di Fabio MussiSOMMARIO: Viene espressa l'idea che il radicalismo esponga la democrazia a nuovi rischi politici, ma che al tempo stesso non si possa sviluppare una prassi politica senza partire dal fatto che la "società civile e la cultura italiana si sono fortemente radicalizzate".
Viene poi proposta una piccola antologia di questioni essenziali sollevate da Alessandro Natta, Biagio de Giovanni, Massimo Cacciari, Nicola Badaloni.
(ARGOMENTI RADICALI, BIMESTRALE POLITICO PER L'ALTERNATIVA, Aprile-Settembre 1979, N. 12-13)
Fu Marx a chiamarlo "socialismo della borghesia". Il radicalismo si presenta come movimento dei diritti civili - in Inghilterra, in Francia soprattutto - nel momento in cui si va preformando un movimento dei diritti sociali. La democrazia secondo i suoi principi, secondo le sue radici: in particolare il suffragio allargato (e poi universale) e i diritti delle donne. Il movimento coinvolge élites borghesi, ma poi assumerà anche caratteristiche più di massa, secondo un processo e una storia che in Italia è stata ben raccontata da Alessandro Galante Garrone. La crisi del rapporto tra radicalismo e movimento operaio di ispirazione socialista e comunista si consuma già probabilmente durante il periodo delle grandi convulsioni rivoluzionarie europee di metà ottocento. Il che non significa che, in diverse fasi - per esempio più recentemente durante il Fronte popolare francese, o la Repubblica spagnola del '37 - non ci sia stata anche una collaborazione di governo. O che, per parlare dell'Italia, non ci sia stato l'
incontro tangenziale dei partiti operai col radicalismo, quello liberale di Gobetti, per esempio, o col radicalismo socialista di Salvemini. Ma, tutto sommato, la questione ha avuto da noi una dialettica ristretta, anche se interessante per l'orientamento politico di certi gruppi di borghesia o di certi circoli intellettuali. Sotto Giolitti, quello radicale fu un minuscolo partito assorbito dal trasformismo. Né si può dire che, in questo dopoguerra, il gruppo che si è ritrovato nel "Mondo" o nell'"Espresso", rappresenti più di tanto (piuttosto, altra questione, che qui voglio solo accennare, è quella relativa alla componente radicale dell'"azionismo", che, prima, durante e dopo la liberazione ha svolto un ruolo importante).
Quando, su "Rinascita", abbiamo tentato di analizzare il problema, abbiamo nel "Contemporaneo" sul "Radicalismo degli anni '70", voluto nello stesso tempo: 1) accennare di sfuggita al variegato sfondo storico che si deve aver presente; 2) distinguere gli aspetti strettamente politici (Partito Radicale) da quelli "latamente" politici, e socio-culturali; 3) mostrare l'affioramento di una vasta ""questione del radicalismo"" in particolare negli ultimi dieci anni, che tocca oggi gli equilibri politici e gli orientamenti ideali di massa, in un momento di crisi organica della società italiana.
E' naturale che abbia influito quel 3,5% che il Partito Radicale ha raggiunto alle elezioni del 3 giugno, in larga parte sottraendolo all'elettorato comunista delle grandi città e specificamente giovanile. Ma il problema esisterebbe comunque. La mia idea espressa molto sinceramente è che oggi il radicalismo esponga la democrazia a nuovi rischi politici, ma che al tempo stesso non si possa sviluppare una prassi politica conseguentemente democratica senza partire dal fatto che la "società civile e la cultura italiana si sono fortemente radicalizzate". Spesso il radicalismo si è rivelato un contatore geiger della vita civile. Miope sarebbe non tenerne conto.
"Come tenerne conto"? Esiste una base unitaria, per un possibile sviluppo dei rapporti tra radicali e comunisti?
Come è noto il Pci ha collocato e colloca il discorso sull'"unità della sinistra" in rapporto a quello sull'"unità democratica". Direi che "unità della sinistra" esprime per i comunisti essenzialmente tre concetti: 1) conservazione dell'unità delle forze più avanzate, esprimenti una comune base di classe, dell'antifascismo (avendo presente, secondo l'espressione di Togliatti, la "fragilità della situazione democratica", tema riesposto, ma non inventato, dopo il caso cileno); 2) conservazione dell'unità dei movimenti di massa, in particolare quello sindacale, che ha bisogno di diversi gradi di rapporto politico, ma soprattutto dell'intesa tra i maggiori partiti della sinistra; 3) sviluppo di una unità strategica relativa alle grandi contraddizioni - che sono naturalmente mobili, non statiche - della società italiana.
Si può dire che oggi le cose siano in movimento: per ragioni oggettive, relative allo sviluppo della crisi materiale che ha investito il nostro paese, l'occidente, il mondo intero; e per altre ragioni tra cui, essenzialmente, la nuova "leadership" socialista e l'affermazione del Partito Radicale. La discussione è aperta. Indicherei meglio, per il prossimo futuro, tre campi del dibattito, sulla scorta della traccia proposta da "Argomenti radicali".
1) "Antifascismo". Pannella può dissacrare quanto vuole. Ma quando ha finito le cartucce delle sue sparate (alcune francamente insopportabili) farebbe meglio a ripensarci su un attimo. E' vero che su molti aspetti dell'antifascismo si è steso il velo del rito. E' vero che la nuova costruzione capitalistica del dopoguerra ha sterilizzato gli aspetti socialmente più rivoluzionari della liberazione. E' vero che la DC, occupando il potere, ha rimesso in funzione meccanismi che hanno offuscato i caratteri propulsivi dell'antifascismo. Sono bersagli su cui si può ben mirare.
Ma il punto è un altro: quale è, quale altro può essere, il fondamento democratico? Se ci si impegna in una critica che ha scopi dissolutivi, bisogna mostrarne il lato ricostruttivo. Il radicalismo storico ha mirato alla realizzazione, come si diceva di una democrazia radicale, cioè secondo i suoi "veri principi". Questo programma è stato affossato, in questo secolo, dalla ripetuta distruzione - proprio in quelle economie di mercato che si ritenevano la "base materiale necessaria" del principio democratico - di tali presupposti. La nostra idea è che unico in grado di garantire le condizioni democratiche è il movimento storico reale. Oggi, il suo punto di nascita e di legittimità, è in Italia l'antifascismo; fascismo è la condizione di non-democrazia. E, se si lavora sistematicamente a limare la differenza democrazia-non democrazia a che cosa ci si afferra? Noi vediamo la precarietà, il rischio che di volta in volta si consumino anche le basi civili di tolleranza. Sembra che i radicali di oggi, a differenza d
ei loro più illustri progenitori, abbiamo scarsissima coscienza del problema.
2) "Partito e società". La critica radicale si appunta ai partiti. Non trascuro qui i fattori di verità. L'espansione dello stato interventista nell'economia ha moltiplicato le funzioni di controllo politico e il peso della burocrazia. Questo comporta oggi che quell'espansione ha incontrato forse le sue frontiere, anche una crisi della "politica in quanto tale" e con essa dello stesso regime democratico. La politica deve dunque farsi nuovamente invadere dalla società civile. Il radicalismo tende a rappresentare la società civile. Ma immediatisticamente, finisce così per coltivare il mito liberale della società come natura. Proiettandolo contro i partiti e le aggregazioni stabili.
Il potere si è diffuso insieme alle sue tecniche (Foucault ha ripercorso alcuni di questi sentieri). I radicali finiscono per vedere queste tecniche, le aggrediscono unilateralmente, si perdono nella loro diffusione. Ma il potere, dov'è restato? Chi esercita l'egemonia? Dove sono i blocchi sociali? L'unilateralità radicale coltiva il frammento; e il frammento ha certo una densità superiore all'insieme che lo media: può sembrare, a un certo sguardo, l'unica realtà effettuale. Ma anche il radicalismo adotta delle tecniche: la "politica coi gesti" per esempio, presuppone quei "partiti opinione", che sono nati da una gigantesca espropriazione collettiva, nella preistoria politica dell'Occidente.
Basta dunque assieparsi negli spazi vuoti dei partiti - che non sono pochi - "mostrarne - come si dice - i limiti"?
C'è una crisi politica, e si pensa a responsabilità indifferenziate, si punta ad un tracollo dei partiti di massa. So che c'è un dibattito nello stesso Partito Radicale. Mi pare che, anche per riaprire un dialogo a sinistra, esso dovrebbe portare ad una rivalutazione delle aggregazioni politiche di massa, ad un giudizio differenziato su di esse. Naturalmente concedendo che, quanto a "modello" di partito, si possa anche inventarne uno nuovo. Trovo che oggi di qualunquismo ce ne sia di troppo. Il qualunquismo ha rappresentato, in Italia, il senso comune di un dominio ristretto. E può continuare ad avere un peso molto negativo: se diventa la cattiva coscienza di una somma di moti corporativi che perdono il "centro" della trasformazione possibile.
3) "L'individuo". Il radicalismo esprime largamente la caduta del sacro in epoca moderna. E' quindi compagno assiduo delle condizioni di vita urbane, industriali, semicolte e colte. Si logorano le tradizioni e affiorano, a portata di mano, nuove libertà possibili. Che si avvicinano alle scelte dei singoli. La vita si può amministrare direttamente.
Credo che dei meriti al radicalismo, nel dare voce a nuovi bisogni di libertà, vadano francamente riconosciuti. E che debbano portare ad un rinnovamento culturale di tutta la sinistra.
Trovo a volte, in verità, delle cadute apologetiche. Le immagini dell'uomo si naturalizzano. C'è l'interferenza delle Robinsonate liberali di una volta. Uomo-uomo naturale-uomo che ha bisogno-uomo buono: non è una catena plausibile. Del Marx che non piace ai radicali terrei ferma la nozione fondamentale: quella di "sistema". Nel sistema, che vive di connessioni organiche, autorità e libertà procedono allacciate. Per snodarle ci vuole una capacità scientifica, di riconoscimento di tutta la sostanza materiale della condizione umana, e ci vuole non solo l'assorbimento semplice dei suoi caratteri, ma un "progetto".
Per un progetto ci vuole anche un negoziato politico che: a) mantenga vive le condizioni democratiche; b) metta insieme le forze sociali indispensabili per un cambiamento. Mi pare che i radicali, dotati di grande prensibilità locale, non abbiano ancora afferrato esattamente il problema ora esposto. Senza di che, la stessa parola "alternativa" diventa un fiato, tanto per dire qualcosa su tutto ciò che sembra particolarmente diverso e autentico. Ma la realtà, come si pone la realtà?
Per spiegarmi meglio, e per concludere in modo da suggerire al lettore l'esigenza di proseguire, e non di chiudere, il dibattito, vorrei proporre una piccola antologia delle questioni essenziali che mi pare: noi comunisti abbiamo sollevato nel fascicolo di "Rinascita" che all'inizio ricordavo (anche perché essendo un lavoro fatto vorrei nella misura del possibile utilizzarlo).
"Alessandro Natta": "Io ritengo che nella nostra società, ma in tutte le moderne società, una trasformazione su base non autoritaria, il governare una transizione sulla base del consenso, se non può soffocare la spontaneità esige però il momento della direzione, della mediazione, della sintesi politica. E per ora non si sono trovati altri strumenti di organizzazione o mobilitazione delle masse più validi e più vitali del partito".
"Biagio de Giovanni": "Questo radicalismo e la cultura che esso porta va meglio conosciuto e inteso da parte del movimento operaio. Esso può incontrare la grande questione moderna della democratizzazione se trova chi lo aiuta a spezzare il rigido formalismo del nesso potere-sapere e a mettere più francamente in quello schema la dimensione politica.
Tuttavia ciò non è possibile rimanendo all'interno dei suoi schemi mentali e del suo atteggiamento culturale, che dà per scontato l'immutabilità della forma potere e tende dunque solo a porre la questione della garanzia dal potere (neogarantismo e neoradicalismo tendono infatti, nelle cose, ad incontrarsi, pur avendo radici culturali diverse e talvolta opposte) piuttosto che il problema della sua trasformazione. E' questa la critica principale che all'atteggiamento radicale portano la cultura e la politica del movimento operaio. E da essa si deve muovere per afferrare la grande "dimenticanza" radicale: una cultura della trasformazione che mette in rapporto le particolarità del sistema, gli specialismi della politica".
"Massimo Cacciari": "Le aporie del radicalismo sono quelle di una concezione umanistica che si vorrebbe integrale. Non è difficile verificare che al centro del radicalismo vive una "idea" dell'Uomo. L'Uomo appare irriducibile alla storia (o preistoria) delle infinite rivelazioni del suo essere-alienato. Lo stato di alienazione non contamina la "natura" dell'Uomo, che si mantiene un "cosmo" in potenza, e che alla realizzazione di un "cosmo" di rapporti esistenziali e sociali "anela". Senza tale "idea", il profondo afflato teleologico che regge il radicalismo è del tutto infondato - diviene un riscorso edificante, retorica. Ma tale afflato non è che escatologia secolarizzata".
"Nicola Badaloni": "A me sembra che la discriminante teoria fondamentale sia qui: o questa nuova organizzazione, che si pone in contrasto con le forme storiche del movimento operaio, intende il suo libertarismo come un modo di dar via libera alle strutture nascoste che sono costruibili a vari livelli della società, ed allora il radicalismo è un elemento integrante della storia politica dei sistemi e della manipolazione funzionale del consenso; ovvero essa esprime una sorta di effetto di ritorno della società civile, trasformata dall'azione dei sistemi politici, sui sistemi politici stessi (per esprimersi con termini tratti da "Argomenti radicali", n. 11, gennaio-marzo 1979), ed allora gran parte della tematica offerta dai radicali può essere utilizzata per ristabilire canali di collegamento fra le contraddizioni della politica e quelle della società".