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Bocca Giorgio - 4 marzo 1979
Quello di Pannella non è solo un digiuno, è un promemoria
di Giorgio Bocca

SOMMARIO: "Il digiuno di Marco Pannella ci restituisce un minimo di senso della proporzione e ci consiglia a smetterla con le varie mode luddiste, esotiche, antindustriali". Credo che "il gesto di Marco Pannella abbia proprio questo significato: di ricordarci che cosa è il mondo dei poveri veri, dei diseredati veri, degli affamati veri e che cosa siamo noi al confronto".

(L'ESPRESSO, 4 marzo 1979)

Mi chiedono una dichiarazione sul digiuno di Marco Pannella. La faccio qui pubblicamente. Il digiuno di Marco Pannella ha per me un chiaro significato demistificatorio, ricorda al rivoluzionarismo lagnoso e mitomane di casa nostra questo fatto incontrovertibile ma così spesso dimenticato: noi stiamo fra i ricchi della terra, la civiltà industriale, il capitalismo industriale, privato o di Stato, sarà quel "sistema di merda" che dicono i nostri supersinistri, ma in due secoli ha fatto ciò che non si era fatto nei millenni, quel non fatto per cui nel mondo muoiono ancora ogni anno quindici milioni di persone per fame. Diciamo che il digiuno di Marco Pannella ci restituisce un minimo di senso della proporzione e ci consiglia a smetterla con le varie mode luddiste, esotiche, antindustriali.

Un amico economista mi scrive da Londra: "Leggo ogni tanto sui giornali italiani le tirate antindustriali e anticapitalistiche dei vostri rivoluzionari. Vorrei ricordargli quanto segue: l'Europa ha impiegato ottocento anni per ritornare al tenore di vita del quinto secolo, alla fine dell'impero romano e fino alla rivoluzione industriale inglese il tasso annuale di crescita è stato poco più di zero. Ancora nel 1800 in Francia quattro persone su cinque spendevano tutto il loro salario per l'acquisto del pane e in tutta la Germania non c'erano mille persone con un reddito pari a sei milioni di oggi. Le più grandi nazioni comuniste, la Russia e la Cina hanno dovuto inchinarsi all'evidenza, hanno dovuto reintrodurre i meccanismi e i valori del capitalismo industriale.

"Nei paesi dell'Occidente", prosegue l'amico economista, "la crescita economica del 1945 ad oggi è stata sbalorditiva con aumenti annui del 4,2 per cento di investimenti superiori al 20 per cento. Lo strumento del benessere c'è, l'uomo lo ha finalmente trovato dopo i millenni della fame. Si tratta di farlo funzionare con un minimo di intelligenza e con un minimo di giustizia".

Sì, io credo che il gesto di Marco Pannella abbia proprio questo significato: di ricordarci che cosa è il mondo dei poveri veri, dei diseredati veri, degli affamati veri e che cosa siamo noi al confronto. A volte sembra di assistere, in questo nostro paese che pure ha i suoi problemi e magagne e sofferenze reali, a una sorta di culto o di revival delle piaghe che ci siamo lasciati alle spalle. Abbiamo smesso di fare stupide guerre? In questa Europa che sembra rinsavita, austriaci, jugoslavi, francesi non desiderano più di spostare i segnali di confine al prezzo di milioni di morti? Noi non abbiamo più delle Trento e delle Trieste da liberare con montagne di cadaveri, insomma non ci sono più i nemici? Ce li inventiamo, ci spariamo l'uno contro l'altro.

"Chi assiste alle assemblee" proletarie sa bene che i giovani di certe zone metropolitane hanno una vita grama, poche prospettive; ma il modo barbone straccione in cui si vestono, gli abiti e le sciarpe, le barbe da lumpenproletariato appartengono in qualche modo al desiderio di un riflusso preindustriale, ai bei tempi in cui il proletariato aveva da perdere "solo le sue catene". Non è più così, per fortuna, il proletariato italiano oggi ha da perdere molto, tutto ciò che gran parte del mondo gli invidia, quel livello di vita che i nostri sovversivi dicono "di merda", ma di una merda che il Terzo mondo spalmerebbe volentieri sul suo pane.

I giovani, rivoluzionari o meno, diranno che queste sono chiacchiere da guru rincoglionito. Può darsi: ma saremmo dei pazzi, degli stupidi, se rompessimo la macchina del benessere che abbiamo messo assieme con i sacrifici e le fatiche terribili di non so quante generazioni. In mancanza di argomenti più seri ogni tanto i nostri sovversivi dilettanti, nemici del capitalismo industriale, ci ricordano che esso fa ogni anno tremila morti sul lavoro. Perché non contano quanti morivano di fame, di stenti, di malattie nelle società preindustriali? E a scanso di equivoci direi ancora: capitalismo industriale non significa i padroni delle ferriere, può voler dire società riformata e socialista.

 
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