di Ernesto BettinelliSOMMARIO: Già nel progetto di programma del PSI traspare una certa attenzione e sensibilità verso la questione della ridefinizione del ruolo dell'esecutivo. L'obiettivo a cui si dovrebbe tendere è quindi quello di una ricostituzione della responsabilità politica dell'esecutivo, ora frantumata e deviata, escludendo però l'ipotesi di un dualismo politico proprio dell'esperienza americana e, per certi aspetti, francese. L'idea che un mutamento delle regole del gioco sia ormai l'unica via percorribile al fine di far uscire il sistema politico dallo stallo in cui è costretto, è presente in molti scritti di Amato e su posizioni assai vicine sembra attestarsi anche Mancini.
A queste "sonde" socialiste di chirurgia costituzionale fa riscontro, da parte comunista una chiusura abbastanza netta e pregiudiziale: alle esigenze della democrazia conflittuale si risponde con le esigenze della democrazia organizzata secondo lo schema di sedi decisionali ed operative plurime, ma nel contempo, "concentriche".
E poiché una riforma della costituzione senza PCI non si può fare, bisogna ammettere che, almeno per ora le relative proposte sono fuori campo.
(ARGOMENTI RADICALI, BIMESTRALE POLITICO PER L'ALTERNATIVA, Ottobre-Dicembre 1978, N. 10)
Non si è ancora ben compreso se le idee sulla riforma del nostro sistema politico in senso "tendenzialmente" presidenzialistico che già da tempo (e fino ad ora con studiata prudenza, più per accenni e per ammissioni implicite che per dichiarazioni inequivocabili) circolano in alcuni autorevoli ambienti intellettuali socialisti vicino a Craxi, siano destinate a breve termine a sfociare in una proposta articolata di revisione costituzionale, che abbia l'"imprimatur" della segreteria del PSI, o se, invece, manterranno anche per il prossimo avvenire un valore di ballon d'essai, di sonde che esplorino gli umori, il grado di reattività dei probabili contraddittori e dei possibili (e non sempre desiderati) interlocutori.
Gira la voce che Mondoperaio dovrebbe promuovere in primavera un importante convegno sul tema sopra evocato; ma si sa anche che permangono molte incertezze e perplessità sulle dimensioni, sul taglio da conferire all'iniziativa e sulla sua stessa opportunità. Sarebbe comunque molto interessante scoprire che i socialisti, capaci di trattare Lenin con laica spregiudicatezza sono anche pronti a cimentarsi con la sacralità di alcune fondamentali ipotesi organizzative della Costituzione repubblicana e questo proprio all'indomani delle celebrazioni del XXX della sua entrata in vigore. Celebrazioni che, in linea di massima, sono caratterizzate da una generale dimostrazione di fiducia sulla tenuta e validità del compromesso raggiunto nel 1948 tra tutte le forze politiche che oggi si trovano nell'area di maggioranza. In particolare, la riacquisizione da parte del PCI della legittimazione di potenziale (e, certo, in qualche misura, attuale) soggetto cogovernante, ha sicuramente contribuito ad un'esaltazione dell'origin
e storica della nostra Carta (quante volte abbiamo sentito rievocare la "concreta volontà", il "comune impegno", la "fattiva collaborazione" tra i partiti che tra il 1946 e il 1947, nonostante le lacerazioni politiche, hanno tessuto insieme il testo costituzionale!), più che a far discutere criticamente la sua funzionalità e la sua resa. Molti tra gli interpreti ritengono anzi, che essa, soprattutto oggi, con la caduta della "conventio ad excludendum" nei confronti del PCI, debba essere riconfermata e possa produrre tutti i suoi positivi effetti, sempre a partire dal dato del compromesso.
In questo clima rituale e quasi magico, ma che sottende precisi interessi di condizionamento dello sviluppo della situazione politica, quale spazio possono avere i fautori della nuova "tecnologia democratica" (l'espressione è di Amato, in "Mondoperaio", 1977, n. 7/8, p. 52)? Quale il senso di una denuncia del patto costituzionale, quali le conseguenze nei rapporti tra i due maggiori partiti della sinistra? Che cosa c'è - o ci può essere - di "sostanziale" dietro i discorsi di ingegneria costituzionale?
Dall'esecutivo forte alla Repubblica presidenziale
Già nel "progetto di programma" del PSI traspare una certa attenzione e una particolare sensibilità verso la questione della ridefinizione del ruolo dell'esecutivo. Più specificamente si sottolinea la necessità di garantire al governo "unitarietà di struttura, omogeneità politica, stabilità ed autonomia decisionale", sia pure nell'ambito degli indirizzi approvati dal Parlamento, ma al tempo stesso precisando che le funzioni del governo e quelle delle assemblee legislative devono risultare "nettamente distinte". In effetti il "modello istituzionale" a cui si ispira nelle sue grandi linee il progetto socialista, postula, tra l'altro, il "primato del governo politico, inteso come capacità di "guida" e di "indirizzo" dello sviluppo sociale", in contrapposizione alla esperienza ancora in atto del fatiscente "stato dei ministeri", sopravvissuto allo stato liberale.
L'obiettivo cui si dovrebbe tendere è quindi quello di una ricostituzione della responsabilità politica dell'esecutivo, ora frantumata e deviata, causa non ultima la presenza delle innumerevoli burocrazie parallele e la confusione tra funzioni di indirizzo e funzioni di alta amministrazione che fanno indiscriminatamente capo agli stessi organi di governo. Nella prospettiva di una "rifondazione dello stato centrale" si dovrebbe procedere al "riaccorpamento in poche unità di comando delle funzioni di indirizzo, in cui deve riuscire a specializzarsi il governo con riferimento ad ambiti organici, quali l'economia, il territorio, i servizi e le politiche produttive".
Il senso di tale disegno è quello di evitare nell'azione di governo tutte quelle interferenze e contaminazioni che immancabilmente provocano distorsioni durante l'attuazione della sua politica, per cui raramente si riesce a verificare se i risultati concreti conseguiti dalla pratica amministrativa corrispondano o meno ai programmi di governo.
G. Amato riprende e chiarisce su "Mondoperaio" (n. 7/8 del 1977 e n. 3 del 1978) la tematica della stabilità ed efficienza dell'esecutivo, concludendo che le riforme prospettate vogliono "semplicemente" dotarlo di un'autonomia sufficiente a consentirgli di attuare le scelte deliberate dal Parlamento (cui compete l'adozione dei "piani") e assicurando che la maggiore stabilità del governo deve essere realizzata mediante congegni che "non conferiscono ad esso una legittimazione politica alternativa e concorrenziale rispetto a quella della maggioranza esistente in Parlamento"; ed escludendo esplicitamente qualsiasi ipotesi di "dualismo politico", proprio dell'esperienza americana e, per certi aspetti, francese.
Se pure tra i "congegni" idonei a raggiungere gli scopi sopraddetti si indica, tra l'altro, la possibilità di un'elezione contestuale del Parlamento e del governo (anch'esso, si presume, investito direttamente dal voto popolare; ma i modi non vengono chiariti), è possibile fin qui ricondurre il complesso di tali proposte entro il "quadro" della forma di governo parlamentare prevista dalla Costituzione del 1948; si tratterebbe "solo" di una razionalizzazione che rientra nelle potenzialità di quella legge sull'ordinamento della Presidenza del Consiglio e sul numero, le attribuzioni e l'organizzazione dei ministeri promessa dell'art. 95 della Costituzione, ma finora evasa dalle Camere.
Un'interpretazione così riduttiva, minimalista, delle intenzioni e propensioni socialiste diventa però poco sostenibile, considerando successivi interventi dello steso Amato e di altri intellettuali socialisti "organici" come F. Mancini o di altri ancora come, ad esempio, F. Alberoni, sicuramente non organici, ma le cui opinioni hanno avuto presso via del Corso forse qualcosa di più di una benevola attenzione.
Di Amato si segnalano alcuni commenti giornalistici, nei quali si insiste sull'opportunità-necessità di progettare "con coraggio" uno stato "diverso", arrivando fino al punto di immaginare adattamenti istituzionali (ad es. un sistema alla francese) tali che consentano "a uno dei due maggiori schieramenti politici di assumere le responsabilità e i rischi di governo, mentre l'altro coagula le critiche ed è pronto a subentrare" ("Panorama", 9 maggio 1978).
L'idea che un mutamento delle "regole del gioco" sia ormai l'unica via percorribile, al fine di far uscire il sistema politico dallo stallo in cui la politica della pseudo-emergenza, della inconcludente maggioranza l'ha costretto, appare in altri interventi dello studioso socialista. Così - sempre su "Panorama", 18 luglio 1978 - egli dà ragione agli assertori di un'elezione diretta del Presidente della Repubblica da parte del corpo elettorale, avvertendo che tale eventuale correttivo dovrebbe "investire l'intero sistema istituzionale", cosicché per il futuro siano scongiurati gli incastri tra maggioranza e opposizione, nell'auspicio di una "riforma" in grado di dare alle nostre istituzioni la capacità di "decidere e di scegliere".
L'insoddisfazione di Amato copre anche il ruolo assunto dai partiti quali istituzioni sostanzialmente governanti che si sostituiscono alle sedi decisionali formali, svuotate dal regime di "pentarchia" che il Paese sta sperimentando. L'analisi è puntuale: "i partiti... hanno un'unica strada per confrontarsi ed equilibrarsi fra loro: la spartizione del potere - ed è per questo che finiscono per dilagare in tutti gli spazi possibili ("Panorama", 8 agosto 1978; ma cfr. anche un articolo sull'"Avanti", 24 luglio 1978). Il rimedio, anche in questa occasione, è rappresentato dall'individuazione di un sistema che impedisca ai partiti di stare "tutti dalla stessa parte", che favorisca, cioè, il realizzarsi di una situazione in cui "c'è una maggioranza che ha di fronte un'opposizione e teme di perdere il posto..." e in cui "la manipolazione dello stato non conviene a nessuno, perché chi la tenta oggi può uscire distrutto domani" ("Panorama" ult. cit.).
Sulle medesime posizioni sembra attestarsi anche F. Mancini, quando riconosce che sussiste il rischio che i partiti associati "possono divorare tutto: società civile, diversità, dibattito" e quando reclama un Presidente della Repubblica "forte", "disposto ad usare nella loro pienezza le facoltà che la Costituzione gli conferisce". Con questo Mancini sembra non volersi esporre troppo e rompere con il modello costituzionale vigente, ma afferma anche (contraddizione o segnale? Secondo me: segnale) che la linea istituzionale dei socialisti si richiama a Rosselli e Calamandrei che, come è noto, era un caldo fautore di una Repubblica presidenziale di tipo americano ("La Repubblica", 4 luglio 1978).
Del resto, che si debba passare anche attraverso una riforma dell'istituto della Presidenza della Repubblica, per il superamento delle strozzature dell'esperienza in atto, e in maniera da esaltare la domanda di partecipazione popolare e ridurre l'invadenza delle oligarchie dei partiti, lo dice anche Alberoni nel momento in cui suggerisce l'elezione diretta del Capo dello stato ad opera del corpo elettorale ("Corriere della Sera", 6 luglio 1978). In verità egli nega che una simile proposta comporti l'instaurazione di una Repubblica presidenziale od anche solo una concentrazione di poteri del Presidente della Repubblica. Dichiara di prospettare nulla più che una modifica delle procedure della sua designazione. Sembra tuttavia assai difficile, anche a tavolino, credere che il metodo di investitura di un organo così delicato e "in equilibrio" come il Capo dello Stato non possa essere influente sul contenuto delle sue attribuzioni.
Nuova e vecchia ingegneria costituzionale
Questa rassegna non certo esaustiva, ma credo abbastanza indicativa, delle tendenze o suggestioni ingegneristiche in via di emersione tra i socialisti, può apparire un'operazione tutto sommato parziale, in quanto le ho estrapolate da un contesto più generale di riforma del sistema politico e "sociale" in cui esse si trovano inserite. Ma ho scelto questo modo di procedere nella piena consapevolezza dei suoi limiti. Innanzitutto per ragioni di economia di spazio: dò per conosciute le tesi sulla "democrazia conflittuale", sul "controllo sociale", sulla diffusione delle "autonomie operative autogestite" etc. e, per quanto mi riguarda, le condivido.
In secondo luogo un'esposizione così "secca" delle linee di correzione costituisce, così come sono state tracciate o appena abbozzate (forse con voluta genericità) mi consente di rivelare la loro coincidenza formale con analoghi disegni elaborati a destra all'inizio degli anni '70.
Alludo alle "idee" dell'on. Ferri (allora segretario del PSU), quando sosteneva l'urgenza di un rafforzamento dell'esecutivo e la stabilizzazione della maggioranza attraverso mutamenti del sistema elettorale in direzione parzialmente maggioritaria e non escludeva il ricorso all'ipotesi presidenzialistica (riallacciandosi in questo a orientamenti già maturati nel gruppo democristiano che faceva capo all'agenzia "Europa settanta" e che successivamente, vennero ripresi anche da Sandulli: elezioni dirette di tutte le cariche esecutive, dal sindaco, ai presidenti delle giunte regionali fino, appunto, al Presidente della Repubblica; adozione di sistemi elettorali non proporzionalistici, per creare le condizioni di un'alternanza nella direzione politica del Paese).
E' evidente - come ha già sottolineato un editoriale di Politica del diritto: n. 4, 1978 - che l'assonanza tra le prospettive istituzionali dei progettisti di destra e dei fautori della nuova tecnologia democratica è solo formale, che gli obiettivi a cui tendono gli uni e gli altri sono poco conciliabili.
Da una parte si pensava (e ancora si pensa) infatti alla costruzione di un blocco d'ordine, efficientista, abbastanza solido per governare senza bisogno di patteggiare a ogni piè sospinto con il PCI (per cui le riforme costituzionali prospettate rappresenterebbero soprattutto la predisposizione di argini e sbarramenti in un sistema sempre accentrato e accentratore).
Dall'altra parte; invece, il rafforzamento dell'esecutivo e la Repubblica presidenziale dovrebbero essere quasi il momento di sintesi, di coordinamento di un sistema di centri decisionali ampiamente decentrati e autogestiti, tessuto connettivo di uno stato in cui società politica e società civile non vivono più separate (Amato efficacemente chiarisce che il nuovo esecutivo sarebbe chiamato a dirigere "solo uno" dei "dei sottosistemi"). Se poi interessa dimostrare la continuità del pensiero dei neoprogettisti del PSI con la tradizione della migliore cultura istituzionalistica socialista, si possono senz'altro richiamare le tesi di M.S. Giannini sullo "Stato democratico repubblicano" redatte nel 1946; a Giannini non è infatti estranea la preoccupazione per la stabilità e funzionalità dell'esecutivo e la propensione per sistemi elettorali non proporzionalistici, nel quadro di una democrazia che organizza i suoi poteri dal basso ("en passant": Giannini sosteneva anche che fosse assolutamente necessario assoggett
are i partiti politici a una disciplina giuridica, la quale imponesse ad essi obblighi, mentre attribuiva loro dei poteri: cfr. "Il PS e la Costituzione", in "Socialismo", giugno 1946, p. 147).
Fatti tutti questi "distinguo", stabilito che le strategie delle due schiere di riformatori costituzionali sono assai divergenti, occorre però egualmente valutare il peso della loro "coincidenza tattica formale", anche perché la storia insegna come a volte accada, nelle vicende di non breve periodo, che strategia e tattica, al di là dei propositi d'origine, finiscano per confondersi.
Non è un caso che, forse, proprio le prese di posizione socialiste sui temi di ingegneria costituzionale abbiano risvegliato i riformatori di centro-destra.
Recentemente (novembre 1978) a Como, in un convegno sulla realtà attuale della Costituzione, S. Galeotti esponente di primo piano dell'Unione dei giuristi cattolici, ha rilanciato una sua vecchia tesi sulla necessità di un "governo di legislatura, che tragga la sua investitura dal popolo in sede di elezioni generali per essere responsabile, poi, alla scadenza della legislatura, ancora davanti al popolo". I termini formali del suo ragionamento sono gli stessi, di Amato, quali appaiono negli "spunti" sopracitati.
E' altresì significativo che in alcuni settori moderati il risorgente entusiasmo per la modellistica costituzionale è sovente tutt'uno con la convinzione (indubbiamente errata) che sia abbastanza facile recuperare, in un sistema politico corretto secondo i moduli sopradescritti, il PSI del "nuovo corso" in un blocco neoliberista, magari a direzione laica, ma comunque in funzione anti-PCI.
Le risposte del PCI: se ne può prescindere?
Se questo è il quadro obiettivo in cui, loro malgrado, vengono a trovarsi imbrigliate le "sonde" socialiste di micro (o macro) chirurgia costituzionale, è facile immaginare quali possano essere le risposte comuniste e di un settore non irrilevante della DC, anche nelle sue componenti dorotee. Già esistono alcune precise avvisaglie.
Consideriamo solo le reazioni comuniste, tanto più negative quanto più è ostentato lo scarso interesse verso le "provocazioni" socialiste.
L'argomento delle riforme costituzionali è infatti da sempre rifiutato sbrigativamente e, anche oggi, si adduce l'improponibilità di modelli stranieri (C. Cardia, in "l'Unità" del 4 luglio 1978); si conferma inoltre la validità del metodo dialettico che si esprime nelle (e tra le) assemblee elettive e la fedeltà al principio proporzionalistico che si ritiene "costituzionalizzato" (F. Galgano, in "L'Unità" del 7 luglio 1978). In particolare l'ipotesi dell'elezione diretta del Presidente della Repubblica viene dal giurista comunista così trattata: "La proposta... fa tutt'uno con gli intenti che hanno animato le iniziative dei referendum abrogativi, tutt'uno, ancora, con certe conclusioni che si sono tratte dal moderato no all'abrogazione del finanziamento pubblico dei partiti. Nasce da una visione critica dei partiti e del sistema rappresentativo; punta, oltre questo, all'instaurazione di un sistema politico a cui pensa di potere attribuire il carattere di una maggiore democraticità, perché alla democrazia del
egata sostituisce la democrazia diretta" ("L'Unità", cit.).
Dunque la chiusura, da parte comunista, appare abbastanza netta e pregiudiziale già all'inizio del dibattito: alle esigenze della democrazia conflittuale si risponde con le esigenze della democrazia organizzata, secondo lo schema di sedi decisionali e operative plurime, ma, nel contempo, "concentriche". Il nesso indissolubile evidenziato da Amato tra alternativa e alternanza non è condiviso e, pertanto, è davvero difficile prevedere, anche dopo un lungo, meditato, sereno e corretto confronto sui problemi della riforma dello stato tra PSI e PCI, che questo partito possa dichiarare la sua disponibilità a una revisione delle "regole del gioco". E una riforma della Costituzione senza PCI non si può fare, e non solo per questioni numeriche.
Ciò significa allora, in ultima analisi, ammettere che "almeno per ora" le relative proposte sono "fuori campo"; significa anche che diventa indispensabile discutere sull'utilità di avviare "oggi" un dibattito su di esse: chiederci se davvero rappresentano l'unica via percorribile e l'unico strumento agibile per mettere in moto l'alternativa e l'alternanza, per affrontare (e incominciare "concretamente" a risolvere) le questioni della crescita della società civile, dell'effettiva partecipazione dei cittadini e dei lavoratori ai processi decisionali, di come togliere ai chierici il monopolio della politica.
Il `vero' problema: il partito `deistituzionalizzato' e libertario
Proprio questo è il discorso che deve essere preliminarmente impostato e che costituisce l'indispensabile anello di passaggio per la proposizione di correttivi o mutamenti costituzionali relativi alla forma di governo (e per i quali non nutro alcun preconcetto): naturalmente se quello che preme non è solo la speculazione teorica dello scienziato politico, ma l'interesse pratico dell'attore politico.
Ho l'impressione che l'affezione quasi improvvisa, non certo improvvisata, verso l'ingegneria costituzionale non sia manifestazione di un eccesso di ottimismo verso la praticabilità a breve-medio termine delle soluzioni proposte ma derivi, piuttosto da un eccesso di pessimismo, di sensazione quasi di impotenza, nei confronti della realtà dei partiti e, segnatamente, del partito in cui Amato, Mancini e altri "vivono". Cosicché un repentino mutamento del sistema costituzionale appare forse come l'ultima spiaggia per una rigenerazione delle forze politiche. I rimedi esogeni sostituiscono quelli endogeni, i quali si dispera siano attivabili.
Ci sono sufficienti elementi che lasciano supporre che questa interpretazione (politica non psicanalitica: sia ben, chiaro!) dei moventi che sorreggono le opinioni degli Autori citati sia plausibile. L'insofferenza per le "gabbie dei partiti", la sempre più ferma consapevolezza che il socialismo " richiede a chi dirige non di assolvere a una permanente funzione di tutela, ma di creare le condizioni perché i cittadini trovino "da soli" l'interesse collettivo, una volta sottratti alle gabbie corporative che li inducono ad essere corporativi" (Amato, sull'"Avanti", 24 luglio 1978): questi i veri nodi da sciogliere. Ma a partire, però, dalla propria gabbia.
A. Panebianco su questa rivista (nel n. 7 e poi, ancora sul n. 8/9) ha svolto esaurientemente questa tematica e tutto il suo ragionamento muove da una prospettiva "interna": volta a provocare con l'indicazione di "precisi comportamenti" appunto una deistituzionalizzazione autogena dei partiti politici.
Mi pare tuttavia che del suo intervento, nella parte propositiva, sia stato colto e sopravvalutato il riferimento (marginale rispetto al senso complessivo del suo saggio) all'eventualità di una disciplina giuridica di alcuni aspetti della vita interna dei partiti. Mancini ha parlato di diagnosi giusta, ma di "dubbia terapia" ("Avanti", 16 luglio 1978): Amato ha ammonito che il "problema non è di far entrare lo stato nei partiti, ma di sciogliere questi nella società e farli vivere in funzione di questa, rovesciando, così le tendenze attuali" ("Avanti", 24 luglio 1978).
Onde sgombrare il terreno da inutili feticci, dichiaro subito che anch'io non ho molta fiducia sull'utilità della legge che regoli l'attività interna dei partiti, anche perché con essa, probabilmente, nonostante le buone intenzioni, si perverrebbe al risultato di insediare ancora di più i partiti nello stato: invece di favorire il concorso spontaneo e i diritti dei cittadini nei partiti e il ricambio delle elites dirigenti, si finirebbe per conferire loro nuovi piedistalli di legittimazione.
(Nel medesimo tempo sono anche convinto che criticare la soluzione della disciplina giuridica dei partiti e proporre al buio riforme costituzionali non sia prova, oltre che di realismo, neppure di ineccepibile coerenza).
Sono d'altra parte persuaso che possano essere esplorate vie interne e dirette per "departiticizzare" il sistema politico - come afferma G. Pasquino - e per porre limiti al professionalismo politico e ai fenomeni di alienazione che esso comporta. Proprio cominciando a mettere in discussione, ma addirittura in crisi l'organizzazione partitica in cui si è inseriti, nel momento in cui ci si è accorti che è diventata "organo di governo, centro nevralgico della gestione del potere" (Mancini, art. cit.).
Il partito socialista maggioritario e libertario
Il discorso a questo punto non può più mantenersi sulle generali, procedure per allusioni. Occorre interrogarsi sul PSI. (Non considero questa un interferenza, essendo anch'io interessato - come dice Pannella: n. 11 di "Mondoperaio", nel corso dell'intervista condotta da M. D'Eramo - alla rifondazione del partito socialista "maggioritario" che, a partire "dal grande ceppo del PSI, dovrebbe coinvolgere l'80 per cento dei comunisti, l'80 per cento dei radicali, l'80 per cento dei socialisti.
Bisogna, ad esempio, indagare se è un sintomo di unità o invece un sintomo di burocratizzazione, più che di conformismo, il fatto che il "nuovo corso ideologico e politico" del PSI non abbia provocato al suo interno alcuna lacerazione (in passato i socialisti si sono scissi per scelte forse meno impegnative); se il progetto socialista, così di ampio respiro, con la sua carica e necessità di sempre nuove aggregazioni può navigare nella barca del PSI così come è attualmente strutturato, più simile a un ente parastatale che a una formazione politica nata dalle lotte sociali e politiche, se nel PSI si milita più per il partito (come fine) o più per le battaglie che lo stesso conduce (il partito come strumento).
Altre sarebbero le domande ed è facile immaginare quante e quali. Se nelle risposte si arrivasse alle conclusioni che gli articoli di Amato e Mancini lasciano supporre, ecco allora che diventa prioritario lavorare sull'ipotesi del nuovo partito socialista, impostare con una strategia dei "cento fiori" il "progetto del partito dell'alternativa socialista".
Questo potrebbe richiedere come operazione di partenza: la rottura degli schemi morandiani; lo smantellamento delle burocrazie interne (quanti sono i socialisti che vivono solo, o in gran parte, del lavoro svolto negli apparati del partito o nei centri anche esterni ad esso collegati? Le cariche retribuite si dovrebbero contare sulle dita di due mani), chiudendo se è necessario per qualche tempo anche la sede romana di Via Del Corso; uno "spontaneo" ritiro in campagna - come usava dieci anni fa in Cina - dei capoconventicola; in altri termini la restituzione del partito alla società civile.
Dalla ricostruzione di un partito siffatto tendenzialmente maggioritario, perché maggioritarie sono le battaglie che conduce, scaturiranno mutamenti profondi nel funzionamento dello stesso sistema politico e determineranno processi di trasformazione nelle altre forze politiche (non è forse accaduto proprio questo con l'invenzione socialista del "partito di massa"?) Per esse il dilemma sarà infatti: adeguarsi o soccombere.
La democrazia conflittuale nascerà perché c'è nella società la presenza di un "partito conflittuale". Ed è a questo punto che il terreno sarà concimato abbastanza per "proporre e imporre" nuovi modelli costituzionali.
Si faccia dunque il convegno di Mondoperaio sui problemi delle riforme istituzionali, con la piena consapevolezza, però, che la prima istituzione da rifondare è la propria. I radicali, in questo caso, saranno i necessari interlocutori. Altrimenti si continuerà nel gioco delle tre carte, sapendo che tanto quella giusta non uscirà mai.