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Sechi Salvatore - 22 marzo 1979
UN MODO NUOVO DI PRATICARE L'ANTI-IMPERIALISMO
di Salvatore Sechi

SOMMARIO: Nel suo scritto Sechi spiega perché considera l'iniziativa di Pannella a favore di 17 milioni di bambini l'abbozzo di una critica al modo tradizionale della sinistra di praticare l'anti-imperialismo.

L'anti-imperialismo della Sinistra ha avuto un carattere preciso: non cambiava il rapporto sociale col lavoro in fabbrica, in ufficio o a scuola ma solo il consumo del proprio tempo libero e non colpendo la base materiale della catena internazionale dello sfruttamentosi difendeva la continuazione delle ineguaglianze economiche tra nazione e nazione.

Pannella è la spia di una crisi generale della sinistra: il suo gesto evidenzia una mancanza di solidarietà internazionale tra i lavoratori e quindi pone alla Sinistra il problema del nazionalismo, non risolto né dalla teoria né dalla pratica marxista.

La pericolosità personale dei suoi gesti di allarme sono il termometro impazzito di risposte che la sinistra non riesce a dare.

(ARGOMENTI RADICALI, BIMESTRALE POLITICO PER L'ALTERNATIVA, Gennaio-Marzo 1979, N. 11)

Non mi piacciono (e li considero assai pericolosi) certe alleanze "cavalcate" e alcuni comportamenti politico-parlamentari dei radicali. Ritengo invece importante, per una riflessione generale della sinistra, l'analisi di certi strumenti con cui sostengono obiettivi specifici: referendum, non violenza fino a quella violenza fisica contro sé stessi e a quella psicologica e morale contro ognuno di noi che è il digiuno prolungato. Vorrei tentare di spiegare perché nell'iniziativa di Pannella a favore di 17 milioni di bambini ho visto l'"abbozzo" di una critica al mondo tradizionale della sinistra (PSI, PCI e aree della nuova sinistra) di praticare l'anti-imperialismo.

Nel metodo è simboleggiato il problema della riappropriazione di decisioni contro il metodo della politica fondata sulla delega, sull'eterodecisione.

In questa indicazione generale è racchiusa la valenza politica del gesto individuale di Pannella. Non è in alternativa alle lotte di massa per il Vietnam ma ne costituisce una proiezione critica e rimanda ad una revisione di quella esperienza: 1) il sostegno al Vietnam era fondato sulla mobilitazione della gente, e non sull'incisione del meccanismo di potere dell'imperialismo che la classe operaia potrebbe realizzare; 2) la crisi della razionalità capitalistica colpisce tanto i bisogni degli uomini quanto i modi di espressione della domanda politica (dal senso comune al sistema dei partiti); 3) è la crisi di questo anti-imperialismo "tutto politico" che ha aperto il varco alla microfisica delle azioni di Pannella, alla sua efficacia "nuova se" sapremo cogliere il potenziale di trasformazione sui nostri comportamenti individuali e collettivi.

Non mi convince chi non coglie l'elemento di modernità (e parla di regressione verso il rapporto liberal-democratico potere-cittadini), cioè la domanda di auto-governo che è sottesa ai metodi politici dei radicali. La ripresa di importanza del Politico nel capitalismo maturo esige un suo diverso funzionamento: non solo più partecipazione dal basso, cioè più "presa diretta sul potere", ma anche più "possibilità di comando" su di esso, cioè di influire molecolarmente sulla sua disseminazione nel corpo sociale.

L'anti-imperialismo della Sinistra ha avuto un carattere preciso: andavamo in piazza a gridare slogans per Castro, per Mao ed Ho Chi Min, sulla base di una "delega" politica al PCI o al PSI e, in generale, alla forza di manovra (politica, diplomatica e militare) dell'Urss. Non cambiava, cioè, il nostro rapporto sociale col lavoro in fabbrica, in ufficio o a scuola, ma solo il nostro consumo di tempo libero. La produttività del nostro lavoro in funzione della divisione internazionale del lavoro, cresceva tanto quanto si estendeva la nostra delega al "Politico". Che cosa giustificava questa separazione?

1. Una concezione da "economicismo apocalittico" dell'imperialismo inteso come capitalismo all'ultimo stadio. Nel suo punto più alto non sprigionerebbe più forze produttive, potenza tecnica e scienza (come nell'analisi di Kautsky), ma convulsioni di spreco, parassitismo e irrazionalità (e il ricorso alla guerra come arte, manovra politica). Nell'ora del tramonto, il capitale sarebbe un uccello con il piombo nell'ala, declinante verso la morte. E' una concezione spontanea, naturale della fine del capitalismo che da Lenin arriva fino a noi.

Abbiamo applicato anche alla crisi odierna gli stessi concetti, attribuendole le regole dello sviluppo capitalistico.

Se bastava manovrare il Politico (politica estera, sistema dei partiti, arsenali bellici, ecc.) per spingere nel baratro l'imperialismo, siamo stati coerenti a premere sulle sue articolazioni mobilitando tutto il "sociale" disponibile (dai sindacati ai vescovi alla spesa pubblica degli enti locali "rossi" per "armare" di servizi alimentari, sanitari, ecc. una nave). Ma il Politico non bastava. E infatti l'imperialismo non ha perso, e il capitalismo si riproduce alternando crisi, ripresa e sviluppo. Perché? Perché lo straordinario, il prelievo volontario sul salario (le ore di sciopero a favore del Vietnam), certe forme simboliche di boicottaggio (contro la giunta di Pinochet) o l'impiego del tempo di non lavoro non colpivano la base materiale, interna della catena internazionale dello sfruttamento. Abbiamo funzionato per ciò che in qualche misura siamo rispetto ai paesi coloniali e post-coloniali: un anello di aristocrazia operaia. Come dire: alla nostra dissociazione "politica" da guerra, occupazioni milita

ri, stermini ha corrisposto e corrisponde una nostra partecipazione "reale" alla produzione di armi, di tecnologie, beni industriali ecc. del mercato imperialistico.

Non boicottando le nostre linee di produzione e di scambio, e non "riarticolando la base produttiva", difendevamo la continuazione (se non lo sviluppo) delle ineguaglianze economiche tra nazione e nazione.

Non voglio riproporre la tesi dello sfruttamento dei lavoratori dei paesi dominati da parte di quelli dominanti, in nome dello scambio ineguale. Mi limito a rilevare come la borghesia imperialista (che vive cioè sfruttando anche i lavoratori di un altro paese) "riduca", sia pure relativamente, l'intensità dello sfruttamento cui sottopone i lavoratori del proprio paese. Si crea una "aristocrazia operaia", legata da un rapporto di solidarietà oggettiva, naturale con il capitale industriale. Che tali strati di lavoratori arrivino poi a corrompersi e "imborghesirsi", questo concerne più che i rapporti di produzione i rapporti ideologici. Resta il problema prospettato da Sismondi e Marx, e ripreso poi da Lenin e, distesamente da Arghiri Emmanuel: sul lavoro, e sul consumo, delle masse del Terzo Mondo vivono, oltre la borghesia, anche grandi aree del proletariato europeo. Non si è avuta la conseguenza politica dello sciovinismo coloniale e dell'opportunismo del primo Novecento, ma abbiamo certamente un anti-imperi

alismo che riecheggia da un lato la forte integrazione delle economie industriali e, dall'altra, forme di subordinazione e di ripiegamento corporativo della classe operaia nel sistema.

Non sarà certo il gesto generoso di Pannella a impedire il risucchiamento del surplus economico dalla periferia alla metropoli, attraverso l'appropriazione - da parte di quest'ultima - dei vantaggi dell'accresciuta produttività del lavoro dei paesi sottosviluppati. Ma il gesto di Pannella pone il problema su cui mostra difficoltà ed è scoperto il nostro antimperialismo: quello di un certo oggettivo "lealismo" alle regole del sistema, cioè di u a mancanza di solidarietà internazionale tra i lavoratori. In altri termini Pannella pone alla Sinistra il problema del nazionalismo (e della "nazionalizzazione" della classe operaia) che è il grande problema che la teoria, e la pratica marxista dello sviluppo e della rivoluzione non ha risolto. L'indicazione di Lenin nelle tesi sulla questione orientale è rimasta politicamente senza destinatari.

C'è un'altra conseguenza connessa all'investimento fiduciario, della solidarietà ideale e delle forme solenni, di massa, del necrologio a cui spesso si è ridotto il nostro antimperialismo. Esso deriva dalla certezza ideologica che una Ragione (non solo ideologica, ma scientifica) sospingeva verso una "forzosa conclusione della loro insolubilità" e aggravamento cumulativo delle contraddizioni connesse alla "parabola storica del capitale". Il pensiero marxista, vivendo come separatezza (e non come confronto critico) il suo rapporto con il pensiero borghese, più che studiare, interpretare e quindi controllare il futuro, s'è limitato a rassicurare sulla previsione di ciò che ci sarebbe "dopo" il capitalismo. E' nato il mito del fare come in Russia. Di esso è figlio naturale l'universo concentrazionario di Pol Pot. Ma che cosa se non "anche" dall'ideologia della "crisi generale del capitalismo", nasce la sua corsa contro il tempo (la meccanizzazione, la scienza, la tecnica moderna) la soluzione giacobina, la rice

rca di una scorciatoia radicale? Chi ha invaso la Cambogia, per procura, come l'URSS dovrebbe sapere che le forme di "comunismo di guerra" del regime dei Kmer rossi sono state elaborate da quell'"oppio dei poveri" che è l'ideologia comunista soprattutto (ma non esclusivamente) russa, dove la fine del capitalismo è analizzata o smontata come un orologio secondo i presupposti di una scienza positivistica, newtoniana, meccanicistica. Il paradosso della micidiale guerra di Breznev a Pol Pot è che migrazioni coatte di massa, svuotamento delle città, regime di polizia e di ideologia, la stessa rivolta contro la tecnica e la scienza nascono da un modello che ha identificato come possibile e "contestuale" la fuoriuscita dal colonialismo e dal capitalismo.

C'è dunque una crisi del marxismo. Essa non tocca la forza ancora immensa del pensiero operaio, se esso, cedendo sul terreno della vecchia Regione anticapitalistica, si riapproprierà delle lotte, dentro un progetto che restituisca ai soggetti l'autodecisione di cui l'hanno espropriato, per motivi storicamente fondati, le "forme" del movimento operaio (sindacato e partito).

I radicali ci indicano (e si fermano) il problema dell'autodeterminazione del "sociale", ma non il progetto del Politico.

Ma Pannella è la spia di una crisi generale della sinistra. La sua "corte dei miracoli" è una cosa precisa, come lo è la nuova ideologia (solo apparentemente definibile come repressione liberal-democratica) che questo "sociale" disgregato produce. Mi riferisco alla conclusione di un lungo ciclo che, nelle file capitalistiche e in quelle operaie, ha identificato come essenziale la mediazione ideologica.

Sia nel rapporto tra capitale, società e Stato sia nel rapporto tra movimento operaio, partito e organizzazione (Tronti). Il processo di de-ideologizzazione delle masse, come esito della crisi dello Stato assistenziale (l'ideologia del Welfare State) e dello stato ideologico (socialdemocrazie e socialismi `reali') fa emergere il sociale e la sua autonomia.

Risultato della degradazione del Welfare State in Stato delle mance nonché della crisi del comando politico sulla crisi del capitalismo post anni Trenta, il "nuovo sociale", riflesso dal radicalismo, non è riducibile alle forze stereotipe di nuovo estremismo, a "socialismo della borghesia", a ideologia liberal democratica, o a "ideologia americana". Questo rischio c'è certamente. Ma solo una visione "crollista", catastrofale e quindi escatologica della crisi del capitalismo maturo, può illudersi della provvisorietà dei nuovi ceti sociali e può condannarli come materialisti residuali (da frantumazione corporativa e da lavoro improduttivo) solo perché sono refrattari allo Stato e alla classe operaia e cioè alla produzione e alla politica, come storicamente sono state vissute dal movimento operaio. In realtà non c'è contraddizione tra la rottura del sistema ideologico (e politico) dell'unità-centralità della classe operaia e la sua ricomposizione in un progetto politico, dove l'autonomia del sociale è riconosci

uta come antagonismo e spontaneità. Il "pannellismo" si ferma sulla soglia del progetto di trasformazione, cioè esalta la rottura (col relativo garantismo) del sistema del capitalismo organizzato (Tronti ha parlato di sistema sociale "senza" riforma politica). Non si pone il problema rottura-governo della democrazia e perciò può contribuire e destabilizzarla e sradicarla.

Se il ruolo dei radicali è di guastatori del sistema e "rischiano" di essere il punto di aggregazione di un blocco anti operaio della nuova socializzazione (cresciuta dentro e fuori i grandi soggetti del Politico), è perché la mancata mutazione della forma-partito e della forma-sindacato e l'assenza di un progetto del movimento operaio riconoscibile dal masse esalta ciò da cui bisogna difendersi: l'assorbimento della sfera politica nello stato il potere nella tecnica del comando.

Ma questo progetto, elaborato da un cervello sociale diverso dagli uffici, spetta al movimento operaio. Suo è il compito della sintesi e della ricomposizione sociale. Il ruolo storico e la possibile ambiguità del radicalismo è di esibire la perdita, e la correlativa domanda di protagonismo, di autogoverno che produce la disseminazione molecolare del potere, la microfisica dei bisogni, la corporativizzazione della democrazia in funzione anti-crisi. Così come la classe operaia non abbandona i suoi vecchi strumenti (partito e sindacato) per sostituirli con qualcosa che non c'è, così i radicali non mollano sull'uso del regolamento delle camere per paralizzarle contro la presunta camicia di Nesso dei capi-gruppo; così il sociale può essere tentato ad un uso perverso, selvaggio della sua "autonomia", facendo della corporativizzazione l'ideale del bene comune.

Queste sono forme di "certezza" nella crisi da cui è travolta l'assistenzialismo. Ma sono "l'incertezza" che rode, e svuota, la democrazia se non supera la crisi con una decisione, in governo di sviluppo scomponendo-ricomponendo il "sociale". Come il Politico, esso è "condannato"a un equilibrio di contro-potere. Può far pendere la sua radice originaria (l'autogoverno) verso un'alleanza che saldi l'autonomia a un "qualunque" esercizio del potere (il neo-liberismo o un nuovo dispotismo più o meno fascistizzante o bonapartistico). Due egemonie (il governo operaio della forza lavoro e una politica economica liberistica) non si fronteggiano a lungo invano senza che altri decida per loro.

Pannella getta sul marciapiede i sintomi di una crisi di crescita, espone i materiali di una riforma politica. La pericolosità personale dei suoi gesti d'allarme sono il termometro impazzito di risposte che la sinistra non riesce a dare. Intenta a inseguire il nuovo con gli strumenti concettuali del suo passato, s'attarda a riecheggiare una partitura della storia contemporanea tra ciò che sta "avanti" e "dietro" la presa del Palazzo d'Inverno, "prima" e "dopo" il capitalismo, cacciando a forza i nuovi movimenti sociali nell'imbuto politica-classe operaia produttiva. Temo che se la forma-partito continuerà a restare chiusa dentro un'armatura "data" (sindacato e partito come collettori di ciò che è centrale, "organizzato", "protetto"), vedrà saldarsi sulla sua testa tutto ciò che è il risultato della crisi della politica, compresa quella "pedagogica" (la manovra dal vertice, secondo la vecchia concezione togliattiana) del movimento operaio. Mi riferisco al pericolo di un ricongiungersi della spinta destabilizz

ante del "radicalismo" e del terrorismo. Non sono la stessa cosa, certamente, ma sono due "forme" di politica strutturali. Chi li rifiuta come interlocutori politici (cioè per quello che in realtà già sono) non sa spiegare perché essi sono invincibili dalla mobilitazione di massa e dal ripudio moralistico o dalla liquidazione sociologizzante (non si può discutere o peggio, allearsi con la disgregazione, con i figli degeneri dello stato assistenziale).

Il loro segno può essere rovesciato, se c'è un progetto di trasformazione.

Lo sterminio degli innocenti per via economica avviene già per via politica (sinistra storica e no) con i nostri silenzi, la nostra impotenza. Perciò Pannella digiuna anche per noi. Ma a differenza di lui (che rappresenta una piccola formazione politica, noi (sinistra storica) non potremo consumare a lungo un pasto dove non c'è relazione tra il carattere di massa, i nuovi soggetti sociali della politica e la gestione, (ma anche la produzione) verticistica della politica.

 
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