sua discolpa, la verità o la notorietà del fatto attribuito alla persona offesa." Il precetto sostanziale dell'art. 595 è qui riprodotto nel linguaggio processuale della preclusione di prova. All'opposto, nei commi successivi, che delineano il rilievo scriminante della verit

à non v'è traccia delle normali enunciazioni di non punibilitá, mentre emergono formule dominate dal motivo probatorio e condizionate dal suo esito nel corso della vicenda processuale.

Ebbene, proprio queste tre ipotesi che danno rilievo scriminante alla verità dell'addebito erano state abolite nel codice penale del 1931, in ossequio alla naturale intolleranza mostrata dal mitico stato autoritario verso ogni forma di convicio. Non è che lo stato fascista volesse apprestare una tutela rafforzata alla reputazione degli individui. Nei confronti di essa, - lo accenna Calvi, - esso mostrava l'indifferenza più assoluta. Vero era, invece, che gli interessi pubblici garantiti dal potere di censura attribuito nelle due prime ipotesi di exceptio veritatis, potevano essere più quietamente - cioè senza scandali - garantiti mediante i normali canali amministrativi e giudiziari, senza porre in pericolo il prestigio del funzionario e il tranquillo andamento della giustizia. Mentre contro la terza ipotesi - quella in cui la prova della verità è richiesta dall'offeso - militava una questione di principio: la Giustizia non doveva essere distratta da singoli individui intenti a trovare soluzioni per le propr

ie diatribe personali.

Alla caduta del fascismo, nel segno della riconquistata libertà, il problema ritornava, con l'art. 5 del d.l.l. 14 settembre 1944, n. 288, ad interessare la legge penale: la collaborazione dei cittadini al controllo delle funzioni di pubblico interesse doveva ritenersi gradita e necessaria; ma andava sottoposta a cautele, per evitare che taluno s'infilasse subdolamente là dove un sindacato pubblico non ha ragione di esistere e con sottile malizia censurasse da privato il privato. Il palladio della reputazione era offerto, anzitutto, dai limiti rigorosi in cui era data efficacia liberatoria alla prova della verità. Solo esigenze superiori di controllo democratico sulle pubbliche funzioni e sull'amministrazione della giustizia penale giustificavano la rottura di quei limiti e l'offesa della reputazione.

Poi venne la Costituzione e, con essa, 1'affermazione della più ampia libertà di pensiero e d'informazione. I limiti angusti, entro i quali era trattenuta la prova della verità, vennero considerati inaccettabili e dottrina e giurisprudenza mossero alla ricerca di criteri che dessero maggiore respiro alle esigenze dell'informazione. I tentativi sono stati numerosi e prendono le mosse, taluno dall'ampliamento dei limiti di liceità della cronaca, altri, invece, dalla restrizione della sfera di tutela dell'onore e della reputazione. Gianzi ha tracciato uno schema completo e significativo dei primi, ricordando che il principio comune a tutte queste teorie è che la libertà d'informazione si ferma solo là dove altri interessi di pari valore costituzionale esigono tutela. Esauriente è il quadro dei limiti logici all'informazione, di cui sottolinea lo stretto collegamento coi principi istituzionali dell'ordinamento fatto da Fragasso. Abbiamo riascoltato, in rapida rassegna, la teoria delle "materie privilegiate"; que

lla che vincola la violazione della reputazione al fatto che la notizia rivesta pubblico interesse; la dottrina della "continenza" che limita il diritto di cronaca ai fatti veri, socialmente rilevanti e espressi in forma corretta; quella della "dimensione esponenziale" che espone maggiormente all'attenzione della cronaca le persone che hanno rilievo pubblico; e, l'altra, differente solo nella forma, del consenso tacito dei soggetti pubblici. E de Figueiredo Dias ha, poi, arricchito il quadro, sottolineando il carattere "socialmente adeguato" di tali violazioni della privacy e dell'onore.

L'altra strada percorsa dagli studiosi per arricchire le ragioni della libertà di informazione a scapito di quelle della reputazione ha ad oggetto, invece, un ridimensionamento del bene tutelato dall'art. 595 c.p. Musco, riassumendo i risultati di una sua lunga ed interessante ricerca sull'argomento, ha illustrato la tendenza a passare da una considerazione "formale" dell'onore ad una "reale". Onore formale o convenzionale è il tradizionale oggetto di tutela, quello che spetta a tutti e consiste nella reputazione quale appare all'esterno, indipendentemente dai suoi contenuti genuini. L'onore reale rappresenta, per contro, i meriti della persona, che variano da uomo a uomo, e costituiscono l'ambito minimo e irrinunciabile di tutela. Ma nel menzionare l'ampio dibattito sulla questione, il penalista non ha mancato di accennare all'eccessivo semplicismo della distinzione e al fatto che il carattere polemico della contrapposizione delle due teorie non giova ad un'equilibrata risoluzione del problema. Più interess

ante l'indagine, riproposta criticamente da de Figueiredo Dias, sulle limitazioni dell'elemento soggettivo, connesse alla vecchia teoria degli "animi": solo l'esistenza dell'animus diffamandi integrerebbe il reato e basta questa trasformazione del dolo generico in specifico ad escludere, nella gran parte dei casi, l'esistenza della diffamazione nella pubblicazione di notizie offensive.

Tutte queste dottrine, che hanno riscontrato una certa fortuna in giurisprudenza, peccano, però, di uno stesso difetto. Esse si distaccano troppo dal tenore letterale della legge ed ignorano il meccanismo della prova liberatoria che, almeno sulla carta, ha la peculiarità di consentire una ricostruzione dell'onore leso mediante il positivo esperimento della prova della verità nel processo. Esse dicono piuttosto come dovrebbe essere una nuova disciplina dei rapporti tra libertà di pensiero e di stampa e tutela della reputazione: ma non dicono come essa è. Per questo l'attenzione viene richiamata sulla singolare disposizione dell'art. 596 e sul carattere esauriente o meno delle tre ipotesi di exceptio veritatis ivi contenute. Conso sostiene, ad esempio, che esse non consentono adeguato spazio ai diritti dell'informazione e, in questo senso, si è posta, con affermazioni non sempre chiare, la Corte Costituzionale. Lattanzi è venuto spiegando l'opera della giurisprudenza nel conquistare nuovo spazio alle esigenze

della stampa. Calvi richiama i tentativi di estendere, mediante applicazione analogica, le tre ipotesi di e.v. a casi similari, fatte in tempi in cui l'afflato di libertà non era sentito e reale come oggi, da Manzini e Antolisei. Nonostante il loro insuccesso sia stato più volte ribadito, a me pare che il grande respiro concesso dalla Costituzione repubblicana alla libertà di pensiero e di informazione apra la strada ad un progressivo ampliamento del novero delle scriminanti indicate nell'art. 596 c.p. Esse possiedono una particolarità non irrilevante. Vincolando la liceità dell'infrazione della reputazione alla possibilità di dare la prova della veridicità della notizia, si costringe il cronista ad assicurarsi della serietà della fonte e della certezza del fatto narrato. Non è un caso che l'exceptio veritatis compaia in ogni ordinamento di matura civiltà. Da Costa ci informa che la prova liberatoria è presente nel diritto brasiliano; de Figueiredo Dias, che essa opera nel diritto portoghese anche se, a suo

avviso non attiene all'essenza del diritto d'informazione; Chavanne che ha efficacia liberatoria nel sistema francese; Mourullo ne ha illustrato i profili nel sistema spagnolo. E Calvi, nel quadro d'una analisi logica e ideologica dell'istituto in rapporto ai differenti tipi di ordinamento, considera la "prova della verità", per la sua efficacia, una costante d'ogni sistema penale, sia esso democratico, sia esso autoritario.

Ora è un fatto che la revisione effettuata dalla Costituzione nei rapporti fra la tutela dell'onore e la libertà d'informazione ha introdotto nell'ordinamento penale come ha sottolineato Illuminati una novità, auspicando un'estensione dell'efficacia scriminante della regola dell'art. 596. Le ipotesi di prova della verità, prima rigorosamente tassative in quanto varchi eccezionali nella sfera di protezione dell'onore, oggi, grazie allo spostamento di accentuazione prodotto dalla norma costituzionale dell'art. 21, divengono passibili di applicazione estensiva. Questo fatto non porta, di per sé, al mutamento del bene tutelato dalla norma sulla diffamazione dall'onore formale all'onore reale. Evidenzia, piuttosto, come l'oggetto giuridico degli artt. 595 e 596 c.p. non sia un bene rigido, quanto un complesso equilibrio di valori, che va ricostruito, caso per caso, a seconda del peso dei differenti elementi assiologici che la norma contiene. A queste conclusioni giunge chi ha esaminato, in questo dibattito, alcun

i problemi particolari quali quello della diffamazione a carico dell'uomo politico. In questa materia, così ricca di tratti emotivi, alcuni dati si impongono all'attenzione nel gioco collettivo degli elementi di valore che le norme citate sottintendono. Come "uomo pubblico" il politico vede restringersi la sfera dell'onore protetto tendenzialmente verso l'onore reale. Per converso, si estende la possibilità di informazione e di critica con riguardo ai fatti del suo impegno pubblico. De Nova, parlando esplicitamente di questo tema, ha insistito sul fatto che il rilassamento dei limiti del diritto di critica è

assai vasto in giurisprudenza, quand'esso si rivolge alla figura e all'opera del politico e, attraverso un incisivo excursus comparato, ci rammenta che su questo problema tutto il mondo è paese. Ma nel contempo, la grande vulnerabilità del politico di fronte all'opinione pubblica giustifica una tutela rafforzata della sua vita privata e, al contrario la necessità che l'informazione che lo riguarda sia seriamente documentata e corretta. Perspicue note, al riguardo, mi sembra di cogliere nel documentato intervento di Concas. Non dissimilmente si pone il problema per i minori. Altrove la legge privilegia il minore dai pericoli di un'informazione indelicata. Si torni, un attimo, all'organica comunicazione di Cossu. Anche in questo caso, di fronte alla debolezza specifica del bene tutelato, occorre una maggiore cautela e serietà nell'attività informativa e l'equilibrio dei valori tutelato dagli artt. 595 e 596 conosce un sensibile spostamento verso la più ampia accezione dell'onore.

4. Da queste premesse, assai problematiche il dibattito muove al problema delle forme di risarcimento. Esse sono molteplici, nel nostro ordinamento, e di diversa efficacia. La prima e la più immediata di esse è la rettifica. Si tratta di un istituto che consente a chi si ritiene leso dalla pubblicazione di una notizia non veritiera, una sorta di risarcimento in forma specifica. La potenziale immediatezza della riparazione e la proporzionalità che la legge sulla stampa statuisce debba intercorrere tra di essa e l'articolo che l'ha determinata la rendono, a prima vista, rimedio semplice ed efficace. Il suo stesso contrapporsi dialettico alla notizia che l'ha determinata si pone - come sottolinea Rodotà, e ribadisce da un punto di vista penalistico Cotucci - nel segno di quella ricerca dell'obiettività dell'informazione attraverso il pluralismo delle voci che è momento peculiare del dialogo democratico. L'esperienza quotidiana dimostra, tuttavia, come gran parte delle promesse siano deluse dalla banalità dell'a

pplicazione e dal sospettoso disfavore della giurisprudenza verso forme di ricostituzione del diritto leso che non passino per i tribunali. Melchionda fa un'analisi realistica della situazione e illustra, con esempi significativi, come l'arretratezza della giurisprudenza sia causa prima del formarsi d'un costume giornalistico che avvilisce, nei fatti, la potenzialità riparatoria della rettifica e ne limita oltre misura le premesse: si ritiene insussistente la responsabilità del direttore per omessa rettifica, quand'essa appaia offensiva nei suoi confronti, o quando non è delineabile il confine tra notizia e commento quando dia minore decoro tipografico alla rettifica di quello dato alla notizia; o quando la rettifica sia confinata nelle "lettere al Direttore"; e non sono rettificabili le lacune dell'informazione e le distorsioni del commento, è, invece consentito il commento del direttore alla pubblicazione della rettifica. Nonostante queste limitazioni radicali, che sconsigliano nella prassi il ricorso all'

istituto, sembra che le conclusioni di questo dibattito siano nel senso di stimolarne una migliore utilizzazione più aderente allo spirito della legge. Lojodice ha tracciato le linee della nuova prospettiva in cui va collocato il diritto di rettifica: non più semplice momento di correzione formale del non vero, ma efficace strumento di correzione d'ogni distorsione prodotta dalla notizia diffamatoria diffusa. Di qui la necessità che, anche in settori informativi, quale quello Rai Tv, che a tutt'oggi vi si sono sottratti, essa abbia consistenza visiva e spaziale uguale in titolo, occhiello e colonne, a quella data alla notizia da correggere. La tutela contro le deviazioni andrà rafforzata col ricorso a mezzi cautelari urgenti (art. 700 c.p.c.) ed a sentenze che impongano un obbligo di "facere". Il recupero dell'efficacia innata nello strumento in parola è auspicato anche da Rodotà, che suggerisce mezzi e forme per ristabilirlo, assai interessanti soprattutto con riguardo alla rettifica radiotelevisiva.

La stessa proposizione dell'azione penale, ha, poi, con riguardo a questa specifica fattispecie, una particolare efficacia reintegratoria. Ché, anzi, a dire il vero, l'interesse pubblicistico che giustifica la protezione penale della reputazione appare nelle norme sopra richiamate assai tenue. Basti pensare al fatto che la punibilità della diffamazione è a querela dell'offeso. Se, dunque, in sede di repressione penale balza evidente lo scarso interesse pubblico alla punizione delle offese private, sotto il profilo propulsivo, tuttavia, le cose si atteggiano in maniera totalmente diversa, perché la norma è tutta volta alla reintegrazione dell'onore violato. Il permanere della punibilità a querela, anche nelle prime due ipotesi di exceptio veritatis, mantiene ad esempio, in posizione dominante l'esigenza di ricostruire la reputazione offesa, pur nell'esercizio di un potere di censura che risponde a rilevanti interessi pubblici. L'apparente carico probatorio che l'art. 596 fa pesare sul profferente consolida, p

oi, l'idea che abbiamo suggerito. Lo stesso contesto processuale, insolitamente scelto per la descrizione della norma sostanziale, esalta la possibilità di ricostruire col clamore qualificato del processo il danno all'onore causato dal clamore della notizia. Infine, il potere dispositivo dell'offeso in ordine al processo, che rileva nella facoltà, che gli è concessa dalla terza ipotesi di exceptio veritatis, di attivare o meno il processo di ricostruzione della propria fama collegato allo specifico meccanismo probatorio, illustra bene i tratti reintegratori del processo penale per diffamazione.

Quest'efficacia del processo, che è singolare nel sistema penale, rappresenta una peculiarità collaudata che induce a credere che l'istituto possiede, almeno in teoria, una grande carica sattisfattoria, non solo con riguardo all'obiettivo sostanziale della ricostruzione della reputazione violata, ma anche alla forma in cui avviene, al dramma del processo che evoca ricordi del vecchio duello cavalleresco, senza limitazioni di colpi. Bene ha detto, a questo proposito Roselli, - con riferimento alla questione resa nota a tutti dal caso Cederna-Leone, se, in un procedimento per diffamazione specifica in cui il querelante abbia chiesto che il giudizio si estenda all'accertamento della verità o falsità del fatto attribuitogli, sia lecito, in sede di interrogatorio del querelante medesimo, chiedergli se ammette la sussistenza del fatto per cui egli si ritiene diffamato - che l'atteggiamento del giudice che non consente domande al querelante è inaccettabile: non va scordato, infatti, da un lato che il querelante non

è l'imputato che ha diritto di trincerarsi dietro il silenzio o di difenderli con la bugia e che l'impossibilità di sentirlo come testimone, dall'altro, finisce per ledere proprio quel suo interesse alla ricostruzione dell'onore leso nel processo, per cui ha demandato all'imputato la prova liberatoria. In quest'ottica, incalza Grevi, il querelante è il testimone chiave e il giudice non solo può fare le domande volte ad accertare la verità dei fatti, quanto piuttosto deve farle.

Se il sistema non conosce deviazioni giudiziali del tipo indicato, dal processo penale per diffamazione sgorga un attivo contributo alla riparazione dell'onore violato. Vero è, però, che le distorsioni d'una cronaca giudiziaria che non e sempre equilibrata nell'esposizione dei fatti possono produrre - come ha denunciato Nobili - l'effetto opposto. Ed è innegabile che la lunghezza incredibile del processo penale italiano attenua l'efficacia della ricostruzione processuale della reputazione. Si badi, ne ha parlato già Conso, il processo in parola è, per la diffamazione a mezzo stampa, il giudizio direttissimo. E l'abuso di questo rito, utilizzato a piene mani nelle mini riforme più recenti, lo rende, nei fatti ugualmente lungo di quello normale, anche se meno garantito. A questo guaio si può porre rimedio solo appena avremo una diversa organizzazione processuale. Ma v'è, anche, uno specifico motivo che induce a rendere eterno ciò che la legge vorrebbe fosse direttissimo. Questo fatto - lo ricorda Conso - è la

possibilità accordata al querelante di rimettere la querela fino alla conclusione definitiva del processo. Il giudice saggio, che apprezza la composizione pacifica d'una vertenza intrinsecamente privata, è naturalmente portato all'indugio per consentire e stimolare l'accordo fra le parti. Urge, al riguardo, suggerisce Conso, un ritocco legislativo che limiti nel tempo la possibilità della remissione della querela.

Di altre innovazioni legislative penali si è fatto cenno nel corso articolato del dibattito. Ricordo l'opportunità di estendere il meccanismo della prova della verità ai reati di oltraggio e simili. Né va sottaciuta l'idea di Conso di affidare la conoscenza dei delitti di diffamazione ad un giudice onorario, o di integrare l'organo giudiziario con giudici laici, più sensibili dei giudici togati alla delicatezza della materia. Da ultimo potrebbe essere arricchito il campo delle pene accessorie mediante una norma che prescriva la perdita delle sovvenzioni pubbliche concesse al giornale in presenza di una pluralità di condanne per fatti diffamatori o che conceda alla saggia discrezionalità del giudice l'applicazione della misura, valutata la particolare gravità del fatto. Simon ha illustrato qualcosa di simile, quando ha detto che la Commissione federale statunitense che concede le licenze di esercizio di emittenti radiofoniche e televisive può revocare o non rinnovare la licenza in occasione di fatti quali que

lli richiamati. Certo: qui siamo in ambito amministrativo, ma non v'è dubbio che la minaccia di simile sanzione sconsiglia efficacemente abusi e distorsioni

D'un ultimo rimedio penalistico va fatto menzione ed è della pubblicazione della sentenza di condanna. Giarda ne ha sottolineato gli aspetti ricostruttivi della reputazione, in quanto denuncia pubblica del fatto diffamatorio e della sua avvenuta punizione: l'efficacia di prevenzione generale di questa misura non va sottovalutata. Anche qui, però, i processi sono lunghi e la norma non funziona, se non si introducono correttivi volti, ad esempio, ad anticipare la pubblicazione della sentenza prima della irrevocabilità.

5. Il risarcimento in senso proprio avviene nelle forme canoniche delle responsabilità da fatto illecito e in quella, inconsueta, della riparazione prevista dall'art. 12 della legge sulla stampa. Accostandosi a questo argomento v'è da notare una diffusa tendenza dei penalisti a proporre una significativa depenalizzazione della materia, sulla scorta di felici esperienze comparate illustrateci perspicuamente dagli ospiti stranieri. Lattanzi, ad esempio, sostiene l'opportunità di contenere il ricorso alla sanzione penale ai soli casi di abusi deliberatamente lesivi della reputazione altrui. Ove manchi l'animus diffamandi sarebbero più equi i rimedi civilistici, opportunamente rivalutati in qualità e quantità. In questa scia si colloca il pregevole intervento di Musco, incentrato nella seconda parte, proprio sulla necessità di decriminalizzare la diffamazione a mezzo stampa sulla scia di un insegnamento che risale in Germania fino all'inizio del secolo (Kohler). L'entusiasmo che i penalisti dimostrano per le tec

niche risarcitorie di diritto civile conosce, peraltro, un freno nelle realistiche perplessità espresse con l'ampia ed acuta relazione di Rodotà. L'intensificazione del ricorso alle forme risarcitorie della responsabilità civile può essere controproducente se applicato ad una materia delicata quale quella dell'informazione. Essa può, infatti, creare pericolose discriminazioni tra

gli operatori informativi, in relazione alla loro maggiore o minore capacità economica che svilisce od accentua l'effetto deterrente della sanzione pecuniaria. Questo spiega, in parte la palese renitenza del giudice civile ad occuparsi dei riflessi risarcitori dei fatti di diffamazione che è correntemente limitata - come ci ha spiegato Alpa, - ai casi in cui esista lesione di un interesse giuridicamente rilevante in cui sia essa conseguenza di un atto doloso; in cui comporti un danno patrimoniale e, allorché arreca anche un danno morale, nei soli casi in cui il fatto costituisca reato. Questo spiega altresì, il fatto, denunciato nella sua relazione introduttiva da De Cataldo, che il risarcimento dei danni da diffamazione è, nella nostra prassi giudiziale, normalmente assai modesto. La scarsa tutela risarcitoria dei diritti della personalità e in genere, dei diritti di libertà, deriva dal pregiudizio storico che grava, assorbente, sul legislatore italiano. Rodotà ha giustamente messo in luce come, nella stori

a del diritto, la tutela risarcitoria abbia riguardato in principio la proprietà per l'assunto che tale diritto era il più perspicuo dei diritti dell'uomo e che, mediante un'adeguata protezione di esso, si garantiva adeguatamente ogni diritto di libertà. Non essendo cambiato questo assioma, non si giustifica nella legge civile italiana il cambiamento della prassi risarcitoria. Ne risulta che la reputazione, come diritto della personalità, trova esigua protezione in civile, essendo questa demandata alle norme penali che regolano la materia.

Assai differenti indicazioni ci offrono le norme di diritto comparato. Da questo podio Da Costa ci ha illustrato lo stretto aggancio esistente nel diritto brasiliano tra gravità del reato di diffamazione ed entità del risarcimento commisurato, un po' sul modulo di quanto avviene nei paesi scandinavi, su un crescente numero di mesate del "salario minimo". Chavanne, dal canto suo, richiamando alcuni tra i casi di maggior interesse, ha confermato l'attenzione del diritto francese al problema della reintegrazione dei danni mediati e riflessi. Alpa, infine, ha sottolineato il valore della tradizione anglosassone in ordine al problema in discorso che considera la tutela dell'onore e della reputazione emblematica della più generale protezione dei diritti della persona e ne compensa la violazione con risarcimenti da noi impensabili.

Dal dibattito emergono, dunque, motivazioni contrastanti che, più che auspicare un ampliamento dell'area di interesse civilistico, sembrano consigliare una migliore attuazione della normazione vigente ed un miglioramento delle modalità di tutela. L'attenzione è volta, in tal modo a rendere più congruo il risarcimento. Il risarcimento della lesione di un diritto della personalità, viene, oggi, in tanto concesso, in quanto esso abbia contenuto e riflessi patrimoniali. Occorre promuovere una deconversione da tale principio, per affermare progressivamente la regola che il danno conseguente a violazioni dei diritti della personalità è, - per usare la felice espressione di Alpa - in re ipsa, e deve, pertanto, essere risarcito anche se non ha un immediato riflesso di carattere patrimoniale ed economico. Si accentui l'importanza del danno non patrimoniale, come vogliono molti, o si estenda il concetto di danno patrimoniale, come propone De Nova, là dove argomenta, nel caso dell'uomo politico, il rilievo patrimoniale

derivante dalla perdita di una chance elettorale, in conseguenza di una campagna diffamatoria. Ma si arrivi ad un adeguamento della riparazione che si ispiri a ragionevolezza e non esigano prove diaboliche circa la consistenza materiale dell'offesa subita.

Questo è il primo punto che occorre affrontare nella riforma del settore. Ma di pari passo si è chiesto debba andare l'allargamento della legittimazione ad agire con riguardo a soggetti portatori di nuovi interessi, quale quello ad una corretta informazione politica. Quanto propone Rodotà, vede scettico Chiola che, individuando nell'immotivata esclusione dall'accesso radiotelevisivo, l'esigenza di una tutela di "interessi diffusi" proclama l'insufficienza della normativa a consentire l'attuazione dell'aspettativa delusa. Il problema è, però, attentamente studiato in dottrina e merita un intervento chiarificatore della legge.

Su queste premesse, va attuata una maggiore tutela di quei settori della personalità, nei confronti dei quali più evidente è la carenza legislativa. Parlo, in particolare, delle esigenze di protezione della riservatezza, sulle quali ampiamente si è soffermato Cassottana. Il problema è sul tappeto da anni e non trova, se non episodiche, soluzioni legislative, ma può essere reso meno drammatico con l'accorto ricorso a norme generali dell'ordinamento. Con riguardo ad esse Pecorella, auspica l'utilizzazione di strumenti generali, per contenere e frenare l'abuso delle tecniche più smaliziate di diffamazione e di cancellazione del dissenso. E si riferisce ai casi frequenti della diffamazione per incompletezza, a quella per parzialità, a quella per tendenziosità. Qui più che mai lo strumento civilistico si dimostra duttile ed agile a interrompere, intanto, l'attacco offensivo e, poi, a ripararlo. Il richiamo dei provvedimenti d'urgenza anche per completare la notizia inesatta o incompleta sembra possibile allo stat

o attuale dell'ordinamento e assai valido.

Altri sono i provvedimenti idonei a migliorare la tutela civile dei diritti della personalità. De Nova suggerisce di spezzare il legame tra risarcibilità del danno e sussistenza del reato. Longo propone di utilizzare la pena privata prevista dall'art. 12 1. stampa quale riparazione del danno futuro, di quel danno che in considerazione della enorme potenzialità connessa ai moderni mezzi informativi, è certo che verrà, ma non è al presente né qualificabile, né provabile. Ancora De Nova consiglia di sganciare la responsabilità del giornalista dal dolo e di considerare l'esercizio della stampa attività " rischiosa". Cendon, infine, sviluppa, sulla base di sacrosante considerazioni di efficacia, l'applicazione della pena privata. Accertatone il buon esito dato in ordine a tutta una serie di utilizzazioni particolari, Cendon consiglia di estendere l'istituto, saggiandone la validità con qualche applicazione specifica. Una pena di tal fatta, potrebbe, così, essere quella della corresponsione di uno o più incassi gi

ornalieri del periodico al danneggiato.

6. Sono giunto agli sgoccioli della mia sintesi. Dalla organizzazione sistematica degli interventi riesce ancor più evidente quello stato di episodicità e frammentarietà della legislazione che Conso denunciava all'inizio. Ma nell'incontro coi singoli istituti, esce anche rafforzata la convinzione che, per l'inerzia della giurisprudenza e il distacco della dottrina, non vengano esperite tutte le possibilità che essi consentono. E se anche la prassi spinge a dirottare le speranze verso un legislatore nuovo - come notava realisticamente Longo -, il risultato più proficuo di questo convegno è nel senso che si aggiorni anzitutto l'applicazione d'un diritto che è migliore di quanto sembra ad una prima apparenza.

 
Argomenti correlati:
roma
diffamazione
centro piero calamandrei
immagine
stampa
stampa questo documento invia questa pagina per mail