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Bettinelli Ernesto - 15 settembre 1979
L'AFFARE NEGRI NELLO STATO DI ORDINE PUBBLICO
di Ernesto Bettinelli

SOMMARIO: Non sappiamo ancora in base a quale fattispecie del codice penale Toni Negri sarà presumibilmente condannato, ma il metodo seguito dagli inquirenti, fatto di geometriche congetture, deduzioni, induzioni, sembra ricalcare i procedimenti della sacra inquisizione contro gli eretici.

La caduta degli argini dello stato di diritto, del garantismo si possono far risalire all'entrata in vigore della legge Reale nel 1975 ed all'esigenza - dopo la caduta di ogni tensione riformatrice - di trovare per l'azione di governo un superobiettivo che costituisse un tessuto connettivo per un'ordinaria e disordinata amministrazione. Tale obiettivo non poteva che essere l'ordine pubblico. Assistiamo così all'emanazione a raffica di decreti-legge, all'uso dell'opinione pubblica come collettore di consensi per la politica antieversiva.

Ma lo stato di ordine pubblico, la prevalenza della necessità di rendere giustizia sulla giustizia, non possono rientrare nel quadro democratico e l'affare Negri impone all'opinione pubblica un ruolo davvero decisivo.

(ARGOMENTI RADICALI, BIMESTRALE POLITICO PER L'ALTERNATIVA, Aprile-Settembre 1979, N. 12-13)

Non sappiamo ancora in base a quale fattispecie del codice penale Toni Negri sarà, presumibilmente nel 1990, condannato; ma una cosa appare fin d'ora, se non certa, assai probabile: Toni Negri potrà essere condannato quanto meno "per aver fornito, mediante pubblicazioni e altre attività di divulgazione di pensiero sovversivo, il quadro teorico e culturale di riferimento e di sostegno alle azioni criminose di bande armate, comunque denominate, volte alla distruzione delle istituzioni e dei valori dello Stato democratico-repubblicano".

Potrebbe essere questo un brano del futuro verdetto, supposto considerando l'attuale andamento delle vicende processuali dei principali imputati del 7 aprile. E così pure si potrebbe ipotizzare il sillogismo che, in motivazione, lo sorreggerebbe "a dimostrazione" della partecipazione di Negri a tali bande: nel momento in cui si postula "una loro organizzazione complessa, costituita dalla presenza di una pluralità di elementi coessenziali, ma strutturalmente separati in comparti: un insieme di nuclei logistici e operativi (tatticamente responsabili dell'esecuzione dei piani terroristici); una direzione strategica (la cui funzione sarebbe l'individuazione degli "obiettivi", nonché l'elaborazione dei documenti politici a corredo di ogni azione) e, infine, un "centro" ideologico, preposto all'analisi della situazione politica teatro delle iniziative eversive e, più in generale, alla sistemazione e all'aggiornamento della dottrina che ad esse presiede".

Se questo è il contesto, diventa automatico collocare il professore di Padova nel ruolo di "cervello ideologico", motore - e dunque a pieno titolo compartecipe - dell'attività criminosa. Gli scritti di T. Negri, la sua stessa storia personale e politica assumono nel contempo la veste di prove e di corpi del reato. Con qualche ulteriore passaggio "logico" si potrebbe al limite sostenere che egli è stato colto in flagranza di reato.

E' solo in una tale gabbia di geometriche congetture, deduzioni, induzioni (a seconda dei casi) che trova spiegazione il metodo seguito dagli inquirenti, che sembra ricalcare le orme degli antichi rituali della sacra inquisizione nei procedimenti contro gli eretici. Anche allora gli interrogatori tendevano a sondare minuziosamente la personalità del reo e vertevano sulle sue opere, sull'analisi dei testi fonti di eresia; anche allora gli interrogatori si ponevano come strumentali all'acquisizione di prove, diretti alla ricerca della quasi-confessione, nell'atto in cui si pretendeva di rinvenire una convergenza o un nesso consequenziale tra la teoria ascrivibile al soggetto imputato e comportamenti e fatti, la responsabilità dei quali non era dato accertare altrimenti. Anche allora non rilevava alcuna distinzione tra responsabilità penale e responsabilità culturale: e ciò è normale quando nessuna linea discriminante sussiste tra fatto e sospetto del fatto, quando alla resa dei conti si impone come parametro d

i giudizio la massima: "chi nulla fa per la salvezza della repubblica, è contro la repubblica". E se si vuole continuare con la provocazione delle analogie non si può non sottolineare che si va recuperando la prassi dell'assegnazione dei processi concernenti il terrorismo a pochi giudici superspecializzati, venendosi pertanto tali processi a concentrare in poche sedi (soprattutto a Roma: lo consente - e chissà per quanto lo consentirà - una qualsiasi ipotesi di connessione con l'assassinio dell'on. Moro). In conclusione: reato speciale, procedimento speciale, giudice speciale e, si vedrà immediatamente, polizia speciale.

La caduta degli argini dello stato di diritto

Il tramonto nel nostro Paese del "garantismo" e dei suoi connotati essenziali (il giudice naturale precostituito, applicazione rigida della presunzione di non colpevolezza, determinatezza delle fattispecie penali, pieno riconoscimento del diritto di difesa ecc.) è ormai un fenomeno datato. Si può fare risalire all'entrata in vigore della legge Reale nel 1975 (che ha chiuso la stagione liberalizzante degli anni '70 che avevano promesso l'emanazione a breve termine del nuovo codice di procedura penale, nel frattempo preceduto da importanti "novelle" anticipatrici, di attuazione dei principi costituzionali in materia di libertà personale e di diritto alla difesa, successivamente espulse dall'ordinamento). E si può anche constatare che esso ha dei precisi riscontri in Europa; il caso dai più evocato è quello emblematico della Repubblica Federale Tedesca, nella sua evoluzione da democrazia protetta a democrazia chiusa (e armata), appena l'esigenza della fedeltà alla costituzione (principio contenuto nella Legge f

ondamentale) si è tradotta in perentorie preclusioni al dissenso antidemocratico (e non solo alla sua pratica). (Ne può costituire precisa prova l'inserimento - nel 1975 - nel codice penale tedesco del famigerato pgrf. 88/a, che punisce la vendita di pubblicazioni sovversive).

Ma il caso italiano è, al solito, peculiare, giacché se in Germania le nuove misure antiterroristiche hanno inciso sul sistema politico nel suo complesso, da noi hanno intaccato la stessa funzione di governo. Infatti da quando, dopo gli anni del centrosinistra, è caduta ogni tensione riformatrice (allorché alla rinuncia della programmazione e, più in generale, della razionalità nella gestione dell'indirizzo politico da parte dell'esecutivo ha corrisposto il ritorno a un rassegnato settorialismo e alla logica dei corpi separati), uno dei problemi esistenziali della classe politica egemone è stato quello di trovare per l'azione di governo un obiettivo, anzi un superobiettivo, tale da costituire il tessuto connettivo (e al tempo stesso l'ombrello) per un'ordinaria e più spesso disordinata amministrazione. E tale superobiettivo, capace di giustificare la piattezza degli altri punti programmatici, non poteva che essere l'ordine pubblico. I suoi presupposti, essendo formati da una valutazione di eccezionalità dell

a situazione politica e sociale, tale da determinare quindi la necessità di provvedimenti urgenti e straordinari (di cui si finge la provvisorietà nella piena consapevolezza della loro successiva proroga "ad libitum"), bene si attagliano a fare da cornice negli altri più disparati campi a tutta una congerie di micro interventi-tampone, anch'essi fondati sullo stato di emergenza e indirizzati non a risolvere, ma a procrastinare l'esplosione di conflitti sociali. Dunque una politica del giorno per giorno, tenuta assieme dal riferimento a un'unica "grande" bandiera: la salvaguardia dell'ordine democratico (a seconda dello stato dei rapporti tra i partiti un siffatto modo di gestione dell'esecutivo acquista varie denominazioni: quando il consenso o meglio la non-opposizione è ampia, la formula è quella della "solidarietà nazionale"; quando i tempi sono più avari, la formula è "tout court" quella dell'"emergenza").

Gli effetti del governo "deresponsabilizzato" sul garantismo

Non è certo un caso che il principale strumento di azione governativa diventa il decreto legge emanato a raffica, al di là di una verifica puntuale circa la sussistenza dei requisiti prescritti dall'art. 77, 2· comma della Costituzione. Il ricorso a tale mezzo consente al governo innanzitutto, e capovolgendo la stessa ratio costituzionale, di liberarsi della propria responsabilità istituzionale, coinvolgendo il parlamento in modo sovente ricattatorio (se le misure disposte dal consiglio dei ministri non vengono confermate e convertite in legge è facile indicare e colpevolizzare davanti all'opinione pubblica e alle parti sociali interessate le forze politiche che con il loro atteggiamento hanno provocato la delusione di aspettative ormai consolidate).

Dalla "centralità" del parlamento - la quale funziona, però, in un sistema di mediazione permanente - allo stallo e alla disfunzione del potere legislativo, il passo è breve. La spirale che in ogni caso si viene a creare alimenta sempre di più i fattori causa di necessità e di emergenza; cresce ovunque l'allarme sociale.

La deresponsabilizzazione dell'azione di governo - sul presupposto della necessità - non si manifesta solo nei rapporti con le Camere, ma anche attraverso la fittizia creazione di organismi speciali o il conferimento di incarichi "ad hoc" e conseguente trasferimento di competenze e di poteri discrezionali. L'esempio eclatante, e che più immediatamente attiene al discorso che si va svolgendo, è quello offerto dall'investitura del gen. Dalla Chiesa, nelle cui mani il ministro per l'interno ha centralizzato le funzioni di indagare, prevenire e reprimere il terrorismo delle Brigate Rosse. L'alto ufficiale è svincolato nella sua attività da qualsiasi legame organizzativo con l'arma di appartenenza; può disporre con assoluta discrezionalità delle questure e degli altri apparati e servizi di polizia, può avocare a sé tutte le indagini sulla criminalità politica "di sinistra". Insomma con i suoi 150 uomini (se le indiscrezioni sono esatte) fa da battitore libero; ha messo in piedi una controbanda specializzata (e sp

eciale!) e criptoistituzionale (fuori da qualsiasi quadro organico-funzionale) autorizzata ad occuparsi (e per quanto concerne i mezzi il mandato deve essere praticamente in bianco) dei gruppi eversivi.

Il gen. Dalla Chiesa è, infatti, chiamato a rispondere solo nei confronti del ministro per l'interno, proprio come i corsari di Elisabetta nell'Inghilterra del XVI secolo che assicuravano a sua maestà la sicurezza dei mari. (Certo sarebbe temerario paragonare le scorrerie del generale piemontese nell'università calabrese con le imprese di Francis Drake nell'oceano Atlantico!).

Se i servizi di polizia costituiscono un settore, e tra i più delicati, della pubblica amministrazione, per essi (per tutti) dovrebbero valere i principi della loro organizzazione "secondo disposizioni di legge" (e non quindi secondo mere direttive ministeriali), onde garantire il buon andamento e la imparzialità dei medesimi (art. 97 Cost.), esigenze queste che determinano l'insorgere di precise responsabilità. Ciononostante il ministro dell'interno - ed è una nuova concessione all'inventiva costituzionale - "copre" con la sua responsabilità "politica" le responsabilità "altre" del gen. Dalla Chiesa, non solo nell'ambito del consiglio dei ministri, ma davanti allo stesso Parlamento che - come è noto - ha assai scarse possibilità di controllo e non ha il potere di sfiduciare singoli ministri.

Ma lo stato di necessità ancora una volta ha imposto deroghe allo stato di diritto anche a livello dello stesso assetto organizzativo, avendo conseguito come risultato di fondo la spoliazione di competenze (e con essa un depotenziamento di efficienza) degli "ordinari" servizi ed organi di polizia. Tutto questo in piena sintonia con l'indirizzo, innanzi già segnalato, di "specializzare" e "accentrare" (e, in ultima analisi, sottrarre al diritto comune) qualsiasi competenza e funzione che abbia a che fare con la lotta al terrorismo.

Nello stato di ordine pubblico, dunque, non solo è la legalità che cede alla necessità (1), ma essa stessa è agente di trasformazione istituzionale. Il governo, più che in altre congiunture, appare come "centro di autorità", ma in verità si tratta di una finzione: la situazione è di sostanziale ingovernabilità, di strutturale debolezza.

Quel che accade in sede di esecutivo, si verifica anche negli altri poteri. Non è un caso che gli stessi magistrati (romani), a cui è affidato il ruolo "straordinario" di supergiudici, sentano così spesso il bisogno di trovare da sé, e al di fuori del loro ordine, una legittimazione per il lavoro "speciale" che stanno svolgendo, che comporta quasi una sorta di estraneità dalle loro funzioni e dai loro metodi normali. Non può allora stupire, nella vicenda in corso, la caduta o per lo meno la manipolazione del segreto istruttorio ad opera degli stessi ambienti di Palazzo di giustizia. Se per la difesa è indispensabile pubblicizzare l'andamento degli interrogatori, le loro modalità, al fine di attivare l'unica garanzia a loro disposizione e cioè il controllo da parte dell'opinione pubblica; del pari gli organi inquirenti hanno interesse e bisogno, in casi come questo, e a sostegno del loro pur largo potere, della fiducia o almeno della non belligeranza della stessa opinione pubblica.

Il ruolo (decisivo) dell'opinione pubblica

L'importanza a volte determinante che assumono i mass media, in posizione sovente arbitrale, in simili frangenti è dimostrata in termini esemplari dalla vicenda del giornalista Nicotri, che è stato scarcerato probabilmente proprio grazie al venir meno del segreto istruttorio; ciò che ha rivelato a tutti un'assoluta carenza di indizi a suo carico.

Sicuramente il controllo di un'opinione pubblica "libera" costituisce l'ultimo baluardo a protezione di quel che rimane del garantismo nello stato di ordine pubblico. Occorre tuttavia anche essere coscienti che in tale tipo di regime si cerca da parte della classe politica egemone di far assolvere alla stessa opinione pubblica una funzione di propagazione continua di emozioni, di ansie; si cerca, cioè, di coinvolgerla in una operazione sostanzialmente autoritaria, usandola come collettore di consensi nei confronti della gestione della politica antieversiva (che come si è già considerato viene ad essere il superobiettivo unificante di governo) (2).

Il successo di una simile operazione non è difficile quando riesce a passare nel dibattito culturale e politico il dilemma "o con la democrazia o con i nemici della democrazia", unitamente alla logica semplificatoria che esso sottende. E' in questo clima, ad esempio, che in taluni settori anche progressisti ha suscitato per lo meno preoccupazione (se non addirittura smarrimento o sensazione di impotenza) l'immagine, attribuita a Franco Piperno, della democrazia come "giungla"per il rivoluzionario, nella quale questi può trovare soccorso, fin tanto che la democrazia non rinneghi se stessa, sfoltendo anche solo parte della sua naturale vegetazione (che rappresenterebbe le garanzie formalmente promesse). Non pochi in effetti, acconsentendo a discutere sulla base di tale metafora, hanno dovuto convenire che l'abbattimento di qualche albero non cambia, in fin dei conti, la natura del bosco; confermando in questo modo le attese di chi antepone la necessità alla legalità nell'illusione di riconoscersi in una "democ

razia efficiente".

Non sarà mai superfluo ricordare che la democrazia è un metodo, un quadro precostituito di rapporti tra poteri non manipolabile in nessuna occasione e che essa, pertanto, non sopporta alcuna aggettivazione. L'efficienza (o l'inefficienza) riguarda evidentemente i soggetti che nella democrazia si muovono e investe la loro capacità di assolvere ai ruoli istituzionali che a ciascuno compete, senza violare in nessun caso le regole del gioco.

Lo stato di ordine pubblico - nel quale il dato della razionalità cede al fattore dell'emotività, diffusa e da ulteriormente diffondere; la necessità di rendere giustizia tende a prevalere sulla Giustizia - non può rientrare nel quadro democratico, la cui caratteristica deve essere il decentramento del potere e delle competenze contro la concentrazione dei ruoli. Ecco allora che in una situazione istituzionale, così ambigua e distorta, l'affare Negri impone all'opinione pubblica un ruolo davvero decisivo, soprattutto nel rivendicare sempre la pretesa di sindacare l'attività degli inquirenti, negando loro qualsiasi forma di legittimazione fino a che non è chiara la discriminante tra valutazione delle idee e giudizio sui fatti.

Per questo non possono convincere le rassicurazioni fornite su "Rinascita" (del 27 luglio 1979) da G. Neppi Modona, per il quale "per ora", "l'impostazione processuale seguita non richiede una mobilitazione del movimento democratico a favore di imputati vittime di una preconcetta volontà persecutoria e di un supposto piano repressivo del dissenso ideologico".

Dopo Catanzaro (è con trepidazione che abbiamo iniziato a leggere la sentenza sui fatti di Piazza Fontana!) non ci si può permettere un altro "processo del secolo" che ci spieghi "tutto" sulla criminalità politica di questi anni, partendo dagli scritti, dai pensieri, fino alle conversazioni in carcere con i supergiudici del prof. Negri e che, su tali basi, offra a un Paese sempre più disorientato e alla storia un colpevole.

Note

(1) Chi scrive ha già sviluppato questo punto in una comunicazione a un convegno del Partito Radicale, ora pubblicata con il titolo "L'autoritarismo consensuale nello stato di ordine pubblico" nel volume collettaneo "L'antagonista radicale", Roma 1978.

(2) Nello scritto citato nella nota precedente si parla di autoritarismo consensuale e "ansiogeno": "si manifesta e si rafforza, cioè, nel momento in cui produce e diffonde ansie con i formidabili strumenti di persuasione e di comunicazione di cui può disporre; provoca nei cittadini sensazioni di impotenza e di alienazione; si rafforza e si espande monopolizzando il dibattito e l'informazione sul tema dell'ordine pubblico e della sua gestione. Da qui la ricerca di un incondizionato consenso emotivo. funzionalmente non partecipato e nemmeno fecondo di democrazia negli apparati che, anzi, si chiudono ancora di più. La gente in questa situazione si convince fondamentalmente di aver poche chances di impegno politico e civile: la scelta è infatti tra la casa (cioè il proprio privato) e la piazza (un rito di massa per rendere testimonianza, ma non per decidere)" (p. 132).

 
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