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Oliva Carlo - 22 marzo 1979
E SE PARLANDO DELL'IRAN, PARLASSIMO DAVVERO DELL'IRAN?
di Carlo Oliva

SOMMARIO: Oliva si interessa alle difficoltà incontrate dalla sinistra italiana ed europea nell'esprimere un giudizio sulla rivoluzione iraniana, per il fatto che questo processo rivoluzionario si è definito in termini religiosi, è stato gestito da personalità religiose e si prefigge di realizzare una società basata su norme di rivelazione divina.

L'autore imputa molte approssimazioni alla diffusa ignoranza eurocentrica e chiarisce alcuni punti fondamentali dell'islamismo, ma reputa scandaloso lo spettacolo di una sinistra che di fronte ad un fenomeno di indubbia portata storica, trova tante difficoltà ad inquadrarlo correttamente nel suo contesto, internazionale ed intero.

(ARGOMENTI RADICALI, BIMESTRALE POLITICO PER L'ALTERNATIVA, Gennaio-Marzo 1979, N. 11)

Non è nostra intenzione, né abbiamo, d'altronde, la competenza necessaria, di discutere nel loro complesso i recenti avvenimenti in Iran. Come tutti i democratici siamo alquanto compiaciuti per la caduta dello scià, simpaticamente sbalorditi per l'apparente facilità con cui ha avuto luogo, un po' perplessi sul come tutto quanto andrà a finire. Non negheremo che, sotto sotto, la solidarietà internazionalista che manifestiamo di tutto cuore al popolo iraniano sia, per così dire, inquinata da una vena di preoccupazione per gli effetti sulla nostra vita quotidiana che potrà comportate la prevedibile diminuzione delle forniture di petrolio, o, per lo meno, dal rincaro del loro prezzo. Ma tutte le rivoluzioni, sappiamo, hanno un prezzo, e se il prezzo della rivoluzione persiana consisterà solo in un rincaro di quello del petrolio, sarà sempre meno caro di quello di tante altre.

Ci interessa, in questa sede, piuttosto un problema marginale che quegli avvenimenti hanno posto: le evidentissime difficoltà incontrate dalla sinistra italiana ed europea nell'esprimere un giudizio e nell'assumere un atteggiamento univoco sulla rivoluzione iraniana, a causa, soprattutto, dell'insolita definizione ideologica che essa s'è data. Il problema, cioè, di come valutare un processo rivoluzionario che, rappresentando un caso unico per il secolo ventesimo, si è definito in termini religiosi, è stato in gran parte diretto e gestito da personalità religiose, e si è dato una forma istituzionale, la "repubblica islamica", che si prefigge di realizzare un modello di società "giusta" in quanto direttamente regolata da norme considerate di rivelazione divina. Si tratta di un "unicum", almeno - lo ripetiamo - per il secolo corrente, che ha suscitato, a sinistra, le reazioni più diverse. C'è stato chi ha trascurato totalmente il problema, applicando rigidamente il buon vecchio postulato marxista per cui l'ideo

logia è sempre una sovrastruttura, e quindi può ben darsi il caso di chi crede di lottare per la gloria di Allah, mentre lotta invece per la causa del proletariato internazionale (postulato che, personalmente, consideriamo abbastanza ragionevole, ma che, nel concreto, dovendosi evidentemente mediare a più livelli in modo da essere applicato a situazioni concrete in cui l'ideologia dei soggetti individuali e collettivi è una componente fin troppo concreta, non serve ad esprimere giudizio alcuno) e chi s'è provato ad affrontare la questione, con esiti diversi. Ma, stringi stringi, i corni del problema restano sempre due: gli atteggiamenti possibili sono o di diffidenza accentuata verso un processo in cui si colgono tendenze assai pronunciate di medioevalismo, di oscurantismo, di ritorno ai tempi bui (e, perché no?, di conferma su scala internazionale dell'ormai celebre corsa al riflusso) o di più o meno cautelosa ammissione del fatto che l'ideologia islamica, eventualmente limitando il giudizio alla variante s

hiita, è particolarmente adatta ad essere l'ideologia di un movimento rivoluzionario: che ha, come si dice, delle potenzialità. Per citare due esempi quasi a caso, possiamo vedere i commenti di due giornalisti che personalmente stimiamo entrambi (sperando che entrambi non s'offendano a morte per l'abbinamento). Giorgio Bocca sull'"Espresso" del 25 febbraio scrive che "questa gran gioia per l'apparizione di un santone musulmano, che elogia le pene corporali, rispedisce le donne nelle stanze, e propone il Corano come guida del vivere sociale" proprio non la capisce, e che di ayatollah, in fondo, ne abbiamo anche noi: "sono vestiti di bianco, stanno dall'altra parte del Tevere, e chiedono su per giù allo Stato italiano ciò che Khomeini chiede a quello persiano: che la religione sia legge". E ce l'ha, chiaramente, con il nostro secondo esempio, Carlo Panella, che da tre o quattro mesi su "Lotta continua", con le sue (belle) corrispondenze da Teheran, insiste sullo specifico islamico della rivoluzione, intervista

mullah e ayatollah, spiega che lo shiismo è sempre stato contro il potere, e spinge i compagni della redazione ad intitolare, non si sa bene se per scherzo o no, un intero paginone con un solenne "Allah è grande", che deve aver fatto venire i brividi a non pochi militanti.

La "dottrina sociale" dell'Islam

Di molte approssimazioni, evidentemente, si può far giustizia imputandole a quella diffusa ignoranza eurocentrica che aduggia gran parte delle nostre prese di posizione su problemi del genere. Pochissimi, anche nell'ambito delle cosiddette persone colte, si sono ormai presi la briga di farsi un minimo di chiarezza sulla religione e l'ideologia islamica, e chi invece qualche idea in merito ce l'ha è ovvio che risente della "simpatia" che naturalmente invade chi avvicini un mondo nuovo e sconosciuto. Alcuni punti fermi, comunque, dovrebbero essere dati per scontati, e ci permettiamo, pur senza pretendere alcuna qualifica di esperti nel campo, di rivendicarli.

L'islam, tanto per cominciare, è una religione profetica: ai suoi adepti promette, esattamente come il giudaismo e il cristianesimo preagostiniano, non soltanto la risurrezione della carne (di cui l'immortalità dell'anima, com'è noto, è una successiva razionalizzazione), ma anche tutta un'era di felicità e giustizia sulla terra, preannunciata, un po' vagamente e non nel Corano, dalla comparsa d'una figura carismatica, di Mahdi. Per cui è spesso successo che popoli musulmani in lotta contro l'imperialismo europeo (cristiano) abbiano espresso figure che a questo concetto si richiamavano: pensiamo, alla fine del secolo scorso, alla rivoluzione detta appunto mahdista nel Sudan anglo-egiziano, o alla lotta dei Fulani contro il colonialismo francese, o all'attività del Mad Mullah in Somalia. Ed è anche vero che il Corano contiene la condanna di alcune attività economiche, evidentemente praticate, all'epoca della sua stesura, da gruppi ostili alla predicazione di Muhammad, (particolarmente un tipo non ben definito

di prestito a interesse, il "ribà"), e prescrive ai fedeli la "zakàt", l'elemosina ai bisognosi, per cui, con un po' di buona volontà, se ne possono ricavare i postulati d'una "dottrina sociale islamica", la cui vaghezza, peraltro, non sembra molto diversa da quella della "dottrina sociale della Chiesa" ben nota a noi italiani. E' ovvio che la profezia mahdista non fa sì che ogni stato musulmano sia automaticamente rivoluzionario, e che la "dottrina sociale islamica" non fa sì che esso sia socialista: parecchi stati musulmani moderni, come il Pakistan al momento stesso della sua fondazione, hanno fatto di queste vaghe inclusioni coraniche la propria ideologia ufficiale, senza che la loro situazione sociale interna riveli apprezzabili differenze da quella degli stati "laici" circonvicini.

Lo shiismo e l'impero di Ciro

Nel caso della Persia la situazione è un po' complicata dal fatto che la popolazione è, in grande maggioranza, di osservanza shiita, ed è vero che lo shiismo, anche se nasce come tendenza legittimista (come rivendicazione del califfato ai legittimi discendenti di Ali, cugino e genero del Profeta), è sempre stato, nella sua storia, un'eresia perseguita, e s'è caricato, nelle sue sette più estreme, di molteplici tensioni sociali, etniche e filosofiche eterodosse, rappresentando, nel mondo islamico, un indubbio fattore d'instabilità. Ma è anche vero che la Persia è l'unico paese in cui lo shiismo, nel secolo XVI, è diventato, nella sua variante duodecimama, qualcosa di simile ad una religione di stato, ed è stato fatto proprio dalle classi dirigenti, militari e latifondisti compresi. In questa sua nuova veste la shia, finora, non s'è molto differenziata da altre religioni al potere: va ricordato che proprio in Persia, verso la metà del secolo scorso, è nato quello che a molti è sembrato l'unico tentativo serio

di "riforma" islamica in senso modernista e socialmente avanzato, il babi-bahaismo, e che alla sua feroce repressione il "clero" shiita ha sempre dato il più entusiastico appoggio. Se mai andrebbe tenuta presente un'altra peculiarità ideologica specifica della situazione persiana. La dinastia Pahlavi, giunta al potere nel 1925, s'è sempre posta il problema d'imporre il proprio potere centrale contro le molte forze centrifughe operanti nel paese, ivi incluso il potere di mullah e moschee (potere, ovviamente, non essenzialmente spirituale, ma sostanzialmente intrecciato con l'esistenza del latifondo). Ne è derivata una specie di "rivoluzione culturale" guidata dall'alto, e sommamente impopolare, che da un lato comportava una specie di demusulmanizzazione della legge e del costume, ispirata all'ideologia del laicismo europeo (è a questo aspetto che fanno riferimento, in occidente, i superstiti estimatori, istimatori in buona o mala fede, dello scià), e dall'altro, per dare allo stato una qualche identità cultur

ale consona ai suoi ideali da grande potenza, enfatizzava, assai artificialmente, la tradizione "ariana" dell'Iran preislamico, presentando una nazione profondamente islamizzata fin dall'VIII secolo, e politicamente costituita nel millennio successivo ad opera di dinastie di origine turcomongola, come la continuazione diretta dell'impero di Ciro il grande. Questa operazione, impopolarissima (anche perché di fatto è solo servita da copertura ad un sostanziale cedimento all'imperialismo europeo prima ed americano poi), si riflette perfino sul nome della dinastia. Pahlavi, il cognome che il padre del deposto scià assunse per sé quando, all'uso europeo, impose a tutti i suoi sudditi di adottarne uno, significa appunto "partico", "persiano preislamico". Che questo atteggiamento generale potesse generare, per la prima volta dopo parecchi secoli, un certo rancore negli ambienti religiosi contro il governo imperiale non ci pare possa stupire nessuno. Ma, naturalmente, il fatto è che questo rancore è stato condiviso

a livello di massa, salvo forse che nelle "élites" occidentalizzanti vicine alla corte, e che il suo esplodere è stato uno degli elementi della rivoluzione, e non dei meno importanti. Anche da questo punto di vista, chi riflettesse su certe esperienze di giacobinismo europeo potrebbe cogliere talune interessanti analogie.

Questo, però, è un rischio, anzi, è il vero problema. Di analogie tra la situazione persiana e situazioni occidentali a noi meglio note - in realtà - sarebbe possibile coglierne parecchie, con soddisfazione generale e non poca gratificazione per tutti. Ma si tratterebbe sempre di analogie funzionanti solo fino a un certo punto. Lo specifico della situazione iraniana consiste proprio, dal punto di vista che qui ci interessa, nel fatto che il "clero" shita (le virgolette sono d'obbligo, perché com'è noto né la shia né l'islam sunnita si sono mai organizzati in forma chiesastica) ha goduto d'una straordinaria occasione storica: quella di trovarsi, per i motivi di cui sopra, dalla stessa parte del suo popolo, e di essere così investito, anche grazie al suo essere largamente radicato nel paese, di un ruolo d'avanguardia e di dirigenza rivoluzionaria. A questo ruolo non potevano certo aspirare le organizzazioni politiche assimilabili alla sinistra occidentale, per via della loro presenza minoritaria ed esclusivame

nte urbana, né la parte progressista dell'"élite" occidentalizzante. Ambedue queste forze, di fatto, hanno accettato, per ora, l'egemonia dei religiosi, come dimostra la presenza accanto a Khomeini di vecchi eredi del mossadiqismo, come Sanjabi e Bazargan. Una realtà di questo genere va accettata dall'osservatore per quel che è: non comporta affatto la necessità di trarne illazioni sul carattere intimamente rivoluzionario dell'islamismo, o, al contrario, sulla natura sicuramente reazionaria della nuova dirigenza. Non dimostra né che Allah sia davvero grande, né che Khomeini sia un Woitjla in turbante.

Giudizio critico e mitologie

Contraddizioni, nel movimento rivoluzionario, ce ne sono sicuramente parecchie, e qualcuna sta venendo al pettine nei giorni in cui stiamo scrivendo. Un primo giudizio di merito sarà possibile trarlo "a posteriori" dall'esame di come saranno risolti alcuno problemi particolarmente urgenti, come quello della ristrutturazione dell'esercito o quello delle questioni nazionali curda e azebajana (per citare solo i due che si sono immediatamente presentati ai nuovi dirigenti all'indomani della presa del potere), per non dire delle trasformazioni sul più lungo periodo. I mullah shiiti non hanno certamente una tradizione rivoluzionaria alle spalle (tanto per fare un po' sfoggio d'erudizione, si potrebbe ricordare che un'analoga "occasione storica" l'ebbero nel secolo XVIII, all'epoca di Nadir Shah, e se la lasciarono tranquillamente sfuggire) e si può ben dubitare che dal Corano possano trarre un programma rivoluzionario adatto a un paese moderno (il Corano, certo, è un testo rivoluzionario, ma nel contesto in cui è

nato). Peraltro Khomeini e i suoi collaboratori hanno dimostrato finora di essere dei notevoli politici, ed è in termini politici che la loro opera dovrà essere giudicata. Al massimo si potrà dire, volendo proprio dare un giudizio di merito sulla loro ideologia, che se sapranno esprimere una politica veramente consona agli interessi del popolo persiano (e degli altri popoli dell'Iran) lo faranno non "grazie" al loro islamismo, ma "nonostante" questo. Ma una simile affermazione non rappresenterebbe niente di nuovo.

Può ben darsi, ripensandoci, che tutto ciò non importi troppo a nessuno, e che sia visto come molto, troppo, lontano dai ben più assillanti problemi di casa nostra. Ma la sinistra occidentale, in fondo, si dibatte da troppo tempo in una curiosa contraddizione, tra un conclamato internazionalismo, in cui particolare spicco hanno le questioni del terzo mondo, ed una sostanziale ignoranza dei problemi politici specifici delle varie situazioni. L'unica esperienza politica medio-orientale un po'nota in occidente, di fatto, è quella palestinese, ma questo non è affatto un caso: l'ambiente siro-palestinese, con tutte le sue peculiarità, ci è molto più affine del resto del terzo mondo, in grazia d'una integrazione secolare, e proprio per questo in esso si sono potute sviluppare realtà come il Baath e i feddayin, realtà "laiche" e non troppo difficilmente assimilabili alla tipologia politica europea. E quando anche da quelle parti esplodono contraddizioni che comprendono anche l'aspetto religioso, ecco che subito la

comprensione sfuma e si fa generica, com'è stato ampiamente dimostrato dal pasticcio libanese.

Più in generale, ci sembra abbastanza scandaloso lo spettacolo d'una sinistra che, di fronte ad un fenomeno d'indubbia portata storica e di grosse implicazioni politiche, qual è la caduta dello scià e del suo regime, trova tante difficoltà ad inquadrarlo correttamente nel suo contesto, e non tanto nel suo contesto internazionale quanto in quello interno (a dire che, comunque, la colpa è tutta degli americani sono bravi tutti). Per cui le peculiarità ideologiche del processo possono essere, contemporaneamente, ignorate in nome d'una rozza distinzione tra struttura e sovrastruttura, o utilizzate (previa un'assimilazione per analogia a realtà più note) per esprimere giudizi e formulare previsioni. Giudizi e previsioni che rifletteranno, il più delle volte, quei vecchi e scoloriti modelli ideologici che la sinistra europea da un buon decennio pretende di mettere, o d'aver messo, in crisi, mentre da essi continua inconsapevolmente a dipendere. E mentre da un lato ci irrita un po'il falso laicismo da quattro soldi

di chi vede in Khomeini l'espressione del ritorno all'era oscura, ci preoccupa molto l'infatuazione di altri. C'è tutto un settore della sinistra che crede molto nei modelli internazionali, ed in base ad essi struttura se stesso: non vorremmo che dopo aver esperimentato nell'ordine una fase cubana, vietnamita, irlandese, cinese e portoghese ci attendesse, oggi, una fase persiana. Non negheremo che il mondo islamico ci affascini assai, ma del Corano apprezziamo soprattutto una frase: "L'ipotesi illusoria non fa le veci della verità".

 
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