di Ottavio CecchiSOMMARIO: Vittorini è esempio del "radicalismo piccolo-borghese" dei letterati italiani. Che cos'è "il radicalismo in uno scrittore?" "E' sentirsi demiurgo, testimone e giudice, consigliere aulico, e nel medesimo tempo coscienza dolente". Vittorini, cui si deve l'aver "stanato la neoavanguardia", commise l'errore, tipico di un "radicalismo piccolo-borghese, di credere che la rivoluzione fascista fosse una sorta di rivoluzione socialista, e il fascismo delle origini una sorta di socialismo depurato degli errori dei fascisti e degli stalinisti". Oggi, chi si definisse scrittore o poeta "rivoluzionario" sarebbe uno di questi radicali piccolo-borghesi, poco importa se collocato "contro il potere o per il potere". L'ultima eco di un simile fenomeno si ebbe nel '78, all'epoca del caso Moro. Vittorini, non pubblicando un romanzo di quelli che parlano "di fabbriche e di aziende", ecc., fece autocritica del suo "umanesimo", del suo "profetismo": si legga il passo del suo "Diario in pubblico" dove descrive Chartres, "
perfetta immagine dell'ordine"...per capire quale fosse la città "perfetta" che egli aveva cercato, prima nel fascismo di sinistra e poi nel comunismo. Ma la storia del radicalismo dei letterati italiani è ancora da fare, dalla "Voce" in poi.
(»Rinascita del 20 luglio 1979 - ripubblicato in "I RADICALI: COMPAGNI, QUALUNQUISTI, DESTABILIZZATORI?", a cura di Valter Vecellio, Edizioni Quaderni Radicali/5, 1981)
Che cos'è il radicalismo in uno scrittore? E' sentirsi demiurgo, testimone e giudice, consigliere aulico e, nel medesimo tempo coscienza dolente; è sentirsi addetto alla scoperta del nuovo e della perfezione, è credersi protagonista.
Quando la fase declinante e conclusiva del neorealismo fu messa in discussione dalle generazioni intellettuali degli ultimi anni cinquanta (può sembrare un paradosso, ma c'è stato un tempo in cui mettere in discussione il neorealismo era come dir male di Garibaldi e peggio), la figura di Elio Vittorini non fu più quella che era apparsa a coloro che, in lui e nella sua opera - specie in "Conversazione in Sicilia" - avevano visto una sorta (adoperiamo pure la brutta parola) di rispecchiamento di un itinerario. Fu poi lo stesso Vittorini a dire e a ripetere, con parole autocritiche piuttosto dure (proprio qui, sul "Contemporaneo"), che la sua generazione e quella che era venuta dopo erano uscite da un utero sozzo per entrare in un altro utero sozzo. Lasciamo lì le implicazioni strettamente politiche della riflessione, amarissima, di Vittorini e vediamo piuttosto ciò che di esse atteneva alla letteratura e al comportamento pubblico suo e, per farla breve, di quei »giovani del '44 che gli si erano avvicinati com
e a un caposcuola. Il Vittorini di quella dichiarazione era l'uomo che, con coraggio, aveva stanato la neoavanguardia - "anche" la neoavanguardia - in nome del nuovo: di quel nuovo e di quell'eterna »America che egli aveva sempre inseguito. Il "Verri" aveva preparato la strada, ma il "Menabò" l'aprì. C'erano più fabbriche e aziende nei romanzi-non romanzi di Alain Robbe-Grillet che in tutti i romanzi neobalzacchiani che parlavano di fabbriche e aziende, di operai e di contadini. Ma varrà la pena di ricordare che ai tempi di queste autocritiche e, prima, del lungo silenzio, Vittorini aveva compiuto un gesto che gli estimatori del suo romanzo uscito postumo, "Le città del mondo", non amano ricordare: aveva messo il manoscritto nel cassetto. A legittimare l'ipotesi che quel gesto altro non fu che l'estrema autocritica vittoriniana, venne poi una testimonianza di Mario Luzi. Questi aveva incontrato Vittorini e gli aveva detto parole di elogio per certe pagine uscite in rivista (erano pagine di quel romanzo), ma
Vittorini aveva scosso la testa e facendo il gesto di suonare il violino (una variante del piffero) gli aveva risposto: »Hai visto com'ero finito? .
Il romanzo nel cassetto era il simbolo di un punto d'arrivo che Vittorini aveva già toccato da un pezzo. Nel fondo di tutto c'era l'amarezza di uno scrittore che, al pari di tanti suoi coetanei, aveva commesso l'errore, tipico di un radicalismo piccolo-borghese, di credere che la rivoluzione fascista fosse una sorta di rivoluzione socialista, e il fascismo delle origini una sorta di socialismo depurato degli errori dei fascisti e degli stalinisti. Ad abbandonare con lucida coscienza quella falsa posizione generazionale, fu solo o quasi.
Oggi, di Vittorini, si parla appena. Spentasi, e da tempo, anche la scintilla della neo-avanguardia (qualcuno ne ha intonato il "requiem" anche pochi giorni fa), compiuta la diaspora dei suoi adepti (certo, i migliori scrittori e poeti che l'Italia abbia avuto dall'inizio degli anni sessanta a oggi), la letteratura è tornata nel chiuso degli studi privati. In tempi di poesia all'aperto, non sapremmo dire se l'avvenimento ci rallegri o ci rattristi (forse ci rallegra, ma è un'allegria tutta personale e fuori moda): fatto sta che ci rallegra, e molto, la fine delle stanche polemiche sul rapporto politica-letteratura, ultimi fuochi di un impegno che portò scrittori e poeti a spezzare penne e pennini, e d'altra parte, a offrire la penna come spada per la rivoluzione. Oggi, un tal dei tali che dica: »Io sono un poeta rivoluzionario non fa né ridere, né piangere: fa pensare che il vecchio radicalismo piccolo-borghese è ancora vivo.
Eppure verrà un tempo in cui questa storia dovrà essere fatta. Si vedrà allora che i letterati italiani, chi più chi meno, hanno sempre ambito agli allori del vate. Più che romanzieri o poeti sono stati uomini di corte, e la loro opera, ripetiamo con Roland Barthes, è stata encratica: cioè di corte, di potere. O contro il potere o per il potere, il discorso non cambia di molto. Dagli inni a Satana e dal "Ça ira" il percorso è finito nelle aule delle accademie. L'ultima eco di un impegno che si presenta sempre con le caratteristiche di una insistita immersione nel bagno della rivoluzione e di un radicalismo moralistico, e perciò piccolo-borghese, si è avuta nel '78, allorché i letterati cominciarono a chiedersi: ma dov'ero io, dove eravamo noi mentre in Italia le Br ammazzavano Moro? L'idea che un letterato possa essere letterato e politico, scrittore e contadino senza mostrare sempre unite queste due facce non sfiora né ha mai sfiorato nessuno. Aveva dunque ragione l'ultimo Vittorini, quel Vittorini che con
la sottile cattiveria dell'intelligenza che lo distingueva dette un tema ai suoi colleghi: la fabbrica, le aziende e la letteratura industriale. La proposta fu capita come un invito a entrare nelle fabbriche e nelle aziende e a parlarne. Invece era una sfida: se entri in fabbrica e lavori in fabbrica, sei operaio; se esci dalla fabbrica e non lavori più in fabbrica ma scrivi della fabbrica, sei scrittore, non sei più operaio. Scrittori e poeti rimasero sulla soglia.
L'autocritica di Vittorini - un'autocritica vera: il silenzio e poi la rinuncia a pubblicare un romanzo - appare ancora oggi un raro avvenimento nel panorama letterario nazionale. Che cosa criticò in se stesso Vittorini? Il suo umanesimo, il suo romanticismo, il suo profetismo. Chi ha memoria del suo "Diario in pubblico", ricorderà che, a un certo punto, c'è una descrizione di città, Chartres, che corrisponde a una perfetta immagine dell'ordine, della città ordinata, del mondo come si vorrebbe che fosse: una base popolosa, e, via via, in cerchi concentrici disposti a spirale che si assottiglia, la città ideale. E Vittorini, scrivendo, dava fattezze a un viandante che al lettore rimaneva scolpito nella memoria come in un bassorilievo: è un viandante che passa accanto a quella città e a un tratto la guarda come per imprimersela nella memoria. Era la città perfetta, la Gerusalemme che Vittorini aveva sempre cercato. L'aveva cercata nel fascismo di sinistra e poi nella letteratura e quindi nel comunismo. Quando
decise di mettere "Le città del mondo" nel cassetto, in lui le immagini di perfezione si erano cancellate: era inutile continuare la ricerca di Città eternamente consegnate alla loro perfezione: inutile e dannoso.
Ma è storia da fare. Quando sarà fatta, si vedrà che l'itinerario vittoriniano dal fascismo delle origini al socialismo fino al ripensamento che gli suggerì quella sfida da parte del radicalismo degli intellettuali italiani: di quelli dei tempi di Vittorini, ma anche di quelli dei tempi in cui analoghe crisi si manifestarono, con esiti differenti, tra i vociani, e, dopo, tra gli intellettuali che si avvicinarono al movimento operaio all'indomani della guerra. Per ora fermiamoci qui. Soggiungiamo, riprendendo un tema benjaminiano che ci convince, e perciò si ripropone, che anche questa è una storia di logocrati, di uomini convinti che il potere spetti a chi sa usare la parola.