di Giacomo MarramaoSOMMARIO: La crescita del nuovo radicalismo impone al movimento operaio una seria revisione teorica: il fenomeno appare come segno di una "crisi di legittimazione delle forme tradizionali della rappresentanza politica che non è solo italiana". Inutile imputarlo al fattore del "malgoverni" della DC. Entra in crisi la classica distinzione tra "struttura e sovrastruttura", e in genere la "visione marxista" del percorso tra rapporto di produzione, sindacato e partito. Comprendere la dinamica interna della "modifiche strutturali" che hanno prodotto il fenomeno significa per il movimento operaio recepire la nozione di "crisi del sistema" con la moltiplicazione, non solo "corporativa", dei "fattori conflittuali". Per capire tutto ciò occorre abbandonare l'idea della "centralità operaia" e l'ipotesi di una unità politica "sotto il monopolio di un partito". Occorre anzi ridefinire la stessa "forma-partito", e la problematica istituzionale. E' inutile illudersi di riportare "l'emergere delle differenze" ad una fittizi
a unità.
(»Rinascita del 20 luglio 1979 - ripubblicato in "I RADICALI: COMPAGNI, QUALUNQUISTI, DESTABILIZZATORI?", a cura di Valter Vecellio, Edizioni Quaderni Radicali/5, 1981)
Afferrare le ragioni profonde - né occasionali, né congiunturali - del fenomeno radicale in Italia e della rinascenza di un radicalismo e individualismo diffuso in quasi tutti i paesi occidentali, è un problema culturale, prima che politico. Un problema che impone al movimento operaio una verifica "alle radici" del proprio bagaglio teorico - non certo soltanto una riattrezzatura analitica o una semplice operazione di »recupero , di rattoppo, di otturamento di falle. Alle prese con questi fenomeni, i partiti della sinistra italiana (ed europea: ma per quella italiana il fenomeno si manifesta in termini più vistosi proprio a causa dei progressi pratici che siamo riusciti a compiere negli ultimi dieci anni) denunciano il limiti culturali della propria tradizione. Questo "gap" culturale si manifesta come incapacità di comprendere entro le vecchie casse categoriali i caratteri e la configurazione dei nuovi movimenti, impotenza ad afferrare le ragioni che hanno prodotto una "scollatura tra partiti e società" desti
nata a diventare ancora più vistosa in assenza di un rinnovamento che investa nel profondo l'intero sistema politico-istituzionale.
Il fenomeno del neoradicalismo (che attinge alla stessa fonte del neoliberismo) appare come lo specchio fedele di una crisi di legittimazione delle forme tradizionali della rappresentanza politica che è anche simultaneamente, crisi del modello unitario (sintetico) di ragione, dominante nel movimento operaio (e comunista in specie). La sostanza di questo fenomeno è data dal complesso dei processi comunemente indicati sotto il termine »terziarizzazione . Si tratta ormai di capire che questa linea di tendenza non è un segno dell'arretratezza italica o un effetto del regime »clientelare democristiano, che avrebbe favorito forme di lavoro »improduttive , ma piuttosto un tratto ormai comune a tutti i paesi industriali (come ha documentato Romano Prodi sul "Corriere della Sera" in relazione agli Stati Uniti). Questo "trend", la cui marcia si è venuta accelerando nel corso dell'ultimo decennio, mette in crisi la stessa idea marxista di sviluppo, ivi compresa la distinzione classica tra lavoro produttivo e lavoro im
produttivo, per non dire delle visioni tradizionali della crisi e della proletarizzazione, con i loro indispensabili, perché organici, corollari strategici: alleanze sociali, blocco storico, ecc. Che l'Italia presenti una crisi dalle forme assai più »squilibrate è un dato di fatto. Sarebbe però quantomeno fuorviante vedere la peculiarità del »caso italiano in una sorta di aggravamento cumulativo di contraddizioni ataviche o nel mero fattore soggettivo del »malgoverno : vista nel quadro internazionale, la situazione del nostro paese somiglia piuttosto a quella di una casa squilibrata da una tensione costante di pesi e contrappesi, che nel suo precario reggersi dimostra meglio di ogni altra le leggi di gravità.
Ma tornando ai limiti culturali, c'è un altro apparato concettuale che viene seriamente ad incrinarsi di fronte alla frantumazione-scomposizione del processo riproduttivo: la distinzione tra »struttura e »sovrastruttura . L'impatto delle "domande innovative" dei nuovi soggetti e dei nuovi fattori critico-culturali sui meccanismi e i vincoli che reggevano le politiche economiche e le forme di governo delle democrazie industriali, si rivela nella crisi degli anni '70 (come avevano previsto Kalecki e Schumpeter) almeno altrettanto determinante della »contraddizione fondamentale ; espressa dalle lotte operaie. L'emergere di aggregazioni per "issues", che coinvolgono »trasversalmente soggetti di estrazione diversa su tematiche al tempo stesso specifiche e implicanti questioni generali (diritti civili, ambiente, nuova qualità della vita, ecc.), sottopone a tensione la visione marxista, che inchioda lo sviluppo della »coscienza di classe alle tappe obbligate di un percorso che dal rapporto di produzione procede
all'organizzazione sindacale sul luogo di lavoro e infine al partito politico. La crisi di questa visione lineare appare ancora più significativa, se si pensa che a queste nuove battaglie e aggregazioni partecipano attivamente non solo strati borghesi o piccolo-borghesi emarginato e declassati (il cosiddetto »radicalismo urbano ), ma anche fasce cospicue dell'ultima generazione operaia.
D'altra parte, le modifiche »strutturali (nel senso radicalmente antideterministico del termine) da cui sono scaturite queste tendenze oggettive di crisi, non devono farci perdere di vista la loro "dinamica" interna. Comprenderla significa recepire senza remore e reticenze nel nostro vocabolario politico (e nella nostra "forma mentis") la nozione di »crisi di sistema . Già alla fine del decennio scorso, la crisi aveva investito al cuore il prerequisito istituzionale delle politiche economiche keynesiane: l'assioma della prevedibilità-programmabilità "ex ante" delle variabili conflittuali. Nel corso degli ultimi anni questo fattore si è ulteriormente acutizzato, in seguito all'aumento massiccio dell'occupazione dipendente e alla simmetrica segmentazione del mercato del lavoro. Il che non significa che si sia in presenza di un processo di corporativizzazione a senso unico. Piuttosto, ciò che appare a prima vista come »corporativo riflette in realtà una moltiplicazione di fattori conflittuali, che sarebbe imp
ensabile e utopistico governare in un quadro di vincoli prestabilito. Dal punto di vista del movimento operaio, la valorizzazione in senso strategico di questi nuovi soggetti non può avvenire che con un coraggioso distacco dalle »sorti magnifiche e progressive di uno »Stato assistenziale irretito nei tempi del suo inesorabile declino.
Ma ciò impone, sul piano teorico, una vera e propria »rivoluzione copernicana : un superamento dell'idea di centralità operaia come motore immobile di una politica di alleanze, il cui fuoco propulsivo sarebbe oggettivamente dato e indiscutibile. Non basta affermare, ripetendolo fino alla nausea, che il problema è quello di ricondurre le diverse forme del conflitto ad unità e sintesi: ciò rischia infatti di risultare, a seconda del punto di vista da cui si guarda alla crisi attuale, troppo o troppo poco. "Troppo": perché sarebbe velleitario compiere questa operazione con le attuali strutture politico-organizzative. "Troppo poco": perché potrebbe risolversi in una proposta di »alleanza che, allo stato dei fatti, recupererebbe solo una parte (con ogni probabilità minoritaria) dei »nuovi soggetti , producendo così un'inevitabile radicalizzazione degli »esclusi .
La »riunificazione non è oggi più pensabile e praticabile sotto il monopolio di un partito, o meglio "del" partito in quanto tale. Essa presuppone al contrario una ridefinizione e un ripensamento profondi della stessa forma-partito, ed è pertanto legata alla capacità propositiva e progettuale che la sinistra, "nel suo insieme", sarà capace di esprimere. Ciò presuppone da parte del partito tesso un contemporaneo lavoro di ridefinizione dei propri compiti, sia in rapporto ai movimenti (che vanno considerati nella loro autonomia), sia in rapporto alle istituzioni. Lavoro che non può evitare il nodo cruciale che si presenta come la faccia speculare della »complessità sociale : vale a dire il problema istituzionale. Una pratica istituzionale efficace deve avere la propria bussola in una consapevolezza, analiticamente attrezzata, delle trasformazioni avvenute nello Stato capitalistico nell'ultimo mezzo secolo, e giunte a maturazione estrema nella crisi odierna. Occorre capire fino in fondo i limiti di una visione
riduttiva della dimensione istituzionale, sia nella versione formalistico-giuridica di una nozione conflittuale della democrazia, sia nell'idea dell'inesorabile tendenza allo »Stato autoritario propria delle piattaforme neogarantiste (le quali, peraltro, presentano spunti analitici tutt'altro che trascurabili). "Anche la dimensione statuale e istituzionale possiede, al pari di quella sociale, la prerogativa della complessità". A ben guardare, l'aspetto più acuto e pericolosamente penetrante delle analisi prodotte dall'Autonomia, sta proprio nel rifiuto di concepire lo Stato come una »rocca , una fortezza autoritaria, e nel cogliere a suo modo (da un punto di vista ribellistico-eversivo) che le trasformazioni istituzionali hanno dato luogo, dalla grande crisi in avanti, a un contesto costituzionalmente contraddittorio e irriducibile a un codice univoco.
Nessun lavoro di rinnovamento è dunque possibile se non si parte da queste trasformazioni come punti di non ritorno e se si continua a coltivare segrete nostalgie di ricomposizione organica del conflitto. Affermare ciò non significa appannare la dimensione di lotta e le finalità di trasformazione, ma al contrario rafforzarle, individuando preliminarmente le condizioni della loro reale "efficacia", della loro effettiva possibilità di successo. Qui, e non altrove, va tracciato lo spartiacque dall'ideologia del neoradicalismo, che vede sì, e lucidamente, la dinamica di scomposizione che caratterizza la crisi odierna della rappresentanza politica, ma crede di poterla spiegare a partire dal bisogno individuale, genericamente umano, irriducibile alla »massificazione moderna delle organizzazioni partitiche e sindacali. Se l'emergere delle differenze, del »discreto , è un dato innegabile e irreversibile, lavorare perché la struttura »discreta concorra, nei suoi diversi elementi, a un progetto di trasformazione non
vuol dire ignorare il »discreto stesso o prepararne autoritariamente la soppressione, ma piuttosto esaltarne gli elementi di differenziazione e di "reale" autonomia, rendendoli effettivamente innovativi e produttivi.