Intervista ad Alessandro Nattaa cura di Fabio Mussi
SOMMARIO: [Intervista]. Per capire i vari fenomeni in atto nelle "società di capitalismo maturo" ma anche nei paesi socialisti tra il '67 e il '69 bisogna usare anche termini come quello di "autonomia", ad es., nel rapporto con "le formazioni storiche del movimento operaio". Non si capisce queste tendenza senza tener contro del "fallimento ...del centrosinistra" e del "malgoverno" DC-PSI. Il punto di riferimento di queste "espressioni politiche" resta infatti ancora il PCI, "perno della battaglia di rinnovamento" ogni volta che si è reso conto "di ritardi e dell'esistenza di problemi inusitati". Il radicalismo ha una linea "in contrasto" con l'impostazione strategica del PCI circa i rapporti con il "movimento cattolico": ma non "da sinistra", visto che esso contesta proprio la leadership della classe operaia nel paese. L'intervistatore richiama i "deludenti esiti sul piano delle libertà" del socialismo reale, ma l'intervistato riporta la questione al tema della nuova "offensiva capitalistica", sul quale deve
esserci un "punto di discussione" col radicalismo, che invece "oscura" il "dato di classe"; egli sostiene quindi che su divorzio e aborto ha vinto la linea del PCi e non quella radicale, ma ammette che sul terreno della "qualità della vita" è stato perso tempo. Bisognava tuttavia combattere più a fondo la battaglia culturale "contro impostazioni radicali" arretrate, come "il metodo" referendario, che "abroga" ma non costruisce: si veda il referendum sul finanziamento dei partiti, che è un attacco contro "la concezione della democrazia organizzata", così come lo è la critica al "rapporto privilegiato" Dc-Pci. In definitiva non pare possibile delineare un vero e proprio "progetto", nel "rifiuto" di programma che è la forza ma anche il limite del radicalismo, che ha avuto "come suo obiettivo il logoramento dei comunisti".
(»Rinascita del 20 luglio 1979 - ripubblicato in "I RADICALI: COMPAGNI, QUALUNQUISTI, DESTABILIZZATORI?", a cura di Valter Vecellio, Edizioni Quaderni Radicali/5, 1981)
- "Ci occupiamo in questo" Contemporaneo "della questione del radicalismo non solo perché il partito di Pannella ha riscosso un buon successo nelle ultime elezioni politiche. Una »questione del radicalismo in realtà riemerge, con connotati nuovi, in questi anni '70, prima che il Partito radicale assuma una consistenza elettorale e ne divenga uno dei punti di riferimento. E' evidente che tale questione ha confini ampi e informi. Possiamo parlare di un'»area , composita, eterogenea, caratterizzata dal fatto che non può essere assimilata alle grandi tradizioni politiche e culturali italiane - comunista, socialista, cattolica - di cui sempre parliamo per mostrare le radici popolari della politica e della cultura. Ecco intanto un interrogativo che vogliamo porti: come giudichi quest'area, è consolidata, è in evoluzione, quali caratteristiche vedi?"
NATTA - Alla fine degli anni '60 emergono tendenze, spinte, esigenze di cambiamento profondo che investono le società di capitalismo maturo, in cui sono andati avanti intensi processi di industrializzazione, e in cui, alle vecchie contraddizioni ("storiche", diciamo noi: come in Italia quella meridionale), se ne sono aggiunte delle nuove anche di portata mondiale (come quella femminile e, in larga misura, giovanile). I momenti di maggior rilievo, in questo processo, si presentano tra il '67 e il '69, ed hanno proporzioni molto vaste (non si deve dimenticare che investono anche i paesi socialisti). C'è una contemporaneità tra il fallimento delle politiche neocapitalistiche e i processi critici che investono il nodo socialismo-democrazia. Il '68 è anche l'anno della Cecoslovacchia.
Non è proprio esatto dire che alla fine degli anni '60 »riemerge una questione del radicalismo . Altre parole ed altri concetti sono stati infatti usati per quei movimenti. E' evidente che essi hanno caratteri »radicali , che io però non confonderei con l'espressione e la tradizione politica del radicalismo italiano. Bisogna subito usare infatti anche altri termini: quello dell'»autonomia , per esempio, nel rapporto con le formazioni storiche del movimento operaio, dell'»antagonismo , verso i partiti e i sindacati.
Sono tendenze che in Italia non si comprendono prescindendo dal fallimento della politica di centro-sinistra. Basti pensare al mancato raccordo tra lo sviluppo e la riforma dell'università, tra la crescita di forze intellettuali, e una programmazione economica.
E ancora al ritardo del rinnovamento e nel decentramento dello Stato: tutto il tema delle autonomie regionali, che è il tema del centrosinistra, nel '62, arriva alla decisione solo nel '70. E si pensi al coinvolgimento del Psi, che è il secondo partito del movimento operaio, nel sistema di potere e nel modo di governare della Dc, fondato sulla simbiosi di partito e Stato, sulla commistione di pubblico e privato, la distorsione in termini clientelari dell'intervento statale in economia - quello che è stato chiamato »il malgoverno .
Cosa dovremmo mettere in luce? Che nel nostro paese il punto di riferimento fondamentale anche di espressioni politiche, determinate da questo complesso di realtà - dalla tematica dei diritti civili a quelle dell'articolazione e dello sviluppo della democrazia italiana, a quella tipica di tutta una tradizione radicale, del »buongoverno - continua ad essere il partito comunista: un partito che si mostra in grado di ricondurre una grande molteplicità di spinte a una linea complessiva di rinnovamento e di trasformazione. Nell'ultimo decennio il perno della battaglia di rinnovamento è stato il Pci.
Cosa dovremmo aggiungere, però? Che noi abbiamo faticato. Il rapporto nostro con forze, con uomini, con »soggetti - come si dice - nuovi, non è stato lineare, è stato anzi difficile. Però voglio dire che questi elementi che vengono oggi chiamati di »nuovo radicalismo non sono stati estranei, o in opposizione, alla cultura e alla politica del movimento operaio, e in effetti in esso hanno trovato - quando ci siamo resi conto di ritardi e dell'esistenza di problemi inusitati - uno strumento decisivo di affermazione: non sono state cose di un'"altra" classe, e di un'"altra" cultura. Senza assolutamente negare, o sottovalutare, il fatto di una presenza e di una ripresa di idee e di indirizzi, politici e culturali, di tipo e di matrice "specificamente" radicale.
Non c'è dubbio ad esempio che su una questione nodale, divenuta stringente negli anni recenti, in rapporto alla crisi italiana, come quella del "movimento cattolico", nella sua complessa configurazione, c'è una linea, e un'area, di tipo radicale, che è stata in contrasto, e non da oggi ma in tutto il trentennio, con la nostra impostazione strategica, quella di un rinnovamento della società e dello Stato, di una laicizzazione, di un'avanzata democratica verso il socialismo, attraverso l'incontro, la collaborazione, l'intesa tra le forze del movimento operaio e quelle, popolari e progressiste, di ispirazione cattolica. Si è fatta avanti, con più energia negli anni recenti, una sorta di ipotesi dell'»alternativismo , che punta a realizzare obiettivi, anche giusti, attraverso la rivincita storica, la separazione, la contrapposizione: una battaglia d'urto. Questa linea si è riflessa in tutta la lotta per i diritti civili.
Ma il punto che mi preme è questo: io credo che tale impostazione strategica - che non appartiene solo ai radicali, investe un'area più larga: è stata anche presente nell'azionismo - dev'essere analizzata più a fondo. Io dubito che sia una contestazione a noi »da sinistra . Perché in realtà ciò che in definitiva si contesta è il diritto, e la capacità, della classe operaia di essere forza dirigente di un processo di trasformazione del nostro paese. "Chi dirige questo paese?" Dirigono le forze del movimento operaio, le forze popolari, oppure dirige il »sale della terra , il partito degli intellettuali?
Non dico queste cose con alterigia, o con disprezzo. Sono uno che le ha anche vissute da giovane, queste vicende. Mi pare però di vedere, in questa, a volte rabbiosa, contestazione di vecchi azionisti e di nuovi radicali (non parlo di ex-comunisti, che possono avere diverse motivazioni), un vuoto fondamentale: chi dirige questa società per cambiarla. Siamo al cuore del problema politico di oggi.
L'area, sia pure eterogenea, di cui parliamo ha messo a frutto il divario tra esigenze, aspirazioni, bisogni nuovi, e la lentezza, la contraddittorietà del cambiamento che ha visto impegnati noi comunisti in modo diretto. Il punto fondamentale di aggregazione è l'economico, il sociale; non è stata la polemica verso la politica di unità, fino ad una contestazione più di fondo più globale, della tradizione, della strategia, dell'organizzazione del movimento operaio dei suoi partiti e dei suoi sindacati.
- "Bisogna dire che questa »contestazione globale è alimentata dai deludenti esiti sul piano delle libertà, del socialismo, su scala mondiale. Tu poco fa hai voluto ricordare la Cecoslovacchia: è stato un episodio che, negli anni successivi al '68, ha avuto un'influenza cruciale. Tu comunque hai già parlato del '68, che si può indicare come un momento di svolta partire dal quale emerge questo nuovo radicalismo. Il giudizio del nostro partito sul '68 si è formato attraverso una lunga discussione e successive approssimazioni. Tu che ne pensi?"
NATTA - Abbiamo preso come riferimento il decennio. Sul '68 voglio dire ancora due cose:
1) Nel '68 noi siamo stati messi di fronte ad un arricchimento ed un mutamento dei termini della lotta di classe, non solo nel senso delle »forze nuove , ma anche di »nuovi campi di iniziativa e di lotta. Non si può dire che nel passato abbiamo avuto una visione angusta e riduttiva della lotta di classe: se un merito storico c'è da rivendicare, è quello di aver visto la lotta della classe operaia nei termini delle alleanze del blocco sociale, dell'egemonia (che poi significa ricerca del rapporto aperto, del consenso, ecc.). Però le cose sono venute mutando: si determina il problema di una nuova configurazione delle alleanze. Si pensi solo alla scuola; negli anni '60 abbiamo giustamente posto la questione della scuola al centro della battaglia culturale, mentre però tale questione investiva direttamente altri ambiti, lo statale, era un cambiamento facile da afferrare prontamente, anche per chi aveva sostenuto la svolta nella politica culturale del Pci, quando dall'interesse prevalente verso - che so? - il ci
nema, la pittura, la letteratura, l'asse si spostò verso la scuola. Prendiamo ancora la questione dei rapporti personali: non basta dire: »c'è sempre stata , il fatto è che è venuta storicamente trasformandosi ed ha preso in epoca più recente un posto centrale.
2) Le vicende della fine dello scorso decennio mettono in discussione senza dubbio, le forme e i modi dell'organizzazione e della direzione politica. I rapporti partito-masse, cittadino-istituzioni, Stato-partiti, si vengono nuovamente problematizzando. Noi abbiamo fatto alcune cose, tornando a discutere e a riacquisire più a fondo il principio della democrazia politica, il nesso con il socialismo (l'atteggiamento stesso verso la vicenda cecoslovacca non è cosa da poco). Abbiamo ripensato la funzione del partito in presenza di un aumento di pluralismo e di una autonomia dei movimenti di massa. Le affermazioni concettuali sono state di grande rilievo, anche se si può discutere della loro realizzazione.
Nel decennio c'è stato dunque un incremento di libertà, una crescita di democrazia, un'affermazione del ruolo del movimento operaio più che in altri periodi, e più che in altri paesi. Questa è una singolarità (e la parte nostra è stata grande). Di fronte alle nuove contraddizioni sviluppatesi con la crisi, mi pare che restino forti le tendenze al cambiamento. Lo dice lo stesso risultato elettorale, nonostante gli elementi fortemente critici (ci piacciono o no: il 4 per cento perso non è poco).
Lo scontro si è fatto oggi più acuto, più duro. C'è un'offensiva capitalistica, un tentativo di rivincita. Qui trovo un punto di discussione con quest'area di radicalismo. Il dato di classe - non in astratto, ma in concreto, e oggi - viene in sostanza oscurato, nella impostazione radicale. Senza metterlo in luce, però, e senza dunque che vada avanti la classe operaia e il suo movimento, sarà difficile dare risposte anche a quel cumulo di esigenze nuove di cui prima si parlava. In una bellissima nota (»Che cos'è l'uomo? ) Gramsci parla delle »diverse società in cui l'uomo può trovarsi impegnato a muoversi e a combattere, per risolvere i problemi della stessa sua vita (è un'impostazione che guarda all'individuo, e individualistica al tempo stesso). Ma non esistono solo queste »diverse società : esiste la "società". Se si perde questo, ci si espone alla frammentazione della politica, al trionfo dei particolarismi, degli autonomismi.
- "In sostanza, si è venuta determinando una contrapposizione abbastanza netta tra noi comunisti e radicali. La storia di questo rapporto però è complessa. Bisognerebbe forse riandare molto indietro, ma restiamo pure, come abbiamo convenuto di fare, a questo decennio. Esistono più fasi di rapporti, e anche delle capacità egemoniche del movimento operaio. Come individueresti tali momenti egemonici? E quali sono i momenti, e le reazioni, di più aperto scontro e di rottura?"
NATTA - In questi dieci anni ritengo che il Pci sia stato alla testa di grandi battaglie di liberazione e di uguaglianza, su una linea vincente. Quali i momenti »egemonici ? Nel '74, nel referendum sul divorzio, prevalse, vincendo una concezione nostra, non radicale: la ricerca della soluzione attraverso una ascolto delle posizioni presenti anche nel mondo cattolico, di un rapporto, di una non ideologizzazione, di una non estremizzazione. In notevole misura si può dire lo stesso per la travagliata vicenda dell'aborto.
Ma bisogna dire anche cose critiche. Io credo che da parte nostra occorreva in primo luogo un'assunzione più tempestiva e diretta dal complesso dei problemi relativi, come si dice oggi, alla »qualità della vita (dei rapporti interpersonali, dei rapporti interpersonali, del rapporto uomo-donna, del rapporto uomo-natura, ecc.). Berlinguer giustamente ha detto che »non vi sono contraddizioni . Però ci sono stati dei vuoti anche grandi. A quel fine la trasformazione della società, se non di una più ampia libertà della persona umana del benessere, della felicità...? Abbiamo avuto una grande intuizione: cosa è stata infatti la linea nostra, nel dopoguerra, sulla emancipazione della donna, se non questa idea, che ciò doveva essere un momento costituente della più generale avanzata democratica? Tutta l'impostazione di Togliatti era volta a non rinviare al dopo: »quando ci sarà il comunismo... . Non ritrovo una continua coerenza nel nostro modo di muoversi. Semmai abbiamo perso qualcosa, rispetto ad altri momenti, i
n cui noi siamo stati il »partito della libertà .
In secondo luogo trovo anche che bisognava combattere più a fondo la battaglia, culturale e politica, contro impostazioni radicali, sul terreno dei contenuti. Sui contenuti ci siamo costantemente trovati di fronte alla "unilateralità critica". Che è grande cosa, ma che non è ancora la soluzione in positivo. Sull'aborto i radicali chiedono solo l'abolizione del codice Rocco: dopo di che? Sull'energia i radicali dicono solo di no al nucleare: dopo di che? Bisogna pur prospettare delle vie, non si può immaginare un ritorno allo stato di natura. "Et in Arcadia ego"..., può dirlo Pannella, ma non noi.
- "Il radicalismo - tu ne hai già accennato - ha operato in modo molto energico sugli aspetti di crisi politica attraverso una critica alle istituzioni, ai partiti, al rapporto dato tra governanti e governati. C'è forse l'idea (del resto apertamente espressa anche in questo "Contemporaneo") di una morte del partito costituzionale moderno, o almeno di una crisi verticale. Anche di qui la tematica del referendum.
Non sono interrogativi, e pressioni reali, che aspettano delle risposte adeguate alla complessità della situazione che si è venuta creando, non solo nel nostro paese, ma in tutta l'area del capitalismo occidentale?"
NATTA - Ai contenuti, alle »unilateralità critiche di cui dianzi parlavo, corrisponde il metodo del referendum. Il problema non è contrastare il ricorso a questi strumenti, che già, nella Costituzione, ha un limite: è abrogativo. Abolisce un esistente - grande cosa, anche questa - non costruisce niente. Il referendum non può diventare l'anima di un diverso tipo di democrazia, chiamando il popolo al sì e al no. Ma una democrazia più sostanziale, e più moderna, comporta un intervento delle masse nella politica.
Abbiamo avuto qualche incertezza: non si tratta di negare la validità di certe esigenze, ma di giudicare la congruità dello strumento. La strategia referendaria ha essenzialmente mirato a rompere a sinistra. Il referendum del '74 è stato un momento di grande raccolta democratica, quelli del '78 no, in particolare il referendum sul finanziamento dei partiti. L'attacco venne portato contro la concezione della democrazia organizzata (il che non significa negare i limiti, e anche gli elementi di crisi, dei partiti). Il filo conduttore, dopo il 20 giugno, è stata la critica al »rapporto privilegiato Dc-Pci, al »regime ecc. Si è mirato a logorare il rapporto del Pci con le masse. Il punto più serio di rottura è stato nella contestazione radicale di una visione della lotta politica. Abbiamo fatto in realtà poco per contrastare questa visione che contiene dei pericoli, portatrice com'è di elementi di crisi per il regime democratico. Di questo regime vediamo bene la quantità di cose che non vanno, ma la risposta ra
dicale porta in sé una minaccia. Essa assume una serie di istanze valide, di libertà, di garanzie, di indipendenza, di autonomia (fino a configurare l'ipotesi di Stato federalistico, molto diversa da quella istituzionale): manca del tutto il momento della sintesi, della direzione politica.
Ora, io ritengo che nella nostra società, ma in tutte le moderne società, una trasformazione su base non autoritaria, il governare una transizione sulla base del consenso, se non può soffocare la spontaneità, esige però il momento della direzione, della mediazione, della sintesi politica. E per ora non si sono trovati altri strumenti di organizzazione o mobilitazione delle masse più valide e più vitali del partito.
Non credo che la democrazia possa essere ridotta ai partiti e alla istituzioni. Ma dobbiamo stare in guardia dall'idea di una democrazia - come ho visto scritto - »che non si istituzionalizza mai . Dobbiamo ripensare sulle forme di democrazia senza potere: attenti ai gusci vuoti! I radicali pensano anche al Parlamento come grande "cavea". Non si può fare a meno dei canali organizzati attraverso cui le »diverse società - per riprendere il termine gramsciano di prima - in cui l'uomo si trova a vivere, incontrano il momento di raccordo, di direzione, di decisione.
Mi pare impossibile delineare un »progetto radicale di fronte al complesso di contraddizioni del capitalismo maturo. Non solo perché c'è il »rifiuto di un programma. Ma perché non vedo una linea "alternativa" al progetto di trasformazione del movimento operaio. Ho già detto che nel radicalismo restano in ombra gli aspetti di classe del conflitto. Ecco il fondamento della unilateralità radicale. C'è una forza in essa; la forza del rifiuto. Che è però il suo limite. Questi orientamenti hanno incontrato una congiuntura favorevole: il peso crescente dei problemi combinato con le difficoltà di innovazione e di riforma. Ma c'è la lotta politica, non solo i fenomeni oggettivi. Il radicalismo in questi anni ha avuto sollecitazioni, coperture. Non voglio compiere meschine ritorsioni. Ma i radicali non sono stati una forza isolata: l'iniziativa dei referendum non è solo loro, è stata in certa misura appoggiata dai socialisti, ed ha suscitato interesse nella DC (la disputa degli otto referendum aveva un punto di rife
rimento nella questione dell'aborto). Non parlo di disegni occulti, ma di una lotta politica che ha avuto come obiettivo il logoramento dei comunisti. Il passo lento, il blocco delle iniziative parlamentari della disciolta maggioranza, trova una causa anche nell'ostruzionismo della pattuglia radicale.
Ora siamo al punto, perché siamo noi di fronte a scelte politiche. Ritengo che la distinzione tra quello che c'è di autentico e di legittimo, che viene dalla storia e dalla tradizione culturale stessa del nostro paese, e la concreta iniziativa di una specifica formazione politica, debba potersi operare. Dovremmo essere in grado di mirare all'obiettivo principale fare del movimento operaio la forza che si pone come dirigente e guida di un processo generale di trasformazione della vita sociale, per la quale molti dei nuovi fermenti e delle nuove idee devono essere raccolte Dando allo stesso tempo battaglia contro le insidie e le strumentalizzazioni.