di Biagio de GiovanniSOMMARIO: "L'idea di una società a una dimensione segna profondamente di sé il nuovo radicalismo italiano" nato con gli anni '60. Si tratta di una lettura "italiana" dell'ispirazione che viene dalla scuola filosofica di Adorno ecc., a Francoforte. Il nuovo radicalismo tocca "un ceto che andava acquistando dimensioni di massa", e diventa portatore di una "richiesta di modernizzazione", sia pure attraverso alcune letture sommarie e abbrevianti delle tematiche di Francoforte. E' Qui che nasce "un'idea della politica come aspro meccanismo di compensazione e di comando"..."in parte estranea alla complessa questione moderna della democratizzazione". Il neoradicalismo ebbe il merito comunque di rompere con lo "storicismo conservativo" del movimento operaio, portando alla luce domande e bisogni nascosti, cioè le dinamiche che si muovono dall'"unico ai molti, dalla totalità alle particolarità": una "grande intuizione", anche se il suo rischio è la caduta nei "particolarismi" corporativi. Questo neoradicalismo "va meg
lio conosciuto e inteso da parte del movimento operaio", al di là delle critiche per la sua "dimenticanza" della "cultura della trasformazione". Ormai, il neoradicalismo "fa parte sostanziale" della "storia della coscienza italiana".
(»Rinascita del 20 luglio 1979 - ripubblicato in "I RADICALI: COMPAGNI, QUALUNQUISTI, DESTABILIZZATORI?", a cura di Valter Vecellio, Edizioni Quaderni Radicali/5, 1981)
L'idea di una società a una dimensione segna profondamente di sé il nuovo radicalismo italiano, allo scadere degli anni '60. Non si tratta soltanto del richiamo ovvio ad un celebre detto di Marcuse. In quegli anni, nel neoradicalismo emergente prevale una certa lettura »italiana dell'ispirazione che viene da Francoforte e che lega, lungo una via abbastanza serrata, esperienze e riflessioni diverse, che vanno da Adorno a Krahl. In quell'impatto anche aspro, si dissolse una forma stantia dello storicismo italiano, e tuttavia non di rado anche il filo sottile, ma espressivo, forte, che aveva legato in passato il radicalismo a un'analisi complessa della società e della storia. Due facce, insomma, che spiegano una vicenda fatta di intuizione ricche di storia e insieme di miti e di cattiva ideologia.
Mi pare che allora si verificarono due fatti di grande portata: anzitutto il radicalismo toccò un ceto che andava acquistando dimensioni di massa e che vedeva dissolvere la propria vecchia identità, e perfino il proprio rapporto con il sapere dominante; esso fu una forma di coscienza generale dei nuovi soggetti emersi dal e intorno al movimento studentesco. In secondo luogo, il neoradicalismo fu tramite e portatore di una richiesta di modernizzazione che contribuì a smuovere rapporti reali e a modificarli e, insieme, provò a spazzare via, con un gesto o con un atto di coscienza, complicati rapporti di forze reali e parti intere di un passato che sembrava presentarsi solo come vincolo.
Come giocava Francoforte in questa complicata linea di tendenza, nella formazione di una coscienza di massa? Attraverso, direi, due grandi abbreviazioni. La prima fu questa: una sorta di corto circuito fra merce e alienazione, che nasceva alla lettera dalle pagine della "Dialettica dell'illuminismo" - per avere qui, ben s'intende, un riferimento, non per cogliere così l'origine di un complicato fenomeno di massa che si stagliava all'interno di movimenti reali. Da quel corto circuito scaturiva l'immagine di una soggettività radicale sottratta di colpo all'intera formalizzazione del dominio, di cui si riconosceva per altro il carattere totalizzante e invadente. Quella soggettività era presa nella logica di un criticismo esplosivo, nel quale si perdeva spesso il senso delle distinzioni. Il dominio era tutto, come si sentiva ripetere in Adorno, e come dimostrava l'impatto con gli apparati di egemonia. E qui viene un'altra grande abbreviazione: un'idea totalizzante e concentrata di »dominio , sempre uguale e semp
re dappertutto, non veramente produttiva ma ridotta a una forma nuda e scheletrica del comando. Ne derivava un'idea della politica come aspro meccanismo di compensazione e di comando, misurata su determinate esperienze storiche (lo schema classico di Francoforte non si liberò forse mai da un nesso capitalismo-Stato autoritario-nazismo), ma in parte estranea alla complessa questione moderna della democratizzazione. Si preferì, non a caso, parlare allora di »dominio piuttosto che di »potere . Fin l'espressione dava il segnale di un'idea compatta del comando sul lavoro sociale, di una sorta di impossibilità a smussare la dura resistenza delle forme, in sé non toccate da una dinamica e da una dialettica fatte di contraddizioni e di possibilità. Era una potenza estranea, sottratta alla storia dei rapporti fra le classi e innervata tutta dentro la fisionomia e la funzione della classe dominante. Vecchie e nuove cose, intrise di marxismo ortodosso, di lukàcsismo, corti circuiti anche qui tra francofortismo e marxi
smo della Terza Internazionale, antichi difetti e marxismo che rifiutava i conti da fare con il sapere moderno. La soggettività critica e radicale si costituisce in uno spazio esterno a quel mondo di forme (e sino al neofrancofortismo di Habermas, non è questo il mondo dove si esprime lo spirito critico?), e gli si contrappone come una grande potenza umana.
L'istanza di modernizzazione che fu in modo caotico al centro di quegli anni, passò attraverso queste forme di coscienza e almeno in parte fu neutralizzata. Dico almeno in parte, perché poi bisogna ascrivere a merito di quel radicalismo gli elementi di rottura che esso portò verso uno storicismo conservativo che aveva non solo lambito, ma toccato dall'interno la cultura stessa del movimento operaio. Il criticismo radicale contribuì all'emergere di domande e di bisogni nascosti, che premevano sotto la pelle della storia talvolta celati e chiusi da un'ideologia dello storicismo. In questo senso, quegli anni permangono decisivi nella storia italiana.
E tuttavia allora il radicalismo non si tramutò direttamente in politica. Le cose non furono affatto così semplici come ho provato a descriverle, ma certo una componente di tipo critico-critico segnò profondamente di sé il radicalismo italiano degli anni '60; in questo senso la sua storia direttamente politica si esaurì presto o disperdendosi nel ribellismo o incontrando (e le cose allora cambiarono! e come!) la complessità storica del movimento operaio organizzato, e quindi non la storia dell'umanesimo radicale ma quella dei rapporti politici, dei soggetti sociali, di un nuovo Stato in formazione.
2. Da Francoforte a Foucault c'è un passaggio complesso nella storia del neoradicalismo italiano. Si tratta del passaggio dal dominio ai poteri, dall'unico ai molti, dalla totalità alle particolarità, dal dominio-uno ai poteri diffusi. E, in questo passaggio, c'è qualcosa di più da portare alla luce. Il dominio è nudo comando, forma pura del comando sul lavoro sociale; il potere è una forma più articolata, che produce sapere, che comprende in sé - in qualche modo - una tematica di egemonia diffusa. La stessa politica si può rivalutare, nel senso che nel suo meccanismo generale penetrano logiche particolari, e soggetti che possono decomporre il vecchio formalismo.
Muta così almeno una faccia del radicalismo critico e questo mutamento entra nella sua storia politica, la determina e insieme deriva da essa. Cambia l'immagine dell'unico che va rovesciato. Emergono le particolarità come punti critici. Ciò si incontra drammaticamente con i particolarismi (aggiungerei »corporativi , se non cominciassi a temere l'abuso del termine) entro i quali si articola la società moderna rispondendo alla propria stessa crisi di organizzazione. Ma è indubbiamente un fatto che il neoradicalismo di oggi punta su queste particolarità. Immagina spesso che non vi sia altro da esse, e che sulla potenza del particolare vi sia da poggiare per determinare il soggetto critico. Voglio subito sottolineare che in questo atteggiamento c'è una grande intuizione che segna e penetra un andamento effettivo della realtà così com'è. C'è l'intuizione che la realtà sociale si forma e si rafforza secondo verità-poteri locali, e che non è facile costituire una soggettività critica e »umana come rovescio esterno
e speculare di un sistema compatto. Nel radicalismo che - per semplificare e per intenderci - viene dalla Francia, ricompare una logica di distinti e pare più aderente e quasi scolpita sugli specialismi in cui si determina la moderna società industriale. La criticità tende a farsi interna ad essi, e almeno in parte diluisce i connotati di una soggettività genericamente umana.
Questo radicalismo e la cultura che esso porta va meglio conosciuto e inteso da parte del movimento operaio. Esso può incontrare la grande questione moderna della democratizzazione se trova chi lo aiuta a spezzare il rigido formalismo del nesso potere-sapere e a mettere più francamente in quello schema la dimensione politica. Tuttavia ciò non è possibile rimanendo all'interno dei suoi schemi mentali e del suo atteggiamento culturale che dà per scontata l'immutabilità della forma potere e tende dunque solo a porre la questione della garanzia dal potere (neogarantismo e neoradicalismo tendono infatti, nelle cose, ad incontrarsi, pur avendo radici culturali diverse e talvolta opposte) piuttosto che il problema della sua trasformazione. E' questa la critica principale che all'atteggiamento radicale portano la cultura e la politica del movimento operaio. E da essa si deve muovere, per afferrare la grande »dimenticanza radicale: una cultura della trasformazione che mette in rapporto le particolarità del sistema,
gli specialismi dalla politica.
Il neoradicalismo italiano di questi dieci anni è una parte importante della storia della coscienza italiana, fa parte sostanziale con essa, non e più eliminabile da essa. Esso ha contribuito alla costituzione di una soggettività »critica in luoghi specifici dove la forma si era presentata come integrale e priva di smagliature. Sappiamo bene che questa soggettività critica non va presa per buona così com'è; sappiamo anche che alla sua costituzione hanno lavorato in modi differenti e spesso opposti neoradicalismo e movimento operaio. Ma sappiamo anche che nessun soggetto sostanziale e generale può tornare sulla scena della storia come egemone a riflettere soltanto la prima immagine, e che le forme, le particolarità dominano come non mai (oltre le apparenze) la realtà. E basterebbe questo per essere costretti a rifare i conti, da parte del movimento operaio, con la propria cultura, e per incontrare, criticamente s'intende, e da protagonisti della storia moderna, la cultura degli altri le forme di sapere dentr
o le quali vivono soggetti reali, domande, bisogni. Ma tante altre cose sono in movimento, a smentire il detto dell'Ecclesiaste: »Niente di nuovo sotto il sole .