di Carla PasquinelliSOMMARIO: L'egemonia radicale non coincide con "il consenso ricevuto", con il voto, alle elezioni. Anche il ripresentarsi di certi temi ("il privato", ecc.) non è un fatto "univoco e unificante". Elemento unificante è, semmai, "il rifiuto del marxismo", radicatosi in "comportamenti e scelte culturali" e politiche che hanno segnato la caduta dell'egemonia del "movimento operaio". "Bisogni, libertà, individuo" non sono dati estranei alla tradizione marxista, ma oggi manca un "orizzonte prospettico", nella "crisi del marxismo". Anche il movimento femminista ha lasciato cadere tale orizzonte, concentrandosi sul "presente" ma rendendo anche visibile le contraddizioni tra il "movimento operaio" e l'"area desiderante" con le sue frammentazioni, la dispersione... ecc. Di fronte a tutto questo, la sinistra ha oscillato tra appello all'"austerità" e "rincorsa disordinata e scomposta" dei nuovi temi e comportamenti. Il problema di oggi è quello di "assumere questo processo di laicizzazione della cultura e della politic
a", ma senza "assunzione acritica dell'esistente".
(»Rinascita del 20 luglio 1979 - ripubblicato in "I RADICALI: COMPAGNI, QUALUNQUISTI, DESTABILIZZATORI?", a cura di Valter Vecellio, Edizioni Quaderni Radicali/5, 1981)
Il voto radicale, è stato detto, non rappresenta una crisi di idealità, a patto, vorrei aggiungere, di distinguere tra gli investimenti e le aspettative di chi ha votato e le prospettive, il programma e la fisionomia di chi questo voto l'ha ricevuto. In altre parole, non credo che l'egemonia radicale coincida con il consenso ricevuto con il voto. Anzi, fra essi vi è proprio uno scarto, e tale consenso è piuttosto espressione di aspirazioni e valori che vanno oltre i limiti ristretti di quel garantismo tutto interno alla logica della società borghese in cui il Partito radicale cerca di ricondurlo e reinserirlo. Il ripresentarsi degli stessi temi del privato, dei bisogni, del desiderio è tutt'altro che univoco e unificante, come del resto non lo è neppure per quelle stesse fasce sociali che su questi motivi hanno poi costruito strategie politiche e di vita tra loro molto diverse, come si è visto nello scontro tra movimento femminista e movimento del '77.
Se c'è un elemento unificante, almeno sul piano culturale, questo non è l'ideologia radicale ma piuttosto il rifiuto del marxismo. Contrariamente a quanto è avvenuto in Francia, la »crisi del marxismo non ha trovato da noi nuovi filosofi disposti a farsene carico, ma si è piuttosto manifestata e radicata in comportamenti e scelte culturali, in cui si è venuta esprimendo la ricerca di nuovi valori e di nuove maniere di vivere e di fare politica che ha segnato una caduta di egemonia della cultura del movimento operaio assai più sostanziale. Potremmo parlare di un ritorno dell'immanenza, dell'affermarsi di un umanesimo tutto incentrato sul riscatto del quotidiano, sul vissuto e sul protagonismo dell'individuo, teso a inseguire i propri bisogni/desideri, la cui soddisfazione resta tutta interna alla presente forma di vita. La sostituzione dell'etica del lavoro con quella del godimento diventa così il rifiuto della trascendenza, di ogni forma organizzata di trasformazione sociale, che finisce per delegare agli a
ltri il governo materiale e istituzionale delle cose, sovrapponendo alla perversa purezza dell'infanzia la ferrea logica del signore della Fenomenologia hegeliana.
Eppure bisogni, libertà, individuo, persona non sono concetti estranei alla tradizione marxista, anzi è proprio su questi che agli inizi degli anni '60 si è cercato di costruire le fondamenta di un umanesimo marxista. Ma dietro vi era sempre l'idea, o meglio la consapevolezza del loro carattere alienato, scisso che, impedendone la realizzazione, rimandava ad una forma di organizzazione economica-sociale superiore, il comunismo appunto, che ne avrebbe finalmente permesso il pieno dispiegamento. E' proprio questo orizzonte prospettico che oggi è venuto a mancare. La crisi del marxismo coincide dunque con la fine della trascendenza.
L'ultimo ad avere ancora un progetto eversivo di trasformazione della società, a credere in un orizzonte progettuale a partire dal quale formulare una critica radicale del presente è stato il movimento femminista. Ciò nonostante è stato proprio con il femminismo che tale prospettiva ha cominciato ad appannarsi, prevalendo una concentrazione sul presente della propria condizione.
Nel femminismo trascendenza e immanenza sono ancora strettamente intrecciate. A distanza di anni il movimento femminista appare sempre di più come un fenomeno complesso che tiene insieme tratti culturali eterogenei tra loro, l'anello di passaggio tra due visioni del mondo, due concezioni della vita e della politica: in altre parole, esso si rivela la mediazione che rende accessibile all'intelligenza lo scarto prodottosi tra il '68 e il '77, tra la cultura del movimento operaio e l'area desiderante. E' il punto limite di entrambi, la soglia in cui l'uno si converte nell'altro. Se da una parte esaspera le contraddizioni, sommando a quella di classe quella tra i sessi, a quella tra Stato e società civile, quella tra pubblico e privato, dall'altra mette in moto nuove categorie che finiranno per essere assunte in maniera lineare ed unilaterale, per favorire una lettura non drammatica, cioè parziale, della propria condizione. Così il privato da critica della politica è diventato il perno del rifiuto della politica
e la denuncia dell'insufficienza del concetto di classe si è trasformata nel rifiuto generalizzato di definire, attraverso esso, la propria identità sociale.
Quello che si tende ad occultare è la contraddizione. Il riconoscersi appartenenti ad una classe fornisce infatti una identità parziale, o meglio fratturata, che contiene al suo interno la propria negazione, dal momento che la coscienza di classe comporta immediatamente, assieme alla consapevolezza, della propria identità antagonista, quella del suo superamento in una società senza classi. Quando si parla di quest'area culturale c'è la tendenza a mettere in evidenza la frammentarietà, la dispersione, assumendo, con un procedimento discutibile, a metro di giudizio di quelle stesse categorie con cui questa si pensa, quasi che l'ideologia che un soggetto ha di sé possa essere un criterio conoscitivo adeguato. In realtà quello che colpisce di più è invece la ricerca esasperata di categorie unificanti, direi quasi rassicuranti, tali da fornire immediatamente un'identità e una concezione "pret-à-porter" della propria condizione. E' un fenomeno in cui rientra anche il ritorno della religiosità e la ripresa dei conc
etti di nazione e di etnia, i soli ormai che sembrano permettere quel senso di appaesamento e di radicamento nell'immediato, che appare invece sempre più insidiato dall'assunzione consapevole delle contraddizioni proprie e sociali.
Di fronte a tutto questo l'atteggiamento della sinistra ha oscillato tra due posizioni: da una parte, il progetto dell'austerità, mirante a ristabilire un orizzonte prospettico che ridesse corpo e senso alla critica della presente formazione sociale, dall'altra, una rincorsa disordinata e scomposta dei temi e dei comportamenti di queste fasce sociali, mettendo a punto frettolosi apparati categoriali per lo più assunti acriticamente da quest'area o cercando di ritradurre il diverso all'interno delle proprie coordinate culturali.
Quello che traspare da entrambi questi atteggiamenti, pur così diversi tra loro, è il rifiuto dell'immanenza, la tendenza comune a leggervi una degradazione culturale e politica. Il problema è invece proprio quello di assumere questo processo di laicizzazione della cultura e della politica senza però che l'immanenza coincida con l'assunzione acritica dell'esistente, vale a dire di tenere ferme le contraddizioni senza rimandare ad una risoluzione trascendente di esse.