di Adelaide AgliettaINDICE:
"Prefazione" di Leonardo Sciascia
Il coraggio della paura
Una città assediata
L'appuntamento con i violenti
Fiori in tribunale
Nel bunker
La prossima sarà Adelaide Aglietta
Giustizia per Giorgiana Masi, giustizia per il maresciallo Berardi
La strage di via Fani
La questione dell'auotodifesa
Il dibattimento è aperto
Tragedia nel paese, illegalità in Parlamento, noia in tribunale
Curcio: "Un atto di giustizia rivoluzionaria"
Frate Mitra
La campagna dei referendum: schizofrenia di una giurata
La parola è alle parti
La Corte si ritira, il mio compito è finito
Perché questo libro
SOMMARIO: Adelaide Aglietta, torinese, è entrata nel Partito radicale nel 1974. Dopo aver militato nel CISA per la depenalizzazione e la liberalizzazione dell'aborto e poi nel Partito radicale del Piemonte, è stata capolista radicale a Torino nelle elezioni del 20 giugno 1976. Nel novembre successivo è stata eletta segretaria del Partito radicale, carica che le è stata riconfermata per il 1978 al Congresso di Bologna. Estratta a sorte, nel marzo 1978, come giurata popolare nel processo di Torino alle Brigate Rosse, ha accettato l'incarico dopo che si erano verificati più di cento rifiuti da parte di altrettanti cittadini, consentendo così la celebrazione del processo.
Adelaide Aglietta è stata dunque il primo segretario di partito a partecipare ad una giuria popolare: il suo diario nasce da quest'esperienza al confine del lavoro politico e della vita privata, fra le tensioni e contraddizioni che il ruolo di giudice popolare, soprattutto in un processo politico, non può non creare.
Attualmente è deputata al Parlamento europeo.
("DIARIO DI UNA GIURATA POPOLARE AL PROCESSO DELLE BRIGATE ROSSE" - Adelaide Aglietta - Prefazione di Leonardo Sciascia - Milano Libri Edizioni - febbraio 1979)
LA CORTE SI RITIRA, IL MIO COMPITO E' FINITO
Venerdì 16 giugno. Mentre si dimette il presidente Leone, grazie al 43,7 per cento di sì sul finanziamento pubblico a non certamente al "tempestivo" intervento di Botteghe Oscure, a Torino siamo alle ultime battute processuali.
Questa mattina viene data lettura del documento unitario degli avvocati d'ufficio: ai dodici che avevano presentato l'eccezione di incostituzionalità, con molta minor credibilità e forza si sono ora aggregati gli altri sette, fra cui i tre avvocati comunisti e l'onorevole Magnani-Noya, che tanto avevano attaccato gli avvocati del "rinvio".
Il congedo dei difensori di ufficio presenta caratteri di assoluta novità: nessuna arringa, un lungo testo elaborato, a quanto si sa, in lunghe sedute notturne, una faticosa unanimità che sostanzialmente allinea le posizioni di tutti su quelle dei primi sostenitori dell'autodifesa. Ogni imputato ne ha ricevuto una copia. Le argomentazioni qualificanti non mancano:
E' giunto il momento del congedo quando le parti, tirate le somme dell'esperienza dibattimentale, espongono le loro idee, tesi o argomenti. Poi taceranno le varie voci e sarà la solitudine tremenda della Camera di consiglio dove i giudici, raccolti, decideranno del destino di uomini mentre, fuori nell'animo di ognuno si agiteranno ansie, timori e speranze.
Ma, sin qui, la solennità e l'emozione del rituale ripetono, pur con diversi gradi di intensità, quelle di ogni altro processo. La divergenza, per la singolarità del processo che non conosce precedenti (per quanto ne sappiamo) nella storia giudiziaria e certamente - di ciò non può dubitarsi - di portata e significato storico, sta nelle modalità del congedo. Quale ha da essere, in un simile processo, il ruolo giusto, la funzione autentica di una difesa di ufficio rispettosa della legge, della propria coscienza professionale e civica, della sua indipendenza?
E' ben conosciuta la posizione degli imputati detenuti: essi disconoscono la legittimità del vigente sistema statuale, intendono abbatterlo e pertanto si rifiutano a ogni contraddittorio e dialogo con i suoi organi rappresentativi. Di qui la contestazione del processo stesso visto come espressione di quello Stato che essi negano. Consegue che, contestato il processo, non possa che contestarsi anche una delle sue componenti e cioè il difensore da quello stesso Stato imposto.
Le conseguenze clamorose:
I sottoscritti difensori (salvo le eccezioni di cui si dirà) ritengono di non dover svolgere difese nel merito in favore dei singoli imputati per rispettare la identità politica di tutti e altresì per non rischiare di pregiudicare la posizione processuale di alcuno.
Noi, quali difensori, ci asteniamo, quindi, deliberatamente da qualunque tentativo metagiuridico; per noi deve valere solo il dato oggettivo di quella posizione, così da ricavare da essa le corrette conseguenze sostanziali e processuali.
Orbene, il primo rilievo che balza agli occhi è l'intransigente coerenza con la quale gli imputati detenuti hanno portato innanzi il proprio discorso ideologico, mantenuto nonostante la lunga e rigorosa detenzione (che essi non hanno perso occasione per denunciare come "speciale") cosicché è assolutamente fuori di dubbio la sicura autenticità di tale pensiero e di tale scelta difensiva. Perciò, sorge l'ineludibile esigenza di noi difensori di rispettare questi pensieri e scelte.
Ai giudici spetterà la valutazione; a noi occorre invece l'obbligo di impedirne e altresì di non favorirne (magari involontariamente) la manomissione e il travisamento.
Non solo, ma la coerenza da essi manifestata racchiude una indubbia dignità nella misura in cui attesta che non si sono mai piegati a strumentali, sempre fattibili, operazioni processuali per guadagnare un esito piuttosto che un altro. Se tanto avessero fatto si sarebbero trasformati da detenuti politici - prigionieri di guerra, quali si definiscono - in imputati comuni, abbandonando appunto sul terreno del processo la loro personalità.
Insomma, deve essere chiaramente compreso che per costoro l'accettazione del processo e quindi del difensore significherebbe necessariamente scendere a compromessi col sistema da essi contestato, ossia la negazione della loro identità. Un difensore, dunque, che non può, per difetto di mandato fiduciario e correlativa adesione ideologica alla loro "causa", trasmettere in modo autentico ed efficace il loro pensiero e non essendo quindi (e volgiamo aggiungere coerentemente) accreditato ambasciatore deve solo preoccuparsi di evitare comportamenti che possano in qualche modo contraddire ciò che l'imputato vuole apparire ed essere.
Concludendo, gli avvocati ribadiscono il punto di principio essenziale:
La verità è che noi processi contro detenuti "politici" l'imputato teme mano la condanna che la possibile perdita della sua coerenza ideale, in una parola della sua personalità, o quanto meno non è disposto, per guadagnare qualche anno di galera se non addirittura la liberazione, a pagare un simile prezzo.
In breve:
Il più sicuro attestato di democrazia e libertà di un ordinamento lo si trae proprio dalla misura in cui consente agli imputati "politici" la conservazione della loro personalità in ciò differenziandosi dagli ordinamenti autoritari dove le posizioni ideologiche sgradite vengono svalutate con mezzi vari sono anche all'irrisione (è pazzo!, si dice).
Credo che questo documento, che sintetizza la posizione processuale coerente tenuta dai difensori d'ufficio, rappresenti nel mondo giuridico un punto di arrivo e insieme di partenza in materia di regolamentazione dell'autodifesa: la prassi, in questo processo, ha anticipato il diritto. Bisogna dare atto che è stata per gli avvocati una esperienza umanamente e professionalmente sofferta, attraverso la quale hanno dato una lezione di serietà a una classe politica inefficiente e come sempre in ritardo, aprendo una strada nuova nel campo del diritto processuale.
Lunedì 19 giugno. In un silenzio assoluto e quasi commosso Lintrami, la Mantovani e Basone leggono il comunicato n. 19, sottoscritto da tutti gli imputati detenuti. Sono le uniche conclusioni e quindi anche l'unica difesa a chiusura del processo, tratte, come ovvio, dagli imputati stessi, per cui ritengo giusto affidarmi a questo documento.
1) Quando, nel maggio '76, questo processo ha iniziato la sua storia, voi avevate un progetto politico preciso ed ambizioso. Lo possiamo sintetizzare così: annientare la nostra identità politica e, quindi, sancire la sconfitta si un pugno di "criminali", tanto ricchi di illusioni e di velleità rivoluzionarie, quanto poveri di motivazioni comprensibili e di intelligenza storica. Il "capolavoro" del rinvio a giudizio di Caselli è tutto qui: cercare di dare corpo e sostanza a questo scheletro di ragionamento.
Caselli affermava:
"Il dispiegarsi di una nuova criminalità diffusa ed organizzata, che forma oggetto di analisi ormai tanto frequenti quanto ``ansiose'', trova nell'attività delle B.R. esempi significativi e quasi emblematici. Si può concedere che la violenza delle B.R. (come pure altre forme di ribellione alla legge) abbia radici inestricabilmente confuse con il nodo in cui è venuta sviluppandosi la società italiana. Troppo spesso però le ``radici'' della violenza vengono sublimate a ``cause'', quando non addirittura a ``scriminanti'' di esse: in realtà esperienze anche recenti dimostrano che nelle distorsioni del ``sistema'' italiano è possibile reagire efficacemente con mezzi legali. La violenza è la risposta di chi (a dispetto delle sue illusioni) è incapace di analisi veramente approfondite ed insofferente per una valutazione realistica dei dati di fatto, e quindi soggetto ai condizionamenti di un'impazienza avventuristica".
E' fin troppo evidente che, secondo Caselli, l'opposizione allo Stato, per essere "politica", e con ciò legittima e tollerata, non deve manifestarsi come antagonismo in atto. Cioè deve accettare di svolgersi interamente dentro al cerchio magico tracciato dalle leggi, dalle convenzioni, e dai codici di comportamento sociale "normale" stabiliti dalla classe dominante. L'alternativa, ogni alternativa, è CRIMINE!
Data questa premessa, si capisce allora perché la vostra preoccupazione fondamentale sia sempre stata, sin dall'inizio del processo, quella di svolgere contro di noi un "processo normale". Solo così, infatti, avreste potuto stravolgere la iniziativa rivoluzionaria in attività criminale e, così facendo, liquidare la nostra identità politica.
Se il processo, infatti, avesse assunto, anche solo parzialmente, una forma speciale, sarebbe diventato inevitabilmente chiaro che, quantomeno, eravamo "criminali speciali". E ciò avrebbe comportato di fatto un, sia pur modesto, riconoscimento politico. Ecco perché? Noi abbiamo sempre sostenuto che il processo "più normale" è di fatto anche il processo "più rivoluzionario".
2) L'unica cosa alla quale un combattente comunista non può rinunciare è la sua identità politica. Identità politica, per il militante rivoluzionario, significa prima di tutto PARTITO.
E' nei principi, nella strategia, nel programma, nella disciplina del Partito che egli autonomamente e liberamente si riconosce. Ed è affermando nella pratica della guerra di classe questo patrimonio proletario, che egli viene riconosciuto dal popolo, perché il partito rivoluzionario è l'espressione più alta della maturità, della coscienza, della organizzazione della classe. Nell'azione collettiva di partito, il combattente comunista afferma la sua identità; nella negazione di questa dimensione, lo Stato Imperialista cerca di distruggerla. Per questo motivo non non potevamo accettare il "processo normale" che ci volevate imporre: non potevamo "suicidare" la nostra identità politica. La nostra risposta poteva essere, come di fatto è stata, una sola: il processo guerriglia.
Col comunicato n. 1 del 17 maggio '76, la nostra iniziativa prendeva forma. Dichiaravamo allora:
"Questo tribunale ha un obiettivo ben più ambizioso della semplice criminalizzazione di alcuni militanti e della loro organizzazione. Esso intende colpire una tendenza storica, un programma strategico: la lotta armata per il comunismo...
"Ci proclamiamo pubblicamente militanti dell'Organizzazione Comunista BRIGATE ROSSE e come combattenti comunisti ci assumiamo collettivamente e per intero la responsabilità di ogni sua iniziativa passata, presente e futura.
"Affermato questo, viene meno qualunque presupposto legale per questo processo: gli imputati non hanno niente da cui difendersi, mentre, al contrario, gli accusatori hanno da difendere la pratica criminale antiproletaria dell'infame regime che essi rappresentano.
"Se difensori dunque devono esserci, questi servono a voi, egregie eccellenze. Per togliere ogni equivoco revochiamo perciò ai nostri avvocati il mandato di fiducia per la difesa e li invitiamo, nel caso fossero nominati d'ufficio, a rifiutare ogni collaborazione col potere. Con questo atto intendiamo riportare lo scontro sul terreno reale e per questo lanciamo alle avanguardie rivoluzionarie la parola d'ordine: PORTATE L'ATTACCO AL CUORE DELLO STATO!".
Il nostro rifiuto di assumere il ruolo di "imputati" e la conseguente ricusazione dei difensori, ha disarticolato profondamente il disegno che intendevate attuare.
Avete reagito tentando di imporci avvocati di ufficio, che sono diventati così veri e propri avvocati di regime, e cercando di stravolgere il significato politico della nostra azione, insinuando che fosse nostra intenzione paralizzare il processo.
Nel "comunicato n. 4" del 24 maggio '76, affermavamo perciò:
"E' importante fare ulteriore chiarezza sulla nostra decisione di rifiutare di essere, in qualunque modo, difesi da qualunque specie di avvocati. Con questa scelta abbiamo voluto affermare un principio estremamente chiaro: in qualunque processo l'avvocato ha la funzione di mediatore tra l'imputato e il giudice, è ``l'altra faccia'' del giudice. In un processo politico, questa funzione diventa ancora più palese, perché in questo caso si tratta di stabilire un terreno di mediazione fra la rivoluzione e la contro-rivoluzione. Con la dichiarazione del 17 maggio abbiamo capovolto i termini: noi, gli imputati, siamo diventati gli accusatori; voi, i giudici, siete diventati gli imputati. Per cui, da questo momento, ogni avvocato è diventato di fatto il vostro avvocato...
"Per questo, d'ora in pi, chiunque accetta il ruolo di avvocato d'ufficio deva andare ben oltre la collaborazione e diventare, di fatto, parte organica ed attiva della contro-rivoluzione. Oltre il difensore di fiducia, oltre il difensore d'ufficio, c'è ora necessariamente il difensore di regime...
"Chi ha creduto di vedere nella dichiarazione politica del 17 maggio un nostro avviso tattico per far saltare, o quantomeno rinviare, questo processo, non ha capito un questione fondamentale: non siamo noi ad aver paura della verità! Al contrario, siamo qui ben decisi a continuare, in quanto militanti comunisti combattenti, il processo proletario contro il regime che voi rappresentate, i suoi crimini ed i suoi criminali!".
L'otto giugno '76, sviluppando la parola d'ordina PORTATE L'ATTACCO AL CUORE DELLO STATO, le BRIGATE ROSSE giustiziarono il procuratore generale di Genova, Francesco Coco, con ciò procedendo nella "campagna" iniziata con la cattura ed il processo del giudice SOSSI, il cui scopo era quello di evidenziare, dietro la maschera democratica, il contenuto ferocemente controrivoluzionario dello Stato imperialista.
Con questa azione anche i rapporti di forza in aula si spostano decisamente a nostro favore. Con essa, inoltre, si realizza la saldatura strategica tra un'avanguardia rivoluzionaria che, per quanto imprigionata, ha la forza politica di mettere sotto accusa il tribunale di regime, ed il movimento rivoluzionario nel suo complesso.
In queste condizioni, il presidente della Corte ed i centri di potere di cui egli è espressione, valutano tatticamente conveniente rinviare il processo di qualche mese, in attesa di tempi migliori.
La sospensione del processo è la prima sconfitta politica del disegno controrivoluzionario che intendevate perseguire. L'aspetto essenziale di questa sconfitta sta nel fatto che con il nostro rifiuto di assumere il ruolo di imputati, con la gestione dell'azione COCO in aula, il carattere "speciale" del processo comincia a manifestarsi. Tuttavia, da questa sconfitta, voi speravate ancora di poterne uscire mantenendo inalterata la forma del "processo normale".
Nei mesi di sospensione, infatti, tutti i vostri sforzi sono tesi a precostituire un manipolo di avvocati, che sia disponibile ad accettare e sostenere fino in fondo il ruolo di "avvocati di regime".
Ma l'attacco offensivo e preventivo portato dalle BRIGATE ROSSE contro il presidente dell'Ordine degli avvocati, Fulvio CROCE, intorno al quale si imperniava la vostra manovra, ha fatto fallire anche questo ulteriore tentativo. A questo punto, risalta nettamente che questo non è certamente un "processo normale", ma che, a dispetto delle parole, è un PROCESSO POLITICO. L'impossibilità di costituire la giuria popolare ne è una prima clamorosa conferma.
Anche l'Esecutivo è costretto allora a scendere direttamente in campo, emanando, nel tempo record di una notte, il decreto legge sulla "carcerazione preventiva". E ancora una volta cercate di nascondere la verità insinuando che il nostro obiettivo sia quello di sabotare il processo, per consentire ad alcuni compagni di uscire in libertà. Il "comunicato n. 7" fa chiarezza su tutti questi problemi. In esso si afferma che:
"Il processo alla rivoluzione proletaria non è possibile. Voi stessi in questi mesi vi siete incaricati di dimostrarlo, mettendovi tranquillamente sotto i piedi ogni parvenza di legalità: avete trasformato le vostre ``aule di giustizia'' in vere e proprie roccaforti militari; avete preteso di imporci avvocati di regime, squallidi burattini nelle vostre mani; avete emanato leggi speciali che in un batter d'occhio hanno vanificato ogni traccia del vostro tanto sbandierato ``stato di diritto''.
"Così facendo, avete dimostrato nei fatti ad ogni proletario ciò che abbiamo sempre affermato: dietro le forme democratiche, lo Stato imperialista nasconde la sua vera natura di feroce dittatura controrivoluzionaria della borghesia. E questa è una vittoria della rivoluzione comunista! (...).
"Con l'azione CROCE non si è inteso, come tentate di far credere, raggiungere l'obiettivo di rinviare il processo. Non è certamente da voi che ci aspettiamo la nostra libertà (...). Essa invece ha realizzato l'obiettivo strategico di disarticolare il vostro piano preventivo, di neutralizzazione della nostra iniziativa. E, nello stesso tempo, ci ha restituito l'offensiva".
Alla ripresa, nel marzo '78, nessuna mistificazione è più possibile. Il carattere politico del processo è ormai dominante. Tutto sta a dimostrarlo: la mobilitazione politica "contro il terrorismo" organizzata dal PCI; la militarizzazione spettacolare di Torino voluta dall'Esecutivo; il tribunale alloggiato in una ex-caserma; la seconda legge speciale sulla "giustizia popolare", alla quale se ne aggiungerà presto una terza che, se per un verso avrebbe dovuto consentirci di tapparci la bocca a vostro piacimento, dall'altro costituisce un'ulteriore "interferenza" dell'Esecutivo, che annichilisce le ultime illusioni sulla autonomia della magistratura, tanto care a qualcuno in quest'aula; e, infine, gli avvocati di regime che, riconoscendo esplicitamente questo loro ruolo, si mettono da parte, riducendo la loro presenza in aula ad un puro dato coreografico.
Alla ripresa, nel marzo '78, appare chiaro che questo non è più un processo ma un argomento politico della guerra di classe; un episodio dello scontro più generale che oppone, in una lotta irreversibile, le forze della rivoluzione alla controrivoluzione imperialista. Ed è proprio su questo terreno generale, infatti, che ora si articola la battaglia.
In questi mesi il movimento rivoluzionario scatena la sua più dura e più ampia offensiva, che trova nel processo ad Aldo MORO la sua espressione più alta.
E' naturale, quindi, che anche lo svolgersi concerto delle udienze metta in luce, giorno dopo giorno, l'esistenza di un doppio potere, riflesso particolare nell'aula dello scontro di potere più generale che percorre il Paese. Sono i nuovi rapporti di forza complessivi tra le classi, tra il campo della rivoluzione e quello della controrivoluzione, e non la presunta tolleranza del giudice, che ci consentono di conquistare quegli spazi, che ci permettono di sviluppare il nostro attacco politico contro tutti coloro che anche dal fatto che, nel maggio '76, quando i rapporti di forze erano ben diversi, non solo ci veniva impedito sistematicamente di parlare, ma si giunse perfino a denunciarci per oltraggio.
Noi, qui dentro, mai abbiamo dovuto difenderci. Tutto ciò che è stato contestato all'Organizzazione Comunista BRIGATE ROSSE, di cui facciamo parte, è per noi titolo di merito. Ed infatti, ne abbiamo assunto apertamente la responsabilità politica collettiva. Affermare pertanto, come fanno nel documento conclusivo gli avvocati che avete tentato di imporci, che da parte nostra ci sarebbe stato un ricorso all'autodifesa, costituisce soltanto una macroscopica e mistificante giustificazione della funzione puramente coreografica che hanno recitato in quest'aula, ma non corrisponde certamente alla realtà dei fatti. Le "prove" che essi adducono, infatti, vale a dire le citazioni di brani o frasi tratte dai nostri interventi, sono così clamorosamente manipolate da far vedere, anche ai ciechi, l'intento bassamente strumentale dell'operazione.
L'attacco alle articolazioni del controllo e del dominio nelle grandi fabbriche (azioni contro i capi aguzzini, spie, fascisti,...); le perquisizioni nei covi dove si tramavano soluzioni golpiste al problema rappresentati dalla forza operaia (CRD, Centri Sturzo, UCID,...); la cattura di informazioni strategiche per l'ulteriore avanzamento della lotta di liberazione contro il lavoro salariato (Labate, Amerio,...); i processi rivoluzionari ai funzionari della controrivoluzione imperialista (Sossi,...); unitamente al lavoro politico quotidiano per ricostruire nel tessuto di classe la coscienza organizzata della necessità e della possibilità di dare una soluzione rivoluzionaria alla questione del potere, perché mai avrebbero dovuto costituire, di fronte a voi, che rappresentate, che siete i nostri nemici di sempre, motivo di difesa? Al contrario, è toccato a voi, agli esponenti della vostra classe, da Labate ad Amerio, da Sogno a Sossi, da Girotto a Beria d'Argentine - tutti coinvolti in più o meno losche vicend
e contro il proletariato - recitare la parte miserabile che la storia di questi anni gli ha assegnato e tentare un'impossibile difesa. Li abbiamo visti mentire, truccare le carte in tavola, trincerarsi dietro silenzi oscuri. Abbiamo osservato attentamente la rappresentazione della vostra disgregazione e non dimenticheremo.
Certo è quello che in origine doveva essere l "processo alla rivoluzione comunista" si è stravolto, cammin facendo, nel suo esatto contrario; è diventato cioè un'articolazione del processo più generale che le forze comuniste rivoluzionarie hanno condotto e continuano a condurre in tutto il Paese contro lo Stato imperialista ed il suo personale politico-militare.
Il suo svolgimento, come pure la sentenza, non dimostrano dunque - come i più stupidi cercano di far credere - una "vittoria dello Stato ed una sconfitta delle BR". Questo processo, infatti, non dovete mai dimenticare, si è svolto per una precisa scelta politica e militante delle forze rivoluzionarie. E questo non lo diciamo oggi, a cose fatte, tant'è vero che, ancora il 19 marzo, nel "comunicato n. 1", le BRIGATE ROSSE precisavano:
"Abbiamo già detto che il processo attraverso il quale un tribunale speciale vorrebbero liquidare la rivoluzione comunista non può essere una farsa. Ben altro processo è in atto nel Paese, è quello che vive nelle lotte del proletariato contro il nemico imperialista, che nello svilupparsi della guerra civile per la costruzione della società comunista, mette sotto accusa la borghesia ed i suoi servizi. Quindi, che la farsa inscenata a Torino si svolga pure, noi riaffermiamo quanto già i militanti della nostra organizzazione imprigionati hanno ampiamente ed efficacemente sostenuto: il rapporto che lega i comunisti combattenti ai tribunali speciali è uno solo: GUERRA!".
Ciò detto, potrete forse anche capire il significato profondo di un'affermazione ricorrente nei nostri comunicati:
"Il processo alla rivoluzione proletaria non è possibile. L'unico processo possibile è quello proletario contro lo Stato imperialista".
Oggi esiste, nel nostro Paese, un doppio potere: allo Stato imperialista si contrappone la presenza offensiva ed antagonistica del movimento di resistenza proletario. Tra questi due poteri che si affrontano non c'è però alcuna simmetria; essi sono espressione di classi antagonistiche, di interessi, bisogni ed aspirazioni inconciliabili.
E' falso quanto, in sostanza, afferma il diritto borghese, vale a dire la pretesa uguaglianza formale degli individui-cittadini. E' falso, perché sotto l'astrazione "i cittadini" agiscono ben precisi individui storici reali, per niente uguali, ma, invece, collocati in classi sociali tra loro antagonistiche. Il cittadino Agnelli ed il cittadino Basone, che faceva l'operaio nella sua fabbrica, ad esempio, che cosa hanno da spartire?
La società capitalistica non poggia, come voi sostenete, su individui-cittadini, fatti uguali tra loro nel diritto e ricomposti nei loro interessi dallo Stato. Questa è semplice ideologia. Appunto, ideologia del dominio di una classe: la vostra! Alla base della società capitalistica si affrontano precise classi sociali che stanno tra di loro in una relazione antagonistica di sfruttamento-espropiazione, dominio-subalternità, controrivoluzione-rivoluzione.
Lo Stato, la sua ideologia giuridica, il suo diritto, non sono altro che strumenti attraverso i quali la borghesia esercita la sua dittatura sul proletariato. Leggi e diritto non sono al di sopra del mondo degli uomini reali, non discendono dal cielo, ma molto più terrenamente sono armi in mano ad una classe per affermare i suoi interessi materiali e per combattere chi questi interessi, con le sue lotte pregiudica.
Voi dite: "la legge è uguale per tutti". E falso. Di fronte ad essa proletari e borghesi non sono affatto uguali. E' vero invece che voi imponete con la forza, con la violenza, le vostre leggi a tutta la società.
Ma noi, che in questa caserma non riconosciamo le vostre leggi, i vostri codici, la vostra autorità, dimostriamo che ciò che voi vorreste far apparire come ordine naturale delle cose è piuttosto un "ordine storico", transitorio, destinato a mutare ed a perire.
Caratteristica essenziale dello Stato è il suo essere "violenza concentrata ed organizzata". Ma tutto ciò deve essere coperto, mascherato, da un'azione capillare continua di mistificazione ideologica e propagandistica.
La simulazione opera a tutti i livelli dell'iniziativa contro-rivoluzionaria ed anche in questo processo, naturalmente, dove gli attori - giudici, PM, avvocati, giuria - si esibiscono in un gioco desolante: tentare di salvare le apparenze, a qualsiasi costo! Gioco desolante ma necessario, perché nel cosiddetto "Stato di diritto" solo la simulazione ideologica, che opera nel concetto basilare di "sovranità popolare", può consentire alla borghesia imperialista di tener celata alle masse la nuda realtà. Da dove viene il diritto? ci rispondete: dalla democrazia. E da dove viene la democrazia? ci rispondete: dal diritto. E allora noi vi chiediamo: da dove vengono entrambi?
A questo interrogativo diamo noi la risposta: vengono dalla classe dominante. Democrazia e diritto sono la formalizzazione politico-giuridica degli interessi di questa classe. E dunque, quello che voi chiamate "Stato di diritto" è soltanto una forma storica, specifica, della dittatura della borghesia.
Il potere proletario, al contrario, non ha bisogno di mistificare, di simulare, i suoi fondamenti. Le sue basi sono nella classe operaia, nei lavoratori produttivi, nel proletariato metropolitano, ed il suo interesse generale, vale a dire il suo scopo, è la trasformazione dei rapporti di produzione capitalistici, la creazione di una società comunista.
Il potere proletario sa di essere una forza organizzata e concentrata, ed aspira apertamente a diventare dittatura. Il suo esercizio da parte delle avanguardie comuniste combattenti, del movimento di resistenza proletario offensivo e delle lotte di massa, non è dunque riferito ad un'astratta giustizia, ma è il prodotto di un reale rapporto di forze nel processo di liberazione. Se quindi ogni forma di diritto è la codificazione di un rapporto di forza tra le classi, è conseguente, anche, che in quest'aula non vi sono né colpevoli né innocenti, ma semplicemente chi ha ragione e chi ha torto. E qui siamo noi ad avere ragione! Abbiamo ragione, perché siamo espressione della classe emergente e rivoluzionaria che, unica, col suo movimento, può portare a soluzione la contraddizione ormai esplosiva fra le forze produttive e rapporti di produzione.
Voi, tuttavia, dovete emettere una sentenza di condanna. Dovete farlo perché, per la classe che rappresentate, è necessario bloccare, annientare, il movimento storico reale che non ha rispetto per le vostre toghe, irride l'ipocrisia dei vostri rituali, non riconosce le vostre leggi e non teme le vostre armi. Dovete farlo, anche se in quest'epoca di rivoluzione sociale, a nulla serve condannare singoli militanti, per fermare un processo che è il risultato di uno scontro profondo fra le classi.
Per fare questo, siete costretti a fondare la vostra sentenza - mancandovi perfino quelle che voi chiamate "prove certe" - sul concetto indeterminato di "nucleo storico".
Sarebbe, come ci ha spiegato il PM, l'appartenenza a questo "nucleo storico" a "inchiodare" alcuni di noi; a dimostrare cioè la partecipazione a tutte le azioni dell'organizzazione! perché, si sa, nelle BR "tutti fanno tutto".
Il PM è quello che è, ed già molto che sia riuscito a svolgere un ragionamento così elementare. Ma, a parte il PM, anche gli allocchi capiscono, senza troppa fatica, che si tratta di un "ragionamento" senza fondamento, perché quello che è stato indicato come "nucleo storico", è semplicemente il primo nucleo di compagni che vi è capitato di arrestare. Sono stati i carabinieri e Caselli (che poi è la stessa cosa) a trasformare questi compagni arrestati prima in "colonnelli" e, successivamente, in "nucleo storico". Ma quanti e quali sono i compagni che sin dall'inizio hanno militato nelle BR? La verità è questa: voi non siete mai riusciti a capire, e perciò a ricostruire, la genesi, la storia delle BRIGATE ROSSE, né politicamente (come diremo in seguito) né tantomeno sul terreno dell'organizzazione.
Anche in quest'aula avete fatto ogni sforzo per non capire, solo preoccupati di arrivare alla fine. E così il fenomeno che vi travolgerà resta per voi un mistero, un fantasma al quale, tanto per liberarvi dall'incubo, avete cercato di dare una facciata di comodo.
Troppe sono le banalità ed i luoghi comuni raccattati tra le veline dei carabinieri, che infrangono l'istruttoria del giudice istruttore e la requisitoria del PM per ricordarle tutte; e comunque troppo noiosa per tutti sarebbe un'escursione di tal genere in quei cimiteri dell'intelligenza. Perciò, con maggior generosità di quanto non ne abbia avuta Moschella, ve ne facciamo grazia. Ma che sia così non potete nasconderlo, perché è la continuità e la forza in continuità crescita dell'organizzazione di cui facciamo parte, che ve lo impedisce. La verità è che, fondando la vostra sentenza sulla nostra partecipazione a quello che chiamate "nucleo storico", siete costretti a condannarci "per ciò che siamo politicamente", perché siamo comunisti rivoluzionari; e questa, egregie eccellenze, è una nostra ulteriore vittoria, perché, così facendo, siete infine costretti ad ammettere ciò che più di tutto avreste voluto nascondere: la nostra identità politica.
3) Da dove sono nate dunque le BR? E' una domanda ossessiva, alla quale la borghesia, le sue varie "teste d'uovo" e lo stesso GI, per non parlare del PM, non hanno saputo dare una risposta. E' però una risposta decisiva, e dunque dobbiamo fare chiarezza. Da dove vengono allora le BR? Sono un'emanazione dei servizi segreti ed internazionali, di destra o di sinistra?
Sono il prodotto del volontarismo fanatico di alcuni intellettuali, e cioè il prolungamento senile ed armato di un manipolo di irriducibili del '68? Sono gli ultimi orfanelli si Stalin, traditi dal compromesso storico e nostalgici di un'impossibile rivoluzione? Sono un'aggregazione di individui socialmente devianti, disadattati, con accentuate tendenze criminali? Sono il prodotto abnorme e mostruoso della crisi economica più devastante che ha investito il sistema capitalistico in questi ultimi trent'anni? No!
Le BRIGATE ROSSE non nascono né all'Ufficio Affari Riservati, né a Mosca, né a Washington, e neppure all'università di Trento, o alla Federazione del PCI di Reggio Emilia.
Le BRIGATE ROSSE nascono molto più semplicemente, all'inizio degli ani '70, dai reparti avanzati dalla classe operaia, come embrionale soluzione del BISOGNO STRATEGICO di mantenere l'offensiva nelle nuove condizioni politiche, caratterizzate dal violento e sanguinoso contrattacco che la borghesia andava organizzando.
In particolare, le BRIGATE ROSSE nascono alla fabbrica Pirelli di Milano. Questo non a caso, perché proprio la classe operaia della Pirelli rappresentava in quella fase i più alti livelli di coscienza politica e di autonomia, maturati dalla lotta di massa del biennio '68-'69; e perché, proprio nel '70, questa classe operaia, decisa a mantenere l'offensiva, fu costretta ad elaborare nuove linee di combattimento e nuove forme organizzative. In un documento del marzo '71, in cui si tracciava un bilancio della lotta alla Pirelli, scrivevamo:
"La fase che lo scontro tra le classi oggi attraversa, noi riteniamo sia quella della conquista degli strumenti di organizzazione e di accumulazione delle forze rivoluzionarie capaci di reggere lo scontro e di preparare l'offensiva di fronte al progredire di un movimento di reazione, articolato fino al limite della controrivoluzione armata; e cioè dal passaggio necessario dalla risposta spontanea di massa, anche se violenta, all'attacco organizzato, che sceglie i suoi tempi, calcola la sua intensità, decide il terreno, impone il suo potere".
L'offensiva operaia, culminata nel ciclo di lotte '68-'70, aveva modificato sostanzialmente i rapporti di forza tra le classi, mettendo conseguentemente in crisi le strutture politiche ed istituzionali che, nel dopoguerra, avevano caratterizzato la forma dello Stato.
Tra gli effetti di questo ciclo di lotte, quello più devastante è stato la CRISI POLITICA ED ISTITUZIONALE che ha caratterizzato gli anni '70 e che è tuttora irrisolta.
La lotta operaia ha dovuto così misurarsi con il progetto di ristrutturazione che la borghesia andava elaborando, nel tentativo di risolvere questa crisi. Progetti che implicavano tanto l'organizzazione del lavoro in fabbrica con l'obiettivo di riconquistare, almeno in parte, il terreno perduto, quanto la forma dello Stato, messa in discussione dalla richiesta di potere delle masse. La crisi economica mondiale, che a partire dal '74 sconvolge l'area imperialista nel suo complesso, innestandosi sulle contraddizioni irrisolte del nostro Paese, funziona da moltiplicatore della crisi politica già in atto. E gli effetti sociali della crisi economica, vale a dire riduzione della base produttiva, abbassamento dei salari reali, disoccupazione, emarginazione, non fanno che approfondire le condizioni oggettive e sviluppare le condizioni soggettive che favoriscono un ulteriore salto di qualità del processo rivoluzionario. Le BRIGATE ROSSE non sono quindi il prodotto della crisi economica. Non nascono cioè su un'ipotesi
tattica e difensiva, ma in quanto espressione politica e prolungamento dell'offensiva proletaria, rappresentano, all'interno della crisi, un elemento strategico di coagulo per tutte quelle forze e quei settori di classe, che possono risolvere la loro condizione solo dando uno sblocco rivoluzionario alla crisi.
A questo punto è importante fare una considerazione di ordine generale. Le teorie sociali rivoluzionarie, le organizzazioni rivoluzionarie nascono e si affermano solo quando esprimono un bisogno profondo delle classi sociali che le generano. Questa è una legge scientifica dello sviluppo storico.
Come afferma il compagno Stalin: "Le idee e le teorie sociali nuove sorgono solo quando lo sviluppo della vita materiale della società pone di fronte alla società compiti nuovi. Se delle teorie sociali nuove sorgono è perché esse sono necessarie alla società, perché senza la loro azione organizzatrice, trasformatrice, mobilizzatrice, è impossibile la soluzione dei problemi urgenti posti dallo sviluppo della vita materiale della società".
Che le BRIGATE ROSSE siano l'espressione organizzata di questa necessità storica, lo dimostra chiaramente il fatto che, nonostante la debolezza iniziale delle forze, i limiti soggettivi, gli errori compiuti e l'attacco globale portatoci dallo Stato, dalle organizzazioni revisioniste e neorevisioniste e più in generale dall'internazionale controrivoluzionaria, non solo sul piano militare, ma anche sul terreno ideologico e politico, noi ci siamo sviluppati, abbiamo esteso la nostra presenza nei maggiori poli proletari del Paese, abbiamo maturato la nostra capacità politica e militare.
4) Le BRIGATE ROSSE non sono una "banda armata". Fin dal loro sorgere esse di caratterizzano come organizzazione politico-militare, primo elemento di coagulo delle avanguardie proletarie per la costruzione del Partito Comunista Combattente.
Tutta la loro pratica, negli otto anni della loro storia, lo dimostra ampiamente. E ciò si riflette con estrema chiarezza anche nei documenti politici. Nell'intervista del marzo '71, si affermava:
"Le BR non sono ``organismi militari'' ed è completamente estraneo al nostro stile di lavoro dividere gli ``organismi politici'' dagli ``organismi militari''. Il principio da altri formulato che deve essere la politica a guidare il fucile è da noi inteso e praticato in un senso preciso, e cioè sollecitando in ogni compagno ed in ogni nucleo di compagni un approfondito chiarimento politico a guida, fondamento e scelta del proprio comportamento rivoluzionario, all'occorrenza anche militare".
Nell'intervista del settembre '71, ribadivamo:
"Le BR sono i primi punti di aggregazione per la formulazione del partito armato del proletariato. In questo sta il nostro collegamento profondo con la tradizione rivoluzionaria comunista del movimento operaio".
Tradizione che, lo ricordiamo, ha sempre sostenuto la tesi scientifica secondo cui gli affari militari non sono che la politica in particolari circostanze. La guerra è il prolungamento della politica. In questo senso, la guerra è politica. La politica, in altri termini, è una guerra senza spargimento di sangue. I due termini, guerra e politica, nel movimento reale della lotta di classe sono inestricabilmente connessi, e non possono, in nessun caso, essere separati. Nelle condizioni oggettive che definiscono l'imperialismo delle multinazionali, questa tesi assume un rilievo strategico e centrale, poiché la lotta di classe tende progressivamente ad assumere il carattere della guerra di classe. Anche il processo di costruzione del Partito non può sfuggire a queste precise determinazioni, per cui esso, sin dal suo sorgere, deve assumere la forza di un'organizzazione politico-militare.
Nell'intervista del gennaio '73, sviluppando questa tesi, affermando che:
"Noi crediamo che l'azione sia solo il momento culminante di un vasto lavoro politico, attraverso il quale si organizza l'avanguardia proletaria, il movimento di resistenza, in modo diretto rispetto ai suoi bisogni reali ed immediati. In altri termini, per le BR l'azione armata è il punto più alto di un profondo lavoro di classe: è la sua prospettiva di potere".
E più avanti:
"Il problema che dobbiamo risolvere è quello di fare alle spinte rivoluzionarie che vengono dal movimento di resistenza una dimensione di potere. Si richiede per questo uno sviluppo organizzativo a livello di classe che sappia rispettare i livelli di coscienza che vi operano, ma sappia nello stesso tempo unificarli e farli evolvere nella prospettiva strategica della lotta armata per il comunismo. Le BRIGATE ROSSE sono i primi nuclei di guerriglia che operano in questa direzione. Per questo intorno ad esse vanno organizzandosi i militanti comunisti che pensano alla costruzione del Partito armato del proletariato".
Gli stessi temi venivano ripresi ad approfonditi nella Risoluzione Strategica dell'aprile '75:
"La guerriglia urbana organizzata il ``nucleo strategico'' del movimento di classe non il ``braccio armato''. Nella guerriglia urbana non ci sono contraddizioni tra pensare ed agire militarmente e dare il primo posto alla politica. Essa svolge le sue iniziative rivoluzionarie secondo una linea di massa politico-militare.
"Nell'immediato l'aspetto fondamentale della questione rimane la costruzione del Partito Combattente, come reale interprete dei bisogni politici e militari dello strato di classe oggettivamente rivoluzionario e l'articolazione di organismi di combattimento a livello di classe sui vari fronti della guerra rivoluzionaria".
Infine, nella Risoluzione Strategica del febbraio '78:
"Per trasformare il processo di guerra civile strisciante, ancora disperso e disorganizzato, in un'offensiva generale diretta da un disegno unitario, è necessario sviluppare ed unificare il movimento di resistenza proletario offensivo costruendo il Partito Comunista Combattente. Movimento e Partito non vanno però confusi: tra essi opera una relazione dialettica, ma non un rapporto di identità. Ciò vuol dire che è dalla classe che provengono le spinte, gli impulsi, le indicazioni, gli stimoli, i bisogni che l'avanguardia comunista deve raccogliere, centralizzare, sintetizzare, rendere teoria ed organizzazione stabile e, infine, riportare nella classe sotto forma di linea strategica di combattimento, programma, strutture di massa del potere proletario.
"Vuol dire che il processo corretto che dobbiamo seguire parte dalla classe per arrivare al Partito e parte dal Partito per ritornare ancora, sotto forma più matura, alla classe. Il Partito Comunista Combattente, prima che una struttura organizzativa, è un'avanguardia politico-militare, che è realmente davanti a tutti, che traccia la via da percorrere per tutto il movimento, che sa farsi riconoscere per mezzo della sua iniziativa rivoluzionaria dalla parte più avanzata del proletariato.
"Agire da Partito vuol dire collocare la propria iniziativa politico-militare all'interno ed al punto più alto dell'offensiva proletaria, cioè sulla contraddizione principale e sul suo aspetto dominante in ciascuna congiuntura ed essere così di fatto il punto di unificazione del movimento di resistenza proletario offensivo, la sua prospettiva di potere. Per questo è importante condurre nel movimento di resistenza proletario offensivo una lotta ideologica e politica contro le tendenze economiciste-spontaneiste, che sfociano nel minoritarismo armato e, paradossalmente, nel militarismo. E contemporaneamente, contro quelle tendenze burocratico-minoritarie, che concepiscono la costruzione del Partito Comunista Combattente come un processo di pura crescita organizzativa, che si svolge al di fuori del movimento della classe, separato da essa.
"Agire da Partito vuol dire anche dare all'iniziativa armata un duplice carattere. Essa deve essere rivolta a disarticolare e a rendere disfunzionale la macchina dello Stato e, nello stesso tempo, deve anche proiettarsi nel movimento di massa. Essere indicazione politico-militare per orientare, mobilitare, dirigere ed organizzare il movimento proletario di resistenza offensivo verso la guerra civile antimperialista.
"Strategicamente è tanto importante distruggere gli organi centrali dello Stato, quanto distruggere le sue articolazioni particolari che percorrono tutto il corpo sociale.
"Strategicamente è tanto importante costruire una capacità organizzata e centralizzata di esercitare il potere proletario, quanto costruire le sue articolazioni all'interno della classe operaia e del proletariato nelle fabbriche, nei quartieri, dappertutto.
"Per questo non c'è contraddizione tra linea di massa e ruolo di avanguardia, non c'è dicotomia tra una politica di movimento e l'azione armata. Le B.R. non sono il Partito Comunista Combattente ma un'avanguardia armata che lavora all'interno del proletario metropolitano per la sua costruzione.
"Mente affermiamo che non c'è identificazione tra le B.R. ed il Partito Combattente, affermiamo con uguale chiarezza che l'avanguardia armata deve agire da Partito sin dal suo nascere.
"Il processo di costruzione politica, programmatica, e di fabbricazione organizzativa del Partito Comunista Combattente è un processo discontinuo, dialettico, prodotto cosciente di un'avanguardia politico-militare che, nel complesso fenomeno della guerra di classe, afferma la validità della prospettiva strategica e del programma comunista che sostiene, e l'adeguatezza dello strumento organizzativo necessario per realizzarlo. Si pone quindi come punto di riferimento essenziale, come ``nucleo strategico'' del Partito Comunista Combattente in costruzione, sin dal suo nascere".
Fatte queste necessarie precisazioni, si capisce perché MAI le BRIGATE ROSSE sono state una "banda armata". Al contrario, esse hanno sempre condotto, all'interno del movimento proletario, una lotta politica ideologica contro tutte le tendenze militariste, inevitabilmente portate a degenerare nel "terrorismo". L'assenza del terrorismo, infatti, sta proprio nella separazione meccanica del politico dal militare; nel restringere all'azione militare, alla quale si attribuisce un potere taumaturgico e della quale si esalta l'esemplarità, l'intelligenza pratica dell'avanguardia.
Di conseguenza, il gruppo terroristico, proprio perché volontariamente ignora i compiti fondamentali di direzione, mobilitazione ed organizzazione del proletariato, nella prospettiva della conquista del potere, si pome come "strumento", vale a dire si adatta a svolgere un ruolo necessariamente subalterno ad un qualche disegno politico.
Ma che hanno allora in comune le BRIGATE ROSSE con un gruppo terroristico? Nulla, assolutamente nulla! Perché dunque la borghesia imperialista cerca di cucirci addosso quest'immagine; cerca cioè, utilizzando ogni strumento - dai mass media alle vostre requisitorie - di mimetizzare la nostra effettiva identità politica? Con tutta evidenza l'obiettivo principale della sua campagna di guerra psicologica è quello di dividere la guerriglia dalle masse, confezionandone e diffondendone un profilo di comodo, che le fa apparire come il prodotto dell'iniziativa privata, ed oscura nelle sue motivazioni e nei suoi fini, di un gruppo di "terroristi".
La classe dominante sa bene, però, quando - riferendosi alle B.R. - parla di "terrorismo", di trovarsi invece di fronte ad un movimento rivoluzionario reale con profonde ed inestirpabili radici di classe. Anzi, lo sa così bene, che alla sua propaganda, pur condotta secondo le tecniche della guerra psicologica, lega sempre indissolubilmente una ben più consistente azione militare - questa sì terroristica - nei confronti dei reparti avanzati del proletariato metropolitano.
Ed è proprio questa strategia articolata della risposta controrivoluzionaria il più esplicito riconoscimento nei fatti che le BRIGATE ROSSE non sono, come vuol far credere la propaganda di regime, un gruppo "terroristico", una "banda armata", ma un'avanguardia politico-militare del proletariato metropolitano, che si muove nella prospettiva della costruzione del Partito Comunista Combattente, della conquista del potere e dell'instaurazione della dittatura del proletariato.
1) Il vostro obbiettivo principale in questo processo, lo ricordiamo ancora una volta, era la distruzione della nostra identità politica. Non ci siete riusciti; l'obiettivo è fallito, e tuttavia la partita è ancora aperta. Perché la sentenza non è l'ultimo atto, e la battaglia continua su un nuovo terreno: le carceri speciali.
Quel risultato che non vi è riuscito di ottenere in questa caserma, ora si incaricheranno di rincorrerlo le vostre controfigure all'Asinara, a Fossombrone, a Trani, a Cuneo, a Messina, e via dicendo.
Voi passate la mano, e la catena di smontaggio della forza comunista prosegue il suo cammino in un altro reparto speciale, di questa gran fabbrica di controrivoluzione, che è lo Stato imperialista.
Ma su questo cammino, anche nel nuovo reparto, troverete ancora al fianco dei comunisti rivoluzionari, un intero strato di classe; troverete cioè migliaia di proletari che hanno acquisito coscienza nelle galere e che con le loro lotte hanno contribuito a mettere in crisi il sistema carcerario. Anche la lotta rivoluzionaria segue il suo corso, egregie eccellenze, e pur affrontando il presente con decisione sempre maggiore, non dimentica il passato. Statene certi!
2) E' ormai un anno che esistono le "carceri speciali". Un anno in cui, dopo il primo disorientamento, i proletari prigionieri, insieme alle organizzazioni comuniste combattenti, hanno imparato a vivere, a muoversi, a lottare anche su questo terreno.
Nel luglio '77, con il trasferimento di massa in questi lager di migliaia di avanguardie, si apre all'interno delle carceri un periodo di sbandamento politico. La ristrutturazione cancella gli spazi conquistati nelle lotte degli anni precedenti e la risposta dei proletari prigionieri resta imbrigliata nella ricerca generale, ma inizialmente confusa, di contenuti e di forme di lotta adeguate, che consentano la ripresa del movimento di resistenza. Nascono le prime manifestazioni spontanee di protesta, che si esprimono principalmente attraverso scioperi della fame collettivi.
Questi scioperi, se da un lato testimoniano una generica volontà di lotta, dall'altro denunciano i gravo limiti politici in cui si muovono i prigionieri e cioè: mancanza di un'analisi approfondita delle "carceri speciali", della loro funzione nella nuova fase della guerra di classe; incapacità di definire un programma offensivo, una linea di combattimento adeguata, forme di lotta opportune.
Sulla debolezza del movimento all'interno, si innesta il tentativo di alcune forze democratiche e neo-revisioniste di canalizzare la protesta su un terreno difensivo, pacifico e legalitario. Questi tentativi, tuttavia, hanno vita breve. I proletari prigionieri dei campi comprendono rapidamente l'inutilità e l'inadeguatezza delle forme di lotta adottate, le autocriticano, e cominciano a porre i problemi nella loro dimensione reale.
L'analisi dei campi viene approfondita e porta a queste fondamentali conclusioni:
- la lotta "interna" non può essere disgiunta dall'azione "esterna" delle organizzazioni comuniste combattenti, poiché il problema dei campi investe l'intero movimento rivoluzionario, e non è un problema particolare, specifico, dei proletari che vi sono rinchiusi;
- la resistenza all'annientamento deve avere un carattere offensivo, e cioè tendere a costruire nuovi rapporti di forza, attraverso l'organizzazione e la mobilitazione del proletariato prigioniero, per disarticolare e sabotare, con sempre maggiore incisività, queste strutture, muovendosi sulla linea strategica dell'attacco ai centri vitali dello Stato imperialista.
Sono acquisizioni importanti che consentono un salto di qualità decisivo. Se ne ha una prova, con il tentativo di evasione da Favignana, che segna il punto di svolta da una linea difensiva ad una prospettiva offensiva. La beffa astuta, organizzata da un nucleo di compagni, con la collaborazione della massa dei detenuti, se indica e sottolinea l'importanza di attacchi che aprono e divarichino le contraddizioni politiche latenti nel campo nemico, ancor più dimostra che il mastodontico apparato delle "carceri di massima sicurezza" si regge sul fragile presupposto che nessuno osi portare un attacco militare duro, di guerra!
Altro episodio importante, in questa fede, è la lotta dei prigionieri del campo di Nuoro, che si salda, per la prima volta, con iniziative politiche di massa all'esterno e trova il suo completamento più maturo negli attacchi armati sistematici contro le strutture e il personale di sorveglianza.
La maggior consapevolezza raggiunta dal proletariato prigioniero inoltre, si proietta anche all'esterno del movimento di resistenza proletario offensivo. La parola d'ordine "portare l'attacco al potere carcerario" in quanto articolazione di guerra dello Stato imperialista, diventa un punto qualificante del processo unitario in corso tra le avanguardie combattenti, e si traduce in obiettivi che gli attacchi armati e il movimento di massa cominciano a colpire.
Anche questa seconda fase è però attraversata da una contraddizione politica di fondo che frena lo sviluppo del movimento di lotta dei proletari prigionieri. Si tratta della mancanza di un "programma", di un vuoto di tattica, pur nella sempre più nitida coscienza dei passaggi strategici essenziali. Questa mancanza di programma di manifesta, in primo luogo, nella episodicità e frammentarietà dell'iniziativa interna, e si riflette nella genericità e dispersione degli obiettivi che il movimento attacca all'esterno. Il rischio più grave che si corre in questa fase è uno sviluppo puramente quantitativo, che non sa cogliere i passaggi tattici necessari a far compiere gli indispensabili salti qualitativi.
L'azione Palma chiude questa fase e ne apre una nuova. L'aspetto positivo di questo attacco consiste, prima di tutto, nella assunzione da parte delle Brigate Rosse di questo terreno di scontro e nella sua unificazione dentro un disegno strategico.
In secondo luogo, la qualità politica ed il livello militare cui viene portato l'attacco sono tali da consentire un effettivi, anche se iniziale, spostamento dei rapporti di forza, in modo che possibilità nuove si aprono per una crescita qualitativa del movimento di lotta dei proletari prigionieri. La lotta che abbiamo iniziato nel "braccio speciale" delle Nuove, qui a Torino a partire dal mese di marzo, è a suo modo emblematica di questa nuova fase. Infatti, intorno ad essa, si ricostruisce l'unità del proletariato prigioniero e non, e si articola un programma di congiuntura, che nel "comunicato n. 14" viene così esposto:
"Il programma strategico dell'Organizzazione Comunista Combattente Brigate Rosse nelle carceri è preciso: liberazione di tutti i proletari e distruzione di tutte le galere. Ciò non significa però un'assenza di iniziativa sui problemi immediati. L'abolizione del trattamento differenziato per tutti i prigionieri dei campi è il compito più urgente. Esso comprende:
"L'eliminazione dell'isolamento individuale e di gruppo, che significa: conquista di spazi di socialità all'interno; lotta contro ogni tentativo di distribuzione dell'identità politica e personale dei prigionieri; autodeterminazione della composizione delle celle; ore d'aria e di vita collettiva, ecc.
"L'abolizione dell'isolamento verso l'esterno, vale a dire l'eliminazione dei vetri divisori a colloquio, del blocco dell'informazione e della corrispondenza, ecc.
"Questo è il programma immediato di lotta che le Brigate Rosse propongono per le ``carceri speciali'' a tutti i proletari.
"L'intera Organizzazione lo porta avanti come articolazione, sul fronte delle carceri, della propria linea strategica di attacco allo Stato. E' necessaria su questo punto molta chiarezza; ciò che proponiamo non è il terreno della trattativa, della rivendicazione sindacale, ma la concretizzazione, attraverso la lotta, dei rapporti di forza che già sono maturati a livello generale [...]".
Noi, comunisti rivoluzionari delle Brigate Rosse sapremo essere in prima linea nel nuovo ciclo di lotte contro l'organizzazione carceraria del potere dello Stato. Saremo in prima linea dentro e fuori le carceri "speciali" e "normali". Dentro: per la crescita politica del proletariato prigioniero attraverso la lotta; per organizzare e sviluppare l'iniziativa rivoluzionaria nelle infinite forme che la creatività proletaria sa disegnare; per la conquista del programma immediato; per porre le basi più solide all'affermazione del programma strategico; per l'unità del proletariato metropolitano nel movimento di resistenza proletario offensivo e dei comunisti nel Partito Comunisti Combattente.
Fuori: per attaccare, a partire dai loro gangli vitali, le articolazioni fondamentali del potere carcerario, al fine di creare disfunzioni in questo apparato di guerra controrivoluzionario, incepparlo; e contemporaneamente demoralizzare il nemico il nemico di classe ed infondere fiducia al movimento di lotta.
Noi, comunisti rivoluzionari delle Brigate Rosse combatteremo fino alla vittoria per la distruzione di tutte le galere e la liberazione di tutti i proletari. La nuova situazione creatasi dopo il 16 marzo ha posto compiti nuovi alle organizzazioni comuniste combattenti nel processo di costruzione del Partito.
Il 16 marzo, nelle intenzione della borghesia imperialista, era destinato a segnare l'inizio di un nuovo regime politico nel nostro Paese. In quel giorno, difatti, si usciva da una crisi politica senza precedenti con il progetto di "intesa di programma" fra i cinque maggiori partiti costituzionali, costruita intorno all'abbraccio interclassista della DC con il Partito revisionista.
Il programma era quello di amministrare, nel quadro delle strategie imperialiste e per conto delle multinazionali, gli effetti sociali devastanti della più tremenda crisi economica degli ultimi decenni, e di gestire - nel senso di rendere funzionali agli interessi del capitale monopolistico - i comportamenti della classe operaia nella crisi. In altri termini, la borghesia imperialista si proponeva di corresponsabilizzare direttamente il Partito revisionista in una vasta operazione tesa ad impedire la crescita delle lotte proletarie e, di conseguenza a bloccare lo sviluppo del processo rivoluzionario nel nostro Paese.
La consapevolezza della crisi e dei pericoli insiti nella presenza di una opposizione, conduce alla scelta politica di catturare, mantenendola, co-...delle lotte proletarie e, di conseguenza, a bloccare lo sviluppo del programma", dopo trent'anni di totale preclusione.
Questo disegno, plausibile e realistico a tavolino data la disponibilità senza riserve del PCI a "farsi Stato", è comunque destinato al fallimento, fondamentalmente per il motivo che non c'è identificazione reale tra PCI e classe, cosicché l'integrazione neo-corporativa dei revisionisti nel cielo della politica non significa, al tempo stesso, cattura dei comportamenti di classe operai, delle lotte, dell'iniziativa rivoluzionaria.
La "campagna" sferrata il 16 marzo dalle BRIGATE ROSSE con la cattura di Aldo MORO, ha avuto il grande merito di chiarire agli occhi di tutti che per il nostro regime sarebbero iniziati giorni difficili.
Con il 16 marzo non si è affermato un nuovo regime capace di stabilizzare la situazione economica-politica-sociale nel breve periodo, come era nella intenzioni, ma si è invece manifestata l'esistenza di quei poteri contrapposti, espressione di classi antagoniste, di interessi, bisogni ed aspirazioni inconciliabili tra lo Stato imperialista ed il potere proletario armato.
Non solo, ma la contraddizione tra il "regime d'intesa" e l'opposizione di classe armata è diventata la contraddizione politica principale. E questo è avvenuto contro ogni previsione, tanto della DC che dei revisionisti, nel senso che, se da un lato veniva ammesso un margine di comportamenti antagonistici endemici, che si riteneva, tutto sommato, controllabile, dall'altro veniva esclusa la capacità di quest'aera di comportamenti di organizzarsi ad un livello tale di maturità politica ed organizzativa, da rappresentare una nuova contraddizione strategica dalle potenzialità incontrollabili.
Con il 16 marzo, il movimento proletario di resistenza offensivo realizza un vero e proprio salto di qualità: per l'aumento quantitativo, l'estensione territoriale, la crescita qualitativa degli attacchi armati, e per l'omogeneità politica crescente tra le "campagne offensive" scatenate dalle organizzazioni comuniste combattenti e l'iniziativa particolare dei settori avanzati della classe, esso raggiunge la soglia, e matura la potenzialità, di un vero e proprio movimento di massa rivoluzionario.
Questa è la caratteristica nuova e principale che le organizzazioni comuniste combattenti devono comprendere in tutti i suoi molteplici aspetti, perché questa è la base di un ulteriore salto di qualità nel processo di costruzione del Partito Combattente.
Chi non coglie che in questa fase il movimento di massa rivoluzionario si presenta nella forma specifica di un'estrema frammentazione, di un'apparente disomogeneità nei comportamenti politico-militari antimperialisti ed antirevisionisti, non capisce che ogni movimento di massa rivoluzionario è il punto di arrivo di un'iniziativa di Partito, e non il punto di partenza.
Non a caso, dopo il 16 marzo, assistiamo ad una netta divaricazione tra l'iniziativa offensiva dei reparti avanzati del proletariato e la totale bancarotta dei gruppi dell'"Autonomia Organizzata". Mentre i primi hanno sviluppato ed articolato la loro presenza conquistandosi nuovi spazi nel più generale tessuto di classe, i secondi sono stati del tutto incapaci di esprimere una qualsiasi prassi offensiva nella nuova situazione.
Ciò che è entrato in crisi, dopo il 16 marzo, non è, come qualcuno ha detto, l'iniziativa offensiva del movimento dell'"Autonomia Organizzata", che alcuni si ostinano a voler mantenere ad ogni costo e che si configurano come un freno oggettivo alla crescita del movimento rivoluzionario. La contraddizione non si è data tra l'attacco portato dalle organizzazioni comuniste combattenti e l'arretratezza dell'iniziativa di massa, ma tra una linea rivoluzionaria portata avanti in forme diverse, ma sostanzialmente omogenee dalle organizzazioni comuniste combattenti e dal movimento, da un lato, e le organizzazioni dell'autonomia organizzata, dall'altro.
In conclusione, se nella fase precedente il compito principale delle organizzazioni comuniste combattenti è stato quello di radicare nel movimento di classe l'organizzazione della lotta armata e la coscienza politica della sua necessità storica, ora comincia a porsi concretamente il problema di organizzare il movimento di massa sul terreno della lotta armata per il comunismo. La congiuntura presente, che si caratterizza per il passaggio di fase dalla "propaganda armata" alla "guerra civile", richiede alle organizzazioni comuniste combattenti di ridefinire il loro ruolo in rapporto ai nuovi compiti, ai nuovi livelli di combattività delle masse ed alle forme di organizzazione nuove generate, nel loro movimento, dai settori più avanzati del proletariato. In particolare è necessario evitare due errori.
Il primo consiste nell'inventarsi "organismi di massa", entro cui tentare di imbottigliare il movimento reale, invece di prendere atto delle forme storiche che la dialettica tra rivoluzione e controrivoluzione produce. Il secondo consiste nel voler ricondurre tutte le forme di organizzazione delle masse ad organizzazioni di Partito, negando così, ancora una volta, il movimento reale nella sua concretezza ed originalità.
La crescita del potere proletario implica, di conseguenza, al tempo stesso, il rafforzarsi della capacità di direzione ed organizzazione del Partito sul movimento di resistenza proletario offensivo nel suo complesso, ed il consolidarsi della capacità di mobilitazione e di combattimento degli "organismi di massa", generati dai settori avanzati del proletariato metropolitano.
Il compito principale delle organizzazioni comuniste combattenti nella nuova congiuntura, rispetto al movimento rivoluzionario nel suo complesso, dev'essere perciò quello di esaltarne le potenzialità, aiutarlo ad organizzarsi in forme proprie ed originale di combattimento, dirigerlo strategicamente inserendone le tensioni dentro un disegno politico unitario, unificarne gli elementi comunisti nel Partito.
BASONE Angelo, BASSI Pietro, BERTOLAZZI Pietro, BUONAVITA Alfredo, CURCIO Renato, FERRARI Maurizio, FRANCESCHINI Alberto, GUAGLIARDO Vincenzo, ISA Giuliano, LINTRAMI Arialdo, MANTOVANI Nadia, OGNIBENE Roberto, PARODI Tonino, PELLI Fabrizio, SEMERIA Giorgio.
Torino, 19 giugno 1978
Alle 12,25 il presidente Barbaro licenzia i giurati supplenti e la corte si ritira.
Recupero finalmente la mia libertà, esco per la l'ultima volta dalla caserma Lamarmora. Sono pronta a riprendere la mia attività politica, ma più stanca.
Resterò nei giorni seguenti turbata e angosciata dal pensiero dei giurati caricati dell'onere di giudicare, soprattutto nei loro confronti di coloro fra essi che alla fine mi hanno trasmesso la loro consapevolezza di questa drammatica responsabilità. Alla lettura della sentenza i volti tirati e segnati da un pianto trattenuto di alcuni giurati denunceranno quanto faticosa e contraddittoria sia stata l'ultima fase di questa lunga e logorante esperienza.