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Coppola Aniello - 20 luglio 1979
Un partito contro i partiti
di Aniello Coppola

SOMMARIO: "Il Partito radicale non è un partito come gli altri, è un partito contro i partiti", e dunque lo slittamento del voto comunista verso il partito radicale "si collega ad altri inquietanti segnali". Perché una campagna elettorale "rabbiosamente anticomunista" ha sfondato a sinistra? E' stato un abbaglio parlare di "diciannovismo" e cogliere nel pannellismo "gli elementi di un nuovo mussolinismo?" Concorda su questo giudizio lo scrittore politico Paolo Farneti. Elenca quindi i tre dati di rottura introdotti da Pannella, analogamente a Mussolini, nella lotta politica. Comunque, le elezioni del 3 giugno hanno mostrato che "si attenua" "la vischiosità tipica dell'elettorato italiano". Nei tre anni della precedente legislatura il partito radicale ha sfruttato con "spregiudicatezza e aggressività" le contraddizioni apertesi nel blocco comunista quando il PCI ha cercato di entrare "in una maggioranza di governo". Le sue "intuizioni" si sono tradotte nella capacità di incidere "sul terreno politico con atti

dirompenti": così "il piccolo partito radicale" è diventato "il partito più destabilizzante". Esso aveva saputo sfruttare la tematica dei diritti civili intesi come "beni in sé", mentre i partiti della sinistra li vedevano solo come una "materia aggiuntiva". La sinistra ha commesso altri errori, come l'uso "rituale" della discriminante "fascismo-antifascismo" prescindendo dalle peculiarità "dei fenomeni eversivi più recenti". In conclusione, il pannellismo ha dato le "sue risposte" ad una crisi del sistema politico, una crisi che comunque "neanche i comunisti possono negare".

(»Rinascita del 20 luglio 1979 - ripubblicato in "I RADICALI: COMPAGNI, QUALUNQUISTI, DESTABILIZZATORI?", a cura di Valter Vecellio, Edizioni Quaderni Radicali/5, 1981)

Il Partito radicale non è un partito come gli altri, è un partito contro i partiti e dunque lo slittamento verso di esso di un'aliquota del voto comunista (e segnatamente di quello giovanile) non è omologabile al deflusso che, sia pure in proporzioni minori, c'è stato verso altre forze politiche. Se non altro per questo, sarebbe fuorviante credere che il problema si risolva trasformando in intelligente diplomazia una polemica forse troppo aspra e comunque scarsamente efficace; oppure aspettando che scoppino le contraddizioni tra una base elettorale di sinistra e un gruppo dirigente ambiguo. Se c'è stato un settarismo pre-elettorale, non lo si corregge con la bonarietà post-elettorale assolvendo Pannella, sull'altare dei risultati, delle colpe che gli sono state imputate. La dislocazione dei voti comunisti verso le liste della rosa si collega del resto ad altri inquietanti segnali: astensioni, schede bianche e nulle che per la prima volta hanno un segno di sinistra e penalizzano il Pci.

Il punto di partenza obbligato mi sembra questo: perché una campagna elettorale rabbiosamente anticomunista, ambigua, volta a pescare voti in tutte le direzioni, ha sfondato più a sinistra che a destra, e cioè proprio nelle zone in cui il deterrente dell'antifascismo, l'ancoraggio classista, la diffidenza istintiva nei confronti del qualunquismo sembravano barriere non superabili dal guerrigliero radicale? E' stato dunque un abbaglio o una faziosa esagerazione parlare di diciannovismo e cogliere nella prassi pannelliana gli elementi di un nuovo mussolinismo? ("Adsum qui feci": cfr. il mio articolo sul numero 17 di "Rinascita", del 4 maggio 1979). In verità, sono stato il primo, ma non il solo, a esprimere tale giudizio. Paolo Farneti, scrittore politico non sospettabile di faziosità preconcetta, è arrivato (sul "Mondo" del 1· giugno) a conclusioni identiche: nella personalità e nei comportamenti politici di Pannella si individuano elementi non di fascismo ma di mussolinismo. Può darsi che abbiamo sbagliato i

n due, ma né Leonardo Paggi ("Rinascita" n. 22 dell'8 giugno 1979) ne Giacomo Marramao ("Paese sera" del 21 giugno '79), nel contestare il mio giudizio, forniscono argomentazioni che lo smentiscono. Resto quindi convinto che il pannellismo ha molte facce e tra queste almeno tre che ricordano la rottura introdotta dal Mussolini del 1919 nel modo di far politica: il rifiuto di stare alle regole del gioco, con un uso della non violenza simmetrico a quello della violenza mussoliniana; la contestazione globale, da sinistra e da destra, della strategia, delle organizzazioni e delle tradizioni storiche del movimento operaio: la dissacrazione, a colpi di azione diretta, del principio rappresentativo e dei valori della democrazia. Questi dati di fatto non possono essere nascosti o trascurati solo perché il Pr ha guadagnato voti a sinistra; al contrario, vanno tenuti presenti per capire tutte le sfaccettature del fenomeno. Del resto, nel mio articolo quello spunto non poteva essere letto come un banale esorcismo antif

ascista. E gli elementi che sto per aggiungere dovrebbero fugare ogni dubbio.

Il 3 giugno si conferma una tendenza già profilatasi a partire dal 1974-'75: la vischiosità tipica dell'elettorato italiano si attenua, il voto tende ad essere determinato da motivazioni più politiche che ideologiche, e meno di prima vale il principio »"right or wrong my party" . La mobilità elettorale che tra il 1974 e il 1976, rende poco efficaci gli appelli alle scelte di campo, riflette in gran parte (ma non solo) la crisi dell'anticomunismo e gioca a favore del Pci. Tre anni dopo questa mobilità agisce soprattutto a danno dei comunisti. Ciò detto, non si può tacere un dato contraddittorio con questo e cioè che il voto radicale è oggi tra i più ricchi di carica ideologica ed esprime una scelta totalizzante, ancorché mutevole, di comportamenti e di valori. Coglierne appieno la valenza, anzi la polivalenza, è indispensabile.

Nei tre anni della settima legislatura il radicalismo sfrutta con molta spregiudicatezza e aggressività le contraddizioni che si aprono nel blocco politico-elettorale comunista quando il Pci entra in una maggioranza di governo e le speranza di palingenesi accese dal voto del 20 giugno 1976 si scontrano con il muro di gomma del potere democristiano. Il Pr conduce una politica concorrenziale e, insieme, di supplenza nei confronti del movimento operaio diventando il promotore e il beneficiario di una insoddisfazione che non trova sbocchi adeguati nella sinistra storica. Del Psi Pannella utilizza le oscillazioni e l'incoerenza, con una azione combinata di entrismo e di attacchi frontali. Del Pci invece combatte spietatamente la coerenza e profitta della logorante fatica spesa dai comunisti nel salvaguardare la maggioranza e imporle il rispetto degli impegni programmatici. Inoltre il radicalismo intuisce l'emergere di nuovi bisogni e aggrega i famosi movimenti trasversali che scalvano le partizioni di classe. Div

enta il promotore di azioni di protesta e di opposizione sul terreno dei diritti civili e, più in generale, sul piano del privato e del soggettivo (ad esempio, la libertà sessuale). E profitta largamente della insufficienza delle risposte istituzionali alle esigenze nascenti dalla crisi che attraversa questa società (ecologia, qualità della vita, ecc.).

Tali intuizioni si traducono in una capacità di incidere immediatamente sul terreno politico con atti dirompenti che prescindono dai rapporti di forza parlamentari e disdegnano la sfera delle mediazioni, che peraltro lo stallo istituzionale rende poco producenti o fini a se stesse. Il riuscire a dare immediato sbocco politico ed elettorale a queste insorgenze fa sì che il piccolo Partito radicale, con i referendum, con l'azione parlamentare e con l'attività extraparlamentare diventi il partito più destabilizzante ma anche, paradossalmente, il più operativo (se si tiene presente la sua scarsa consistenza). L'azione radicale produce comunque effetti suggestivi assai più vasti delle forze messe in campo.

Le basi sulle quali il nuovo radicalismo aveva cominciato a costruire le sue fortune erano stati i movimenti per i diritti civili, movimenti che avevano potuto esprimersi con forza crescente per la crisi dell'egemonia democristiana sulla società e grazie ai nuovi spazi di libertà conquistati dopo il '68. In verità, le istanze proposte dall'azione avanguardistica dei radicali erano state raccolte dal movimento operaio appena fu chiaro che la Dc non era disposta ad un accordo politico che facesse salva la sostanza della legge sul divorzio ma evitasse il referendum. Tuttavia, già in quella divergenza c'erano le premesse dei successivi conflitti. Il contrasto tra radicali e sinistra storica verteva infatti sia sui mezzi da usare (referendum o iniziativa parlamentare, azioni di rottura o mediazioni politiche) sia sul valore stesso dei diritti civili, delle lotte per la difesa dell'ambiente e della qualità del vivere. Questi erano concepiti dai radicali come beni in sé, mentre non tutta la sinistra comprese (la no

tazione è di Stefano Rodotà) le implicazioni sociali che comportava la loro affermazione. La tematica dei diritti civili fu vista dal movimento operaio come materia aggiuntiva facilmente inglobabile, ma in una posizione secondaria, nel proprio patrimonio. E si trascurò di riflettere sulla necessità di tradurre queste spinte in nuove forme di aggregazione, in nuovi centri di democrazia di base, in istituzioni originali corrispondenti all'originalità del fenomeno politico. Si lasciò cioè un largo spazio alle aggregazioni mobili promosse dai radicali, adagiandosi nella convinzione che il movimento operaio, in forza del suo stesso radicamento nella società, potesse realizzare un'operazione egemonica sul nuovo fronte di lotta.

Alla luce dei risultati elettorali si può constatare che la sinistra storica ha presunto un po' troppo di sé, ha fatto un eccessivo affidamento sulla propria forza organizzata e sulla impermeabilità del proprio blocco elettorale. Questi difetti sono stati poi amplificati da un certo appiattimento nella grande maggioranza.

L'incepparsi dei meccanismi di recupero propri del sistema liberaldemocratico (di cui si contestava il principio fondante, e cioè la conflittualità politico-sociale è fisiologica) ha contribuito d'altra parte a far scaricare ai margini o all'esterno delle istituzioni gli elementi di dissenso o di rifiuto.

La sottovalutazione o il misconoscimento di questo intreccio di fattori hanno esposto il fianco sinistro del Pci (ma anche del Psi) all'aggressione elettorale di Pannella e hanno ridotto l'efficacia della polemica antiradicale in difesa del patrimonio storico del movimento operaio. Alla sinistra ha poi nociuto l'uso un po' rituale e ripetitivo della discriminante fascismo-antifascismo. Non si è tenuto sempre conto che la rottura storica da cui è uscita questa repubblica risale a un terzo di secolo ed è stata vissuta o assorbita direttamente soltanto dalle generazioni che hanno superato i trent'anni. Inoltre il richiamo a questa discriminante è stato fatto prescindendo dalla peculiarità dei fenomeni eversivi più recenti. Si è trascurato, ad esempio, che le minacce più gravi alla democrazia italiana (strategia della tensione e terrorismo) sono solo in parte riconducibili a una matrice fascista, ma vanno attribuite a una degenerazione degli apparati e alle caratteristiche eversive assunte dal nuovo ribellismo,

e cioè alle forme peculiari che ha assunto la crisi di questo Stato e dei suoi meccanismi di riproduzione del consenso. D'altra parte, la pur giusta critica all'interclassismo o all'aclassismo dei nuovi radicali ha forse perduto la sua efficacia dal momento in cui l'emergenza economica e istituzionale sembravano essere diventati degli assoluti cui un certo patrimonio del movimento operaio veniva subordinato.

In conclusione, il pannellismo ha dato le "sue" risposte a una crisi del sistema politico e dei meccanismi istituzionali, crisi che neanche i comunisti possono negare se vogliono ricavare tutte le conseguenze dal travaglio di questi tre anni.

 
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