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Aglietta Adelaide - 1 febbraio 1979
(11) DIARIO DI UNA GIURATA POPOLARE AL PROCESSO DELLE BRIGATE ROSSE: Il dibattimento è aperto
di Adelaide Aglietta

INDICE:

"Prefazione" di Leonardo Sciascia

Il coraggio della paura

Una città assediata

L'appuntamento con i violenti

Fiori in tribunale

Nel bunker

La prossima sarà Adelaide Aglietta

Giustizia per Giorgiana Masi, giustizia per il maresciallo Berardi

La strage di via Fani

La questione dell'auotodifesa

Il dibattimento è aperto

Tragedia nel paese, illegalità in Parlamento, noia in tribunale

Curcio: "Un atto di giustizia rivoluzionaria"

Frate Mitra

La campagna dei referendum: schizofrenia di una giurata

La parola è alle parti

La Corte si ritira, il mio compito è finito

Perché questo libro

SOMMARIO: Adelaide Aglietta, torinese, è entrata nel Partito radicale nel 1974. Dopo aver militato nel CISA per la depenalizzazione e la liberalizzazione dell'aborto e poi nel Partito radicale del Piemonte, è stata capolista radicale a Torino nelle elezioni del 20 giugno 1976. Nel novembre successivo è stata eletta segretaria del Partito radicale, carica che le è stata riconfermata per il 1978 al Congresso di Bologna. Estratta a sorte, nel marzo 1978, come giurata popolare nel processo di Torino alle Brigate Rosse, ha accettato l'incarico dopo che si erano verificati più di cento rifiuti da parte di altrettanti cittadini, consentendo così la celebrazione del processo.

Adelaide Aglietta è stata dunque il primo segretario di partito a partecipare ad una giuria popolare: il suo diario nasce da quest'esperienza al confine del lavoro politico e della vita privata, fra le tensioni e contraddizioni che il ruolo di giudice popolare, soprattutto in un processo politico, non può non creare.

Attualmente è deputata al Parlamento europeo.

("DIARIO DI UNA GIURATA POPOLARE AL PROCESSO DELLE BRIGATE ROSSE" - Adelaide Aglietta - Prefazione di Leonardo Sciascia - Milano Libri Edizioni - febbraio 1979)

IL DIBATTIMENTO E' APERTO

Giovedì 30 marzo. Il processo è ora alla svolta cruciale, in attesa che finalmente si passi all'esame del contenuto dei capi d'imputazione, la fase con la quale si dovrebbe prendere conoscenza dei fatti e dunque formarsi una convinzione circa la colpevolezza o meno degli imputati.

Nel pomeriggio di giovedì e il giorno seguente seguo il Congresso socialista: mi hanno riferito che Craxi ha parlato di "evidente crisi, con conseguente processo di disfacimento, del Partito radicale". Mi piacerebbe riuscire a capire qualcosa di più circa questa curiosa tesi. entrando al Palazzo dello sport di Torino molti socialisti mi abbracciano: non credo perché convinti di abbracciare il segretario di un partito in via di disfacimento. Alcuni mi fanno firmare le tessere socialiste esclamando che la mia, sommata alla loro, dovrebbe formare una tessera unica. Se i compagni mi sembrano eccezionali, l'atmosfera all'interno del Congresso è ben diversa: la parata è grandiosa, si palpa l'esistenza di un fortissimo apparato molto ben finanziato e impegnato nel tentativo di darsi una facciata rinnovata che lo differenzi dagli altri partiti della maggioranza.

Mi accompagnano nello spazio riservato alle delegazioni dei partiti. E' uno spazio che appare angusto rispetto all'enorme tribuna riservata alle delegazioni straniere. Craxi, penso, ha fatto le cose in grande. Alla mia desta, nella fila davanti, sono Pajetta e Cervetti, per il PCI. Alle mie spalle Magri, con la delegazione del PDUP. Mi saluta, compitissimo, l'onorevole Sarti, democristiano, ex ministro, che non avevo mai né visto né conosciuto. Si siede vicino a me e mi rivolge alcune domande. Cerco di concentrarmi sugli interventi: sta parlando Manca, un terzo della platea applaude, molti fischiano. Passa Giolitti. Sarti commenta: "Sarebbe un presidente della Repubblica impeccabile". Penso che dica sul serio, ma mi accorgo che ha il gusto delle battute. Quando poco più tardi scambia quattro parole con il responsabile culturale del PSI, tornando al suo posto mi dice: "L'ho fatto per dovere d'ufficio. Lei non lo sa, ma dirigo la politica culturale della DC: mi creda, non ho proprio nulla da fare".

Magri, senza salutare, chiede a Giovanni Negri di accendergli una sigaretta. Più tardi lo incrocio e mi domanda se interveniamo per il discorso di saluto: gli rispondo che abbiamo incaricato di questo Giovanni, ma che non abbiamo ancora avuto risposta dalla presidenza del Congresso.

I compagni che rimangono al Palazzo dello sport attenderanno inutilmente che Giovanni sia chiamato per poter prendere la parola. Il saluto ai congressisti socialisti il PR l'ha dato attraverso un volantino distribuito all'ingresso.

Venerdì pomeriggio abbandono il Palazzo dello sport quando sento - dalla tribuna degli oratori - invitare il delegati "ad applaudire la compagna Magnani-Noya, che, a differenza di quei molluschi degli altri avvocati del processo delle BR, non ha aderito al documento sull'autodifesa".

La notizia di questo intervento giungerà alle orecchie degli avvocati che hanno sottoscritto l'eccezione di incostituzionalità. Alla ripresa del processo Fulvio Gianaria e Alberto Mittone, giovani avvocati del foro torinese, me ne chiederanno conferma, facendomi leggere una lettera inviata alla "Repubblica". In essa tutti i dodici firmatari, richiamandosi alle tesi di Leonardo Sciascia, riaffermano con fermezza le loro motivazioni, la dignità delle loro posizioni, la loro volontà come avvocati di difendere e garantire di diritti degli imputati, così come vuole la Costituzione: se questo significa "essere molluschi" non intendono fare nulla per non esserlo.

Il giorno seguente parto per Roma, dove è programmata una assemblea nazionale delle associazioni radicali. Ma lentamente, giorno dopo giorno, mi sento sempre un po' più distante dal partito, delle sue battaglie: è comprensibile, è ormai un mese che vivo soltanto di riflesso le vicende radicali. La situazione politica generale, invece, mi coinvolge più che mai, con la sua carica oppressiva. In Parlamento i deputatati radicali tentano a ogni piè sospinto di ottenere la convocazione della Camera per dibattere il caso Moro: ma è inutile, la maggioranza intende discutere qualsiasi argomento pur di non affrontare la questione.

Lunedì 3 aprile. Inizia l'interrogatorio degli imputati, o meglio quello che dovrebbe essere l'interrogatorio degli imputati. I giornalisti si accalcano nella parte dell'aula loro riservata, pronti a registrare le dichiarazioni. I "capi storici" delle BR appaiono tranquilli. Ancora oggi, a distanza di mesi, non sono riuscita a formarmi un'opinione circa i loro caratteri individuali: restano al massimo alcune sensazioni superficiali. Sono convinta ad esempio che abbiano sempre attentamente seguito il processo, calcolando scientificamente gli interventi, e mai, tranne in due o tre occasioni, sono intervenuti spinti da emozioni derivanti da fatti non previsti. All'inizio discutevano, spesso scherzavano, ostentando disinteresse per tutto ciò che li circondava, magari fingendosi immersi nella lettura dei giornali. Per due volte mi è accaduto di incontrarli nei corridoi del "bunker". I volti erano impassibili, gli sguardi di alcuni, nei miei confronti, parevano impregnati di ironica curiosità.

L'udienza si apre con il rituale tentativo di interrogatorio. Gli imputati si rifiutano di rispondere alle domande del presidente. A ruota libera invece intervengono Semeria, Franceschini, Ferrari, Curcio, Bertolazzi, Bassi, Ognibene. Denunciano le carceri speciali, il trattamento riservato ai prigionieri politici che vi sono rinchiusi, il trattamento riservato ai prigionieri politici che vi sono rinchiusi, le negazione del diritto del detenuto alla socialità, negazione che all'interno del carcere si realizza con l'isolamento e all'esterno con l'imposizione dei vetri divisori per i colloqui e il controllo della corrispondenza. I brigatisti annunciano l'avvio della lotta all'interno delle carceri e sostengono che "le BR trattano meglio i loro prigionieri politici". Franceschini esclama: "Noi a Sossi davamo i risotti". L'"arringa" continua: "Il reato che ci è contestato è politico, gli avvocati rappresentano i partiti, uno il PSI, altri due il PCI". Per quanto riguarda me, Franceschini sostiene che "i radicali

sono i pedalini di Cossiga", Bassi invece "si riserva di interrogarmi". Secondo i brigatisti i veri imputati sono avvocati e giuria. Mai si allontaneranno dal loro ruolo di "Antistato". Altri imputati, prendendo la parola, affermano che i giudici non possono essere "sopra le parti" poiché applicano una legge di classe (qualcuno urla anche: "Le vostre leggi sono il codice Rocco e la legge Reale"). La lunga "requisitoria" termina con le solite minacce: "Non ce l'abbiamo con i singoli individui, ma con la funzione che essi accettano di svolgere. Non si vengano poi a piangere i morti".

Tutto questo mi fa molto effetto, mi scuote soltanto una frase ripetuta più volte: "L'unico rapporto che ci può essere tra noi è di spararci in faccia". Al termine del lungo discorso gli imputati abbandonano l'aula lasciando come al solito tre "osservatori". Barbaro inizia allora la lunga lettura degli interrogatori resi in fase istruttoria: comincia la fase processuale della "grande noia". Da tutti questi atti si riesce a ricavare elementi sostanziali nuovi e capaci di incidere sul processo.

Martedì 4 aprile. C'è un nuovo comunicato degli imputati, il n. 13, che dimostrano di essere molto attenti non solo alla realtà del processo, ma ai fatti che si susseguono nel paese, traendone spunto di commento e di intervento puntuale. A proposito del trattamento che Moro subirebbe nel cosiddetto "carcere del popolo", argomento in questi giorni al centro dei commenti dei quotidiani, affermano:

...Parlando del presunto trattamento del prigioniero Moro, la stampa, contrariamente a quanto voleva far apparire nei mesi scorsi, ha dimostrato di conoscere e capire molto bene quale sia l'essenza, la funzione fondamentale dei carceri speciali.

Qui l'isolamento è permanente: non ha più l'alibi giuridico della "prova da non inquinare" ma quella militare della "sicurezza". E dietro quest'infame gioco di parole dei soliti "specialisti", i mesi d'isolamento diventano anni, condizione definitiva del prigioniero, nei cubicoli individuali e nei "piccoli gruppi". Nei fatti, l'attacco all'identità del proletario cosciente, la sua destabilizzazione psico-fisica, diventa pratica sistematica di annientamento.

La detenzione punitiva diventa così in realtà una misura di guerra, il paravento che dovrebbe nascondere l'esistenza dei nuovi campi di concentramento. E in questi campi applicate con metodo ogni vostra tecnica psico-fisica di annientamento. Ora la controrivoluzione, invece di limitarsi ad estesi massacri "dopo", agisce in modo strisciante e sistematico già da "prima", diviene controrivoluzione preventiva in ogni settore della società.

Ma per realizzare l'obiettivo dell'annientamento, non vi è sufficiente eliminare la socialità all'interno del carcere, dovete spingervi oltre: eliminare anche la socialità verso l'esterno. Così avete imposto i "colloqui" con vetro e citofono, il cui unico scopo è di eliminare i colloqui. E' un passo ulteriore del vostro programma, la cui cinica ferocia va dalle parole degli utili idioti come Trombadori e Corvisieri ai fatti dei silenziosi sicari di un Videla italiano. In questi giorni noi stiamo rifiutando questi cosiddetti "colloqui"...

...Vi sono dei casi in cui la violenza psicologica, inevitabile e necessaria nella VOSTRA visione della carcerazione, non è sufficiente a ottenere l'effetto voluto. Si tratta di quei casi in cui la dignità, la fierezza, il senso di responsabilità del prigioniero sono tali da non farlo cadere in una visione individualistica del mondo. Da un lato, egli non si piega, mantiene la sua identità politica, proprio perché dall'altro lato i compagni della sua classe non lo abbandonano come pescicani accecati dai loro gretti affari e giochi di potere. Allora, la "confessione" viene estorta mediante le cosiddette "pressioni fisiche"...

...Il fine della nostra guerra rivoluzionaria, il comunismo, è profondamente diverso e si manifesta necessariamente con mezzi diversi. I processi, i carceri del popolo, sono per i comunisti espressioni improprie che vengono prese dal vostro vocabolario, solo per arrivare a dimostrare l'abisso che nei principi separa il proletariato dalla borghesia nella sua pratica di lotta. Il processo, per noi, non è un "atto di giustizia", ma di lotta tra gli interessi antagonistici del proletariato e della borghesia, il momento in cui questa lotta assume la forma del confronto più generale davanti al popolo.

Per questo le "obiezioni" filistee che la borghesia porta in questi giorni al processo che nel paese si sta svolgendo contro la DC, non sono "attinenti", come usate dire, egregi signori. Non sono attinenti perché esse vorrebbero misurare la lotta fra le classi e le forme che essa assume, con il metro di una presunta legalità assoluta, "al di sopra delle parti". In realtà, voi cercate disperatamente di nascondere il carattere politico dello scontro; e per questo ricorrete "a questi mezzi meschini". Oggi le forze rivoluzionarie fanno crollare con la loro iniziativa anche la miserabile ipocrisia che si cela dietro l'uso, tanto amato dalla borghesia, di valori astratti quali "Giustizia", "Libertà", "Uguaglianza". La rivoluzione invece esprime sempre come valore concreto la lotta per la distruzione dell'apparato borghese, per la realizzazione degli interessi e dei bisogni del proletariato.

Di conseguenza, anche la carcerazione e non solo il processo, dal punto di vista proletario e comunista, è un esplicito atto di guerra contro una classe e non contro singoli individui; e viene inteso esclusivamente come momento di affermazione dell'interesse del proletariato.

Poiché in tal modo l'identità politica del nemico catturato dai proletari è esplicitamente riconosciuta, non vi è pertanto bisogno di reprimere l'individuo, né fisicamente né psicologicamente, calpestando la sua identità personale...

Terminata l'udienza fuggo velocemente al partito: torniamo a discutere della faccenda dei colloqui con i vetri divisori. Da tempo a Torino, nell'ambito della lotta contro le carceri speciali, i compagni ne avevano denunciato la disumanità.

5-6-7 aprile. Si passa all'interrogatorio degli imputati a piede libero. Ascoltiamo Levati, Borgna, Caldi, Carletti, Sabatino. I primi tre, un medico, un avvocato e un sindacaliste, fanno parte del cosiddetto gruppo di Borgomanero, in quanto vivono e lavorano in quella zona. L'imputazione è strettamente legata alla figura di Girotto, che continuerà ad aleggiare sul processo fino alla sua improvvisa e ben orchestrata comparsa, quando già lo si dava per disperso nonostante le "accurate ricerche" dei carabinieri di Dalla Chiesa.

Hanno imputazioni piuttosto gravi: organizzazione di banda armata il Lavati (è quello che procurò il colloquio di Girotto con Lazagna), partecipanti alla banda armata il Borgna e il Caldi. Oltre tutto sono incriminati per atti compiuti nei mesi di giugno-luglio '74: mi chiedo come si possa essere organizzatori e partecipanti a una banda armata clandestina, e quindi legata a regole e precauzioni ferree (almeno così si presume), per un periodo di soli trenta giorni. Gli indizi, perché tali restano, a carico di Borgna e di Caldi sono rappresentati dall'aver avuto colloqui con Girotto e dall'averlo messo in contatto con Levati. Per Levati gli indizi sono i colloqui con Girotto e l'aver messo in contatto quest'ultimo con Lazagna. Leggendo gli atti e il contenuto dei colloqui mi riesce difficile capire come si siano potuti attribuire loro reati di tale gravità: ragionando con la mente sgombra dalle responsabilità di un'inchiesta e senza tener conto né di voci o articoli di settimanali come il "Candido", le cui fon

ti sono quanto meno sospette, né di necessità od opportunità "politiche", al massimo si può pensare che vi siano labili indizi di eventuali "contatti".

Levati mi ha dato l'impressione di essere un po' confuso, e direi anche timoroso: il racconto da lui fatto circa la sua passata conoscenza degli imputati, i rapporti avuti con loro, il suo rapporto con Girotto, mi è parso assolutamente privo di reticenze e di opportunismo. A qualcuno è rimasto il dubbio non tanto che facesse parte del gruppo, quanto che conoscesse i canali per arrivare alle BR. Ma tutto ciò non costituisce necessariamente "partecipazione"; e poi, non è forse vero che il dubbio giuoca a favore dell'imputato?

Mi paiono completamente al di là di ogni sospetto il Borgna e il Caldi, che attraverso l'interrogatorio confermano una estrema ingenuità e leggerezza, ma nulla di più. Quando apprenderò della condanna del Levati e del Borgna (rispettivamente a sei e tre anni, insieme con l'interdizione dai pubblici uffici) resterò letteralmente sconvolta.

E' evidente: la caccia alle streghe scatenata nel periodo del rapimento Sossi non era andata per il sottile, c'era stato un generale rastrellamento nell'area dell'estrema sinistra. In questo clima era stata architettata, impiantata - da quando? - e condotta a termine l'operazione Girotto, certamente influenzata da esigenze politiche ed indirizzata a priori verso il gruppo di Borgomanero, esponenti del quale avevano avuto rapporti con "sinistra proletaria" prima che Curcio ed altri se ne staccassero scegliendo la via della clandestinità: alcune voci - fra le quali non a caso quella del settimanale "Candido" - li indicavano come vicini alle BR. In questa operazione è stato ancora una volta coinvolto Lazagna, combattente della Resistenza, vecchio militante del PCI anche se non più iscritto dal '72. Come Levati, Lazagna è già stato arrestato nel '72 nell'abito dell'inchiesta Feltrinelli. Rimesso in libertà, ma vincolato dall'obbligo di presentarsi alle autorità di Genova due volte alla settimana, con il telefono

sotto controllo, nel '74 l'indice accusatore di Silvano Girotto lo riconduce in carcere con l'imputazione di capo ideologico delle BR. Viene nuovamente rimesse in libertà dopo un anno di detenzione e una campagna di appelli, sottoscrizioni e petizioni in suo favore: da allora vive al confino a Rocchetta Ligure, dove per tirare avanti fa l'agricoltore. Le accuse di Girotto si basano su un colloquio di un'ora avuto con l'imputato, colloquio generico che non si è addentrato nello specifico della realtà politica e organizzativa delle BR, dallo stesso Lazagna criticate nel corso della conversazione. "E' incaricato del reclutamento" dirà Girotto.

Lazagna si presenta all'interrogatorio calmo e sereno. E' abbronzati, bianco di capelli, lo sguardo intenso e fermo. contesta tranquillamente le accuse di Girotto, ricorda che le sue attività sono sempre state pubbliche e negli anni dal '72 e '74 controllate dalla polizia. Ricorda poi le sue posizioni critiche nei confronti dell'attività politica e strategica delle BR, già note all'epoca del suo arresto. Difense nell'interrogatorio il diritto alle proprie idee e posizioni politiche, che sono quelle di un comunista che crede nella rivoluzione, afferma il diritto di denuncia e di opposizione rispetto alle ombre che offuscano la storia del nostro paese e della sua classe politica e dirigente. Non fa alcun tentativo di minimizzare la propria ideologia o di recedere dai propri princìpi per opportunismo processuale.

Il dubbio sul tentativo di "incastrare" attraverso l'operazione Girotto una vasta area della sinistra, montando il pericolo eversivo rappresentato dalle BR e tentando di collegarlo a varie personalità e aree del mondo della sinistra, si fa strada in alcuni componenti della giuria.

Nel corso dell'interrogatorio della Carletti ("nonna Mao", come affettuosamente è conosciuta a Torino) viene in evidenza l'assurdità delle accuse nei suoi confronti alla luce di quelli che sono la sua personalità e il suo passato. Piccolo, minuta e con enormi occhialoni, vive da anni dietro il suo banco a Porta Palazzo, attenta a tutto ciò che si muove a sinistra, vivendolo però, ancora oggi, con lo spirito, la psicologia e le reazioni con le quali ha vissuto la Resistenza, le persecuzione e le torture in un campo di concentramento: solo a partire da questa sua esperienza, che non può non averla segnata indelebilmente per tutta la vita, si può arrivare a comprendere i suoi comportamenti. La sua presenza nel processo, la spontaneità e franchezza, emerse non solo nell'interrogatorio ma durante tutto il dibattimento, sono state spesso un elemento di distensione utile a tutti.

Dopo l'interrogatorio della Carletti due o tre giuranti mi si avvicina pere scambiare alcuni giudizi di simpatia e di comprensione verso l'imputata. In particolare mi si avvicina uno dei due operai: tenta ancora di recuperarmi ad una dimensione di dialogo con il resto della giuria.

I miei rapporti con alcuni giurati sono infatti tesi, spesso non ci scambiamo alcuna parola. Questa situazione si è già determinata la prima volta che siamo entrati in camera di consiglio per decidere su un argomento importante. In quell'occasione, oltre a difendere con decisione il mio punto di vista, polemizzai con una parte della giuria per l'assenteismo nella discussione e l'atteggiamento di delega nei confronti dei due magistrati togati. Il giorno dopo tre giurato inviarono una lettera a Barbaro per chiedere che nelle riunioni in camera di consiglio non fosse consentito diritto di parola ai giudici popolari supplenti. Di fronte a questo tentativo di escludermi non solo dalle decisioni, ma anche dal dibattito, Barbaro ha invece auspicato, in modo tanto corretto quanto diplomatico, la moltiplicazione e la differenziazione delle posizioni in seno alla giuria. In quella stessa occasione ho avuto accenni fortemente polemici nei confronti di una giurata, una donna che si è assunta sin dall'inizio del processo

il ruolo di "mamma", sempre interessata ai malanni e alle beghe di ognuno, attenta a raddrizzare il fiocco della toga del presidente o la fascia tricolore degli altri giurati, preoccupata che "non si faccia brutta figura". Recupererò con lei, dopo giorni e giorni di silenzio e man mano che in lei crescerà tutta la drammaticità

di chi si rende conto di dover giudicare degli altri uomini, un rapporto reale e una dimensione di solidarietà.

Non sono riuscita, invece, a "legare" con le altre due donne, a parte qualche generico e reciproco approccio a discussioni sulle condizioni di vita, sulle difficoltà, sui momenti di emarginazione che ognuno di noi - in quanto donna - vive. Mi impressionerà, in seguito, il notare che quella delle due apparentemente più sensibile a questi temi si dimostrerà nei fatti molto influenzabile dai dati di "sapere" e quindi di "potere" maschili. L'altra mi pare viva molto lontano da tutto.

Cerco comunque di spiegare al mio interlocutore (iscritto comunista) che, ad esempio, non mi è facile discorrere con uno dei giurati che perde occasione per manifestare e tentare di contrabbandare una concezione assolutamente autoritaria, antigarantista e violenta dello Stato: quando proprio è inevitabile, la discussione non può che trasformarsi in scontro. Non mi riesce poi di giustificare il comportamento, fortemente passivo, di alcuni membri della giuria; e la loro eccessiva familiarità con un avvocato comunista che, al momento della discussione, ha fatto circolare voci calunniose nei confronti degli avvocati fautori dell'autodifesa. I suoi rapporti con alcuni giurati travalicano i limiti della correttezza: si adopera per organizzare alcune cene o serate comuni al Teatro Regio (il primo teatro di Torino). Per concludere, rassicuro questo compagno, col quale nonostante le divergenze politiche ho avuto per tre mesi un ottimo rapporto, che la mia volontà e disponibilità al dialogo non è venuta meno, né mai l

o verrà; ma ribadisco anche che il rigore e l'intransigente difesa di alcuni princìpi e norme di comportamento non possono essere messi da parte in nome di presunte e fittizie "solidarietà".

Mentre in aula si svolge l'interrogatorio della Carletti ("mi pare di essere ritornata ai tempi fascisti"), in Parlamento si svolge il dibattito sull'ordine pubblico: lo ascolto in diretta a Radio Radicale nel pomeriggio, e ne traggo conferma di una classe politica preoccupata di dare ancora una volta una risposta illusoria alle richieste e allo sgomento del paese senza affrontare i problemi e senza impostare il discorso ormai urgente di una diversa gestione dell'ordine pubblico.

Il problema, per la maggioranza, non è l'inefficienza della polizia (magari la riforma della polizia, oramai scomparsa dagli appuntamenti parlamentari), la disorganizzazione e le ambiguità dei servizi segreti, la necessità di chiarire i dubbi sempre più consistenti di coperture dirette o indirette al rapimento Moro, l'apertura di un dibattito su questo caso in Parlamento. No, per bocca di Preti (e non solo sua) si chiede che i giudici di Torino affrettino i tempi del dibattimento e pronuncino una condanna "esemplare". Le parole suonano come esplicita, insofferente critica verso i magistrati.

Ma come si permette - mi chiede - di venire ad anticipare ad una giuria un verdetto, come se non fossimo lì per giudicare in base a ciò che emerge, ma per recitare un copione già predisposto? Scrivo subito un comunicato:

Il presidente del Consiglio, l'onorevole Andreotti, che si è appellato ai giudici italiani affinché tutti processi si facciano e si facciano rapidamente (appello sul cui contenuto sono perfettamente d'accordo in linea di principio) non può che stupire. Per decine d'anni governi democristiani e ministri come Bonifacio si sono adoperati per l'insabbiamento di centinaia di processi nei quali erano coinvolti, per latrocinii o per stragi, gli uomini del regime. La responsabilità della situazione di sfascio in cui versa la Repubblica è di questo regime, che per trent'anni non ha attuato la Costituzione e ora si è presto al di fuori e contro di essa, e si prepara in Parlamento a rapinare nel giro di poche settimane i referendum dell'opposizione. L'appello rivolto ai giudici di Torino dall'onorevole Preti ("Fate in fretta e condannate") suona invece come vergognosa interferenza nei lavori della Corte d'assise. Questa classe politica la cui gestione dell'ordine pubblico ha sfruttato i risultati che abbiamo sotto gli

occhi, non si può permettere alcuna lezione ai cittadini di una Repubblica che essa sta portando allo sfacelo.

Arrivando al tribunale passo da Barbaro, che come sempre sta parlando al telefono con la moglie, e gli faccio leggere il comunicato. Quasi tutte le mattine ho uno scambio di opinioni con il presidente, sia sull'andamento del dibattito sia sul comportamento del "potere" nei confronti di questo processo. Spesso manifesta con me (ma non solo con me) intolleranza verso qualsiasi tentativo di ingerenza: rifiuta di rispondere alle telefonate provenienti dalla procura o dai ministeri o da Roma, non parla con i giornalisti. Sa che la responsabilità dell'andamento del processo grava su di lui ed è deciso a portarla fino in fondo in prima persona. Con quel modo paternalisticamente e ironicamente affettuoso, con il quale ogni tanto mi rivolge delle battute spesso provocatorie, Barbaro mi assicura che condivide il contenuto del comunicato e mi chiede: "Lei crede che passerà?". In effetti non passa.

 
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