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Strik Lievers Lorenzo - 15 settembre 1979
I RADICALI E UNA "CULTURA DI GOVERNO" DELLA SINISTRA
di Lorenzo Strik Lievers

SOMMARIO: L'autore critica l'analisi di chi considera la realtà radicale esterna all'area del movimento operaio e socialista, ricordando che nel nostro Paese esiste la presenza di una forte ed autorevole cultura radicale anche se ad essa non ha sempre corrisposto una forza politica radicale organizzata.

Perché un'alternativa di governo sia possibile è necessario innanzitutto acquistare un'autentica cultura di governo che non può prescindere da un rinnovamento delle sinistre. Il contributo dei radicali alla creazione di una "cultura di governo" è evidente: basta pensare alle tante riforme - divorzio, obiezione di coscienza, diritto di famiglia, aborto - che senza l'impulso radicale non sarebbero mai giunte al voto.

Per quanto riguarda l'unità delle sinistre esso viene inteso dai radicali in un modo diverso: la loro azione politica e progettazione del futuro è fatta in primo luogo di contenuti invece che di formule.

(ARGOMENTI RADICALI, BIMESTRALE POLITICO PER L'ALTERNATIVA, Aprile-Settembre 1979, N. 12-13)

"Un singolare atteggiamento percorre molti scritti di parte comunista intorno alla questione radicale - intorno al "fenomeno radicale" che, si dice sempre, va molto oltre il "partito di Pannella", e intorno al "filone radicale" nella storia d'Italia. Molto spesso infatti, anche in modo esplicito, la premessa è che si tratti di una realtà esterna ed estranea alla propria area, quella del movimento operaio e socialista, e della quale si discute se possa mai realizzare o meno una qualche convergenza col movimento socialista e operaio stesso.

Chi imposta così le proprie analisi non tiene conto di un dato macroscopico. Rappresenta infatti una caratteristica importante della storia delle sinistre in Italia l'anomalia della presenza sempre, nel nostro paese, di una forte e autorevole cultura politica "radicale" cui però, da molti decenni a questa parte, non ha corrisposto l'esistenza di una consistente forza politica radicale organizzata; giacché quei pur consistenti settori di opinione pubblica che da quella cultura erano influenzati preferivano poi (non è certo qui che se ne possono discutere le ragioni) esprimersi politicamente, e spesso proprio con spirito e motivazioni "radicali", attraverso i partiti operai-socialisti. Discorso che in vario senso riguarda anche i gruppi dirigenti dei partiti socialisti stessi - da quello dei fondatori del PSI nel 1892 - nei quali in molti casi e per diversi aspetti in sede di analisi storica non si può non riscontrare la presenza anche di spiccati caratteri "radicali"; quand'anche molti dei loro esponenti non

erano di origine e formazione di quel tipo, origine e formazione di cui gli echi non dovevano mai estinguersi - dal radicale Turati, al repubblicano Nenni, ai tanti azionisti e post-azionisti divenuti dirigenti di forze politiche e sindacali socialiste. Ma poi, si può scrivere la storia del socialismo italiano espungendone un Salvemini, un Gobetti, un Rosselli? Oppure: non dura ancora il ricordo delle discussioni politiche e storiografiche sul destino ricorrente del movimento operaio-socialista italiano di addossarsi anche i compiti di una democrazia radicale?

Sono solo accenni (di questi temi si è discorso un po' più estesamente in un libretto collettivo di alcuni redattori di questa rivista", Radicali o qualunquisti?, "Roma, Savelli, pp. 79-86, cui si rimanda). Il senso però è chiaro: che la storia del radicalismo e del socialismo in Italia non sono separabili con un taglio netto, che senza voler confondere con forzature indebite realtà che si mantengono ovviamente differenziate si deve però riconoscere che non si può fare la storia dell'uno senza fare contemporaneamente e in larga parte anche quella dell'altro".

Una sinistra disorientata

E' questo un necessario retroterra storico a partire dal quale va valutato il fatto politicamente nuovo dell'emergere oggi in primo piano, con un robusto consenso elettorale, di un'autonoma forza radicale. (Ma è una forza che, non lo si dimentichi, ha fatto autonomamente politica per un ventennio, sempre rivendicando con testarda, irriducibile intransigenza la propria piena "pari dignità", anche quando era un gruppuscolo più inesistente che minuscolo; quasi contraltare della scelta compiuta da altri spesso autorevoli esponenti del filone radicale che, quasi a sottolineare la rinuncia a un ruolo autonomo e specifico del radicalismo, accettavano la collocazione emblematica nel limbo decorativo della sinistra indipendente).

La discussione nella sinistra sul nuovo radicalismo non è feconda se non parte in qualche modo di qui, se non tiene conto di questi nessi storici inestricabili; i quali indubbiamente fanno della nuova forza autonoma del radicalismo - quale che sia il giudizio che se ne voglia dare - un sintomo, un segno, se non altro, dei processi di trasformazione importanti che avvengono non fuori, o accanto, al corpo e alla cultura della sinistra, ma all'interno di essi. E' sotto questa luce, si potrà forse osservare, che assume tutto il suo significato un tentativo come quello che questo dossier di "Argomenti radicali" vuole avviare, di un dibattito in cui comunisti e radicali siano chiamati non tanto a un confronto diplomatico fra i rispettivi partiti, o a discutere della "questione radicale" o della "questione comunista", ma a misurarsi in comune con alcuni dei nodi che, non per nulla, entrambe le forze si trovano a dover affrontare.

Solo in questa chiave è parso qui opportuno il richiamo al passato: perché non è indietro, alla tradizione, che occorre guardare oggi, ma avanti. L'elemento centrale della situazione è dato infatti dalla sempre più evidente insufficienza, inadeguatezza delle idee, dei modelli, delle proposte ereditate dal passato, e che per tanto tempo hanno fatto da punti di riferimento scontati e quasi ovvii per la sinistra; quando ben poco delle certezze antiche - col fallimento delle speranze nel comunismo, con la crisi delle socialdemocrazie - sta ancora lì a far davvero da bussola per le forze della sinistra. La cui navigazione pare procedere sempre più al buio, con una difficoltà crescente a individuare mete e anche itinerari al di là del gioco degli schieramenti e delle alleanze, essenziali sì, ma poi solo strumentali: a che cosa?, vien fatto sempre più di chiedersi.

La crisi, beninteso, non riguarda solo il filone comunista o quello socialista della sinistra, ma anche quello radicale, a quelli - lo si è appena detto - così intimamente connesso. Ma non è illegittimo forse osservare che se il PR attuale discende indubbiamente dal gran ceppo del filone radicale della cultura politica italiana, molte delle sue impostazioni sono profondamente nuove e originali rispetto a quelle tradizionali; e non c'è dubbio che proprio la sensazione della novità, dell'originalità della politica radicale a confronto con tutti i modi di far politica a sinistra fin qui conosciuti spiega la "presa" odierna dei radicali - ciò che la carica di tutto il suo significato, del valore di sintomo eloquente del muoversi nel paese di realtà nuove, e di un'ansia di nuovo.

Un modo diverso di intendere l'unità delle sinistre

Novità e differenze di impostazione di cui non si può non accorgersi considerando il modo in cui da parte radicale si fa vivere una parola d'ordine che, significativamente, per decenni è stata al centro delle proposte politiche generali avanzate sia dal PCI, che dal PR, che da tante altre componenti della sinistra vecchia e nuova: quella dell'unità delle sinistre.

Spero non costituisca vilipendio di partito osservare che esiste un certo grado di ambiguità non risolta, né facilmente risolvibile, nelle posizioni radicali a questo proposito. Dagli inizi degli anni sessanta il PR prospetta un'alternativa della sinistra unita che porti a un governo di tutta la sinistra collocando all'opposizione la DC; prospettiva cui spesso si affianca l'altra, della "maggioranza divorzista" dall'estrema sinistra ai partiti laico-moderati - né troppo ci si sofferma sugli elementi di divaricazione tra queste due ipotesi. Indicazioni, insomma, eminentemente di schieramento. Ma poi, se appena vi si riflette si deve constatare che le categorie di una politica di schieramento sono fortemente inadeguate a comprendere e a descrivere i caratteri dell'azione radicale.

Intanto, molti lo hanno rilevato spesso, gli argomenti e le forme della polemica di parte radicale rispetto alle altre forze della sinistra non sono di quelli più adatti a stimolare spontanee e generali convergenze. Ma al di là di questa notazione superficiale, un'altra se ne deve avanzare, assai più sostanziale: ed è che molte delle maggiori e caratterizzanti iniziative radicali non hanno, in sé, un sapore particolarmente più antidemocristiano che di opposizione o di difficile conciliabilità con le tendenze ora di questa, ora di quella, ora di tutte le forze di cui si sollecita l'unità. Si pensi ai temi del finanziamento ai partiti, dell'ecologia, delle centrali nucleari, del disarmo unilaterale, della lotta contro lo sterminio per fame... E di fatto gli appelli all'unità su questi temi si rivolgono, e trovano rispondenza, in direzioni e lungo frontiere che non ricalcano affatto quelle degli schieramenti tradizionali più eloquente di ogni altra, da ultimo, la vicenda della raccolta delle firme tra i deputat

i per la con vocazione straordinaria delle camere sui problemi della fame, ove la solidarietà più ampia si è trovata proprio tra le fila democristiane.

Non pare proprio che tutto ciò giustifichi il sorriso "demistificatore" di chi scopre per questi motivi l'estraneità dei radicali alla sinistra. Tutti i temi e i motivi che si sono ricordati sono intimamente omogenei alle istanze più profonde e sostanziali di un essere a sinistra. Per se stessi però, e per il modo e il contesto in cui da parte radicale li si solleva, essi rispondono pure ad ansie di autenticità, di rapporto diverso fra la dimensione della politica e i sentimenti di verità e di giustizia che possono, come spesso accade, esprimersi anche in forme profondamente altre da un'adesione alle posizioni, ai miti e ai riti della sinistra storica. Possono darsi, in effetti, analogie profonde tra le spinte esistenziali che si traducono in una scoperta del radicalismo e altre che magari prendono le vesti dell'autonomia operaia, o altre ancora che alimentano una ricerca di umanità vera, di compiutezza e di senso dell'esperienza umana per le vie del rifiorire dei valori religiosi. Sicché ha un suo senso pro

fondo, che non è quello del trasformismo guittesco o dell'espediente elettorale, il fatto che in un medesimo discorso Pannella parli dei "compagni autonomi" e del "fratello Curcio"e insieme lanci l'appello per la marcia pasquale, per l'incontro nella lotta per la vita con Giovanni Paolo II.

Il fatto è che - lo si è detto fin troppe volte - quella radicale è una forma" diversa "di azione politica e di progettazione del futuro; che è fatta in primo luogo di contenuti invece che di formule, e i cui contenuti si riassumono poi in gran parte nel prospettare un'alternativa a tanti aspetti deteriori della vita sociale, a un modo di fare politica, a un modo di impostare i rapporti politica-società. Così, in larga e preminente misura le battaglie radicali sona alternative al sistema di potere democristiano; ma lo sono poi altresì rispetto ad aspetti, a modi d'essere, di occupare e gestire potere anche di altri, anche di forze di sinistra, sia in quanto integrati nella politica dominante sia in quanto di per sé non omogenei agli obiettivi, ai "contenuti" radicali.

L'"ammucchiata" di Berlinguer e quella di Pannella: due modelli di politica unitaria

Nasce di qui una strutturale apertura da parte radicale ad apporti di ogni provenienza. Viene in mente un'antica formula pannelliana, dei tempi remoti - ma quanto, forse, presenti - dell'Unione goliardica: "non unità delle forze laiche, ma unità laica delle forze". E par quasi vi sia un'intima corrispondenza, nel contrasto, fra la politica radicale e quella comunista o quella del "regime". All'"ammucchiata" denunciata dai radicali corrisponde quell'altra opposta, pannelliana, che in campagna elettorale - lasciamo perdere come? - i comunisti contro-denunciavano; e alla litania tradizionale di Berlinguer, "le masse comuniste, socialiste, cattoliche", corrisponde quella di Pannella, "i veri socialisti, veri cristiani, veri liberali, democratici, pacifisti, nonviolenti"...

Quelli che così, specularmente, si fronteggiano sono due modelli profondamente diversi, inconciliabili, di politica unitaria. Quello di Berlinguer, tendenzialmente totalizzante, guarda all'obiettivo di una maggioranza del 90% (col risultato, esso sì, se realizzato fino in fondo, di attribuire all'estrema destra neofascista la dignità e il valore prezioso di unica opposizione operante nel quadro istituzionale). Unità fra i partiti questa che, posta evidentemente l'impossibilità di far sparire i dati di conflittualità nella società, ed escludendo che essi si riproducano come conflitti fra le forze politiche, non potrebbe avere altro elemento sostanziale di coagulo, altro elemento comune a tutte le componenti, che quello della solidarietà fra i membri del ceto politico organizzati nei partiti per esercitare il proprio totalizzante controllo sulla società. Il modello, insomma, più o meno consapevolmente è quello che vede il conflitto fondamentale nel quale impegnarsi in quello, attuale o potenziale, fra i partit

i fra loro solidali in quanto tali, e la società.

Quello di Pannella, di un'unità laica in primo luogo sulle cose da fare, sulle scelte, e che può e forse deve passare attraverso vasti rimescolamenti e ricomposizioni di una geografia politica ossificata, comporta al contrario un sistema politico in cui con nettezza si esprimano i grandi conflitti presenti nella società. Sistema politico perciò non chiuso, asfittico e soffocatore, isolato nel mentre che tenta di tutto coinvolgere e subordinare; ma al contrario aperto, radicato spontaneamente nella società - o forse, anzi, la società radicata in lui - in quanto ognuno possa trovarvi spazio per esprimervi in pieno le proprie idealità e tensioni politiche. Ed è appena il caso di aggiungere che una simile ritrovata conflittualità nel sistema politico non avrebbe nulla a che fare con una riesumazione di storici steccati non più attuali; non si tratta certo di elevare barriere tra le masse cattoliche, socialiste e comuniste, mia piuttosto di rimescolare le carte consentendo a ognuno, singoli e gruppi, sottratti se

mmai a monopoli di rappresentanza sempre meno giustificati, di esprimersi sulle grandi e piccole opzioni che in sede politica vanno operate. Così certo nessuno può più dire oggi che l'unità o meglio le unità auspicate e promosse da Pannella discriminino o respingano i cattolici come tali, ché anzi è necessario e naturale che molti di loro vi trovino posto; non tutti naturalmente - ma forse nemmeno tutti i componenti attuali anche delle altre forze cui l'appello è rivolto.

"Cultura di governo", rinnovamento delle sinistre quali premesse necessarie di un'alternativa possibile

Che cosa resta allora del discorso sull'unità delle sinistre e su una loro alternativa alla DC. Il punto nodale dell'impostazione radicale mi pare essere la constatazione dell'inadeguatezza dei partiti - noi dei partiti comunque e in generale, ma di" questi "partiti - a accogliere e a far proprie molte delle esigenze fondamentali che nella società crescono, ad affrontare alcun dei problemi maggiori del mondo di oggi, spesso magari anche ad accorgersene (in termini politici, cioè di azione politica: si pensi a quelli decisivi della fame e del disarmo). Discorso che, per quanto riguarda le sinistre, fa tutt'uno con quello che sopra s'accennava sulla loro crisi d'orientamento e di prospettiva. In un simile contesto quella di un'unità delle sinistre, di queste sinistre, così come sono, che conquistasse maggioranza e governo, oltre ad essere per tante, note ragioni un'ipotesi ben poco realistica, è prima ancora poco credibile: al governo per che cosa, per fare che cosa? Non è forse sensazione comune che un'ipotet

ica alternativa di sinistra avrebbe oggi il fiato corto, cortissimo, oscillando fra utopie, schemi di conoscenza e di trasformazione della realtà ormai manifestamente inadeguati da un lato, e dall'altro tentazioni o tendenze a mutare sostanzialmente ben poco, in mancanza di solide alternative, nei modi tradizionali, collaudati di gestire e far funzionare la società? Un esperimento di governo del PCI coadiuvato da deboli ausiliari - non altro sarebbe ovviamente oggi un governo di sinistra - rischierebbe veramente, a questa stregua, di andare rapidamente allo sfacelo: né sono davvero da prendere troppo facilmente sotto gamba come segni di pavidità i richiami che, pur in un contesto e con argomenti diversi, vengono da parte comunista, in particolare da Berlinguer, sui pericoli di un governo di tal fatta,

Non si vogliono qui riprendere le discussioni sul "fattore K", o quelle intorno al problema del riequilibrio fra le componenti della sinistra. E' invece questione del maturare nella sinistra tutta quanta, che tutta quanta a vario titolo ne è parimenti sprovvista, di un'autentica "cultura di governo". Acquistare la quale vuole dire naturalmente tutt'altro che farsi quanto più possibile simili agli avversari, ai detentori tradizionali del potere; significa in vece trovare nuove strade, nuovi modi di far politica che consentano di uscire dall'alternativa, cui l'inadeguatezza delle vecchie impostazioni condanna, fra opposizione impotente e presenza subalterna al governo, per mettersi davvero in grado di affrontare e risolvere i problemi di" questa "società, con le sue peculiarità, senza rinunciare alle istanze più profonde che fanno la sinistra essere se stessa.

E' quel che intendevano i "nuovi" radicali quando, or sono vent'anni, cominciavano a parlare di unità e alternativa della sinistra, ma insieme di un suo rinnovamento; rinnovamento inteso quale condizione perché l'unità e l'alternativa fossero, prima ancora che possibili, utili ed efficaci. (E basti rinviare all'articolo scritto nel 1959 dall'allora giovane "eretico" del PR Marco Pannella, cui sentì il bisogno di rispondere in persona Palmiro Togliatti, e ristampato, con la replica del segretario del PCI, sul numero 2 di questa rivista). In questo senso, perseguire a sinistra una politica "di schieramento", prospettare semplicemente una contrapposizione alla DC del PCI, del PSI e degli altri così come sono significherebbe, oltre che probabilmente inseguire un fantasma, non uscire dagli schemi vecchi che non offrono speranze reali e durature di vittorie, Il modo radicale di far politica, di chiamare all'unità - e allo scontro - sulle scelte e sui contenuti si configura allora come il contributo più utile a que

l "rinnovamento", sinonimo dell'acquisizione di una "cultura di governo" per la società dell'oggi, che sempre più s'impone come il" prius; "e, se non altro sul piano del metodo, indica la strada più feconda.

Strada troppo lunga, che rinvia a un futuro troppo lontano? Il pessimismo non è di rigore. Non mancano i segni che processi di rinnovamento di ampia portata sono in corso. Da un periodo ormai non più brevissimo circolano ampiamente nel PSI idee decisamente nuove; e se ad esse non corrispondono in alcun modo i comportamenti pratici della classe politica socialista, è pur vero che esse vanno nutrendo e modificando in profondità il "senso comune" del partito e dell'area, sicché è impensabile che in una forma o nell'altra non se ne manifestino incisive conseguenze sul terreno direttamente politico. Più importante ancora, la scossa del 3 giugno ha fatto esplodere nel PCI un mutamento di portata storica, probabilmente irreversibile: il crollo cioè del tabù che impediva la discussione pubblica, chiaramente decifrabile da tutti all'interno e all'esterno del partito, il confronto esplicito, con nomi e cognomi, fra militanti e dirigenti sostenitori di linee diverse. Una svolta di questo genere fa già del PCI un partit

o nettamente diverso da quello che era; e proprio in quel suo aspetto che costituiva la remora più grave a un rinnovamento complessivo suo e dell'intera sinistra. Sicché assume in qualche modo un valore nuovo anche la recente riaffermazione durissima della linea tradizionale del partito da parte di Berlinguer; riaffermazione che, sia detto per inciso, mi pare da valutare come atto di serietà e di autentica moralità politica, in quanto rifiuto ad abbandonare in modo opportunistico un disegno politico trentennale ritenuto l'unico possibile e giusto - e lo è veramente, per questo PCI - solo perché è stato pagato con un insuccesso elettorale, il quale ovviamente di per sé nulla toglie o aggiunge alla validità di quel disegno per il movimento operaio e per il paese. Valore nuovo, dicevo: perché ripete sì tesi vecchie, ma come momento di un confronto ormai aperto e "trasparente" all'interno del PCI.

Le debolezze e i limiti del PR, un problema per la sinistra

Ma i radicali, loro, al di là di un'indicazione di metodo, come contribuiscono a creare una "cultura di governo" nella sinistra? E anzi, essi stessi si collocano su questo terreno, o non si limitano a un'opposizione protestataria poco o nulla preoccupandosi della coerenza e reciproca compatibilità fra le rivendicazioni che sostengono, pur di raccogliere indiscriminati consensi da ogni orizzonte possibile?

Sono obiezioni frequenti. Ad esse i radicali hanno molte buone ragioni da opporre a mio modo di vedere, e spesso, anche su queste colonne, le hanno opposte. In primo luogo quella che, a fare un bilancio degli ultimi dieci anni, non si trova nessuna forza di sinistra che più dei radicali abbia fatto opera autentica e positiva di governo: si pensi alle tante, spesso decisive riforme che senza l'impulso radicale non sarebbero mai giunte al voto - dal divorzio, all'obiezione di coscienza, al diritto di famiglia, al voto ai diciottenni, allo stesso aborto. Ma se il dibattito avviato in questo dossier vuole essere produttivo non sono le difese di bandiera che servono; assai più utile segnalare le difficoltà, i problemi irrisolti.

E allora sì, come non ammetterlo? Nelle posizioni del partito radicale incongruenze, insufficienze di approfondimento e di elaborazione, carenze di coordinamento fra gli atteggiamenti a proposito di diversi problemi non mancano. Rilevarlo con franchezza può essere un modo di aprire il discorso sulle tante debolezze, sui limiti, sulle contraddizioni, non tutte feconde e vitali, del PR. Discorso che, se è lecita una digressione, potrebbe continuare rivolto al modo d'essere, nella sua "costituzione materiale", non nel suo statuto scritto, della "forma-partito" radicale, ben paco omogenea al suo progetto politico; potrebbe riguardare la esiguità e povertà politica del partito - ben distinto, lo si sa, dal gruppo parlamentare - le quali sempre più, e giustamente allora, fanno del suo corpo organizzato soltanto una componente, e non necessariamente quella centrale, di quella "parte radicale" che nel paese scopre se stessa, si manifesta, si esprime e si riconosce nella politica e nelle battaglie radicali.

E' giusto e necessario aprirlo, almeno per accenni, questo discorso sulle debolezze del PR, proprio in una sede come questa, di un confronto con altre forze della sinistra, per segnalate un dato che, fuori del PR, non sembra finora esser stato molto considerato: che cioè "il problema è comune", che le debolezze e le insufficienze del partito radicale non costituiscono affatto potenziali punti di forza per gli altri partiti della sinistra, ma sono invece momenti e fattori di debolezza collettiva per la sinistra - allo stesso preciso titolo per cui lo sono le inadeguatezze del PCI e del PSI. Non solo il PR è parte integrante della sinistra, non corpo estraneo ad essa; non solo va ricordato il dato bruto, da molti segnalato, che se togliessimo il 3,5 per cento radicale alle percentuali elettorali della sinistra dovremmo considerare il 3 giugno una catastrofe storica per le forze progressiste; ma più ancora, anche per le ragioni prima accennate, la presenza del PR, delle sue proposte, del suo modo "diverso" di f

are politica è di per sé un fattore ormai essenziale di forza e di speranza per tutta la sinistra - non soltanto, ma se non altro, come carta di riserva. Cosicché è interesse comune della sinistra che le innegabili deficienze del PR come quelle del PCI, del PSI, del PdUP, vengano superate.

Un internazionalismo senza dimensione internazionale...

Per tornare allora alle carenze che, da radicale, mi pare di individuare nella nostra capacità di operare a partire da una "cultura di governo", un nodo su cui credo opportuno che si apra la discussione è quello della contraddizione con cui noi - forza eminentemente antimilitarista, internazionalista, ormai sempre più anche internazionale - ben poco, o nulla, ci siamo preoccupati sinora di inserire le nostre valutazioni, le nostre prospettive e le nostre lotte in una dimensione internazionale, di valutare reciproche influenze e condizionamenti fra la realtà nazionale e quella del sistema delle relazioni internazionali.

Antimilitarismo. Ma ha senso impegnarsi su questo fronte senza andare al di là di alcune modeste banalità sulla NATO, senza affrontare il problema degli equilibri politico-militari internazionali, degli effetti che l'una o l'altra scelta di politica militare o anti-militare comporta in questo campo, della possibilità stessa che in una larva di stato indipendente come il nostro ci siano spazi per scelte autonome in questo settore? Non sarà anche per questo che l'impegno antimilitarista, così centrale per i radicali, non è ancora mai riuscito a tradursi in azione politica effettiva?

Questione energetica. Nell'impostazione che finora i radicali hanno dato a questa battaglia, emerge solo la dimensione nazionale, come se la questione delle scelte energetiche, del fare o non fare le centrali nucleari, fosse solo un problema interno italiano, o al più europeo. Ma a parte l'utilità e il senso di una eventuale scelta antinucleare italiana in un mondo prevalentemente nuclearizzato, esiste una questione primaria cui non si può non prestare attenzione: quella dei rischi non remoti di guerra per accaparrarsi le fonti di energia che un serio e niente affatto impossibile aggravarsi della situazione comporterebbe. Si può davvero impostare il problema dal punto di vista della conservazione dell'ambiente e della struttura politica democratica senza tener conto di questa ipotesi, valutarne il peso e orientare di conseguenza la propria azione politica?

Alternativa. Si crede davvero di poter prospettare uno sviluppo del genere senza tener conto di come reagirebbero le grandi e grandissime potenze, politiche, economiche e militari, all'ovest ma anche all'est, da cui per tanti fili l'Italia è condizionata, e anzi dipende o può trovarsi a dipendere? (O ci illudiamo, contraddicendo tutta la nostra impostazione, che esista ancora uno stato italiano davvero indipendente?). Tanto più se l'alternativa avesse, secondo la proposta radicale, anche un contenuto di scelta anti-NATO e antimilitarista.

Contraddizioni gravi; anche se, va detto, non più di quelle d'altro genere che si possono riscontrare in altri sensi nelle posizioni altrui. Ma ciascuno cominci dai guai di casa propria.

... e l'internazionalismo reale. Dall'antagonista socialista al protagonista radicale.

Detto questo, occorre però subito notare il valore straordinario anche sotto questo aspetto dell'iniziativa di Pannella contro lo sterminio per fame nel mondo. Certo, finora essa non si inquadra in una teoria compiuta e coerente delle relazioni internazionali. Ma poco conta, se essa davvero, come fa, mette la discussione, o anzi la apre e la impone, sul suo vero terreno; che è quello della sostanziale unità del mondo contemporaneo, della interdipendenza strettissima fra tutte le sue parti, della responsabilità comune e complessiva che a tutti ne compete, dell'insensatezza del credere di potersi rinchiudere nell'ambito di confini che non hanno più significato, dell'inadeguatezza ormai della dimensione dello stato nazionale ad affrontare i problemi veri. Altro che vecchio assistenzialismo cattolico!

Con forza straordinaria l'iniziativa di Pannella costringe ad aprire gli occhi, ad affrontare nei suoi termini reali il problema delle relazioni fra nord e sud del mondo; problema su cui le sinistre, non solo in Italia, hanno quasi sempre prodotto analisi più o meno brillanti, ma non azione politica concreta, e che però è quello capitale, da cui un po' tutti gli altri in definitiva dipendono, se è vero che su quel terreno principalmente si giocheranno in futuro, e già si giocano, le sorti della pace o della guerra. Sicché Pannella riapre finalmente, dopo tanti decenni di latitanza e impotenza della sinistra in questo campo decisivo, una prospettiva concretamente e non sentimentalmente internazionalista, perché muove finalmente davvero da un punto di vista internazionale; che non è quello di un classismo astratto e velleitario, ma quello del rifiuto di accettare una distinzione che più non ha senso fra gli affari "di casa propria" e quelli "degli altri" - giacché ormai la casa è una sola, e comune.

Quale contributo si potrebbe immaginare maggiore alla costruzione di una "cultura di governo" della sinistra? Tanto più, al paragone, risalta l'angustia culturale sostanzialmente restauratrice della prospettiva intorno a cui si fa ruotare e il sistema politico italiano, quella della "solidarietà" nazionale": "le parole, anche gli aggettivi, hanno bene un significato, spesso rivelatore... (A proposito: non sarebbe forse il caso di far partire di qui il dibattito sul tema del fascismo-antifascismo oggi?).

Ma poi, ancora. Se non mancano, e pesanti, i limiti della "cultura di governo" dei radicali, come degli altri, esiste anche un proposito, una sfida dei radicali a se stessi ma anche a tutti coloro che essi, a loro modo, chiamano all'unità: quella del governo-ombra. Che altro significa questo obiettivo se non la consapevolezza, in chi lo propone e se lo propone, della necessità di fare fino in fondo i conti con il problema di governare la società in modo alternativo ma possibile e coerente? Se la sinistra o parte di essa saprà misurarsi davvero in questa impresa, vorrà dire che avrà compiuto, o almeno avviato veramente, il salto in direzione di una "cultura di governo", il salto cioè, per riprendere il felice rovesciamento di un nostro slogan tradizionale che è stato di recente proposto, dall'antagonista socialista (alfiere di un socialismo di cui nessuno sa più che significhi) al protagonista radicale.

 
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