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Oliva Carlo - 15 settembre 1979
ELEZIONI, RADICALI, MOVIMENTO
di Carlo Oliva

SOMMARIO: I risultati delle liste del Partito Radicale rappresentano il dato di novità più notevole delle elezioni politiche. Incrementi relativi e assoluti di tale dimensione sono eccezionali per la storia parlamentare della Repubblica. L'autore analizza il problema dei rapporti futuri e presenti tra l'attivita' dei radicali nelle istituzioni e quell'ampia parte dell'elettorato che in loro si riconosce: problema che si identifica con quello di una definizione della delega politica.

(ARGOMENTI RADICALI, BIMESTRALE POLITICO PER L'ALTERNATIVA, Aprile-Settembre 1979, N. 12-13)

Nonostante l'unanimità, a tratti persino commovente, con cui l'intera stampa di regime, e buona parte di quella d'opposizione, ha fatto finta di non accorgersene, è assolutamente ovvio che i risultati delle liste del Partito Radicale rappresentano il dato di novità più notevole delle elezioni politiche. Incrementi relativi ed assoluti di tale dimensione sono assolutamente eccezionali per la storia parlamentare della Repubblica (caratterizzata a lungo da ciò che da sinistra si chiamava "vischiosità" e da destra "stabilità"), come pure eccezionale è il caso d'una forza politica ben caratterizzata in senso progressista, con un programma - checché se ne sia detto - particolarmente esplicito e priva di fondamenti ed appoggi a livello istituzionale, che si conquista, nell'arco di tre anni, un suo spazio elettorale e parlamentare. Le previsioni di quanti s'aspettano dall'attività dei diciotto deputati e dei due senatori radicali un salutare scossone al funzionamento della macchina parlamentare nell'ottava legislatu

ra sembrano pienamente giustificate.

In questa prospettiva, ci sembra interessante, anche soltanto come avvio alla discussione, porre un problema specifico, anche se di una certa importanza teorica e pratica. Quello, cioè dei rapporti futuri e presenti tra l'attività dei radicali nelle istituzioni e quell'ampia parte dell'elettorato che in loro si riconosce (e che non s'identifica, per forza di cose, come vedremo, nell'elettorato che ha dato loro il voto). Sappiamo, naturalmente, che i radicali rivendicano l'autonomia dei propri eletti ed il loro diritto costituzionale d'esercitare le proprie funzioni senza vincoli di mandato, ma il problema, come lo vediamo noi, è politico, non organizzativo e s'identifica, in pratica, con quello d'una definizione in termini moderni della delega politica, cioè della possibilità dei cittadini di partecipare in prima persona alla gestione della politica, che è poi, se non c'inganniamo, uno dei temi-forza del Partito Radicale stesso e della sua polemica con il "regime". Il partito libertario, autogestito, federat

ivo, dei militanti, non concepisce certo l'autonomia dei propri delegati nelle istituzioni in senso meccanico, come mancanza di rapporti o pura divisione di compiti. La sua polemica è contro gli apparati, per un nuovo apporto tra istituzioni e cittadini, ovviamente.

Oggi, a sinistra, è in crisi il modello classico che descriveva fino a pochi anni fa la forma ottimale di questo rapporto, quello del partito di massa a largo insediamento territoriale e sociale. Lo dimostra sia la sclerosi burocratica dei partiti storici, sia il totale fallimento dei tentativi d'organizzazione in questo senso di alcune forze di "nuova sinistra" (il PdUP, Democrazia Proletaria, Lotta Continua dal 1973 al 1977), sia il successo stesso dei radicali. E' un dato di fatto che il PR, il 3 giugno, ha ottenuto dei risultati elettoralmente molto rilevanti, spesso superiori alla media nazionale, in zone in cui il suo insediamento era ed è assolutamente nullo (nella cintura industriale milanese, per esempio). Ed è evidente che questo dato di fatto crea dei problemi in sé: rende molto difficile, per esempio, alla domanda politica radicale d'esprimersi nel campo, pur così importante, degli enti locali (a meno d'un anno dalle elezioni amministrative generali), o tende a ridare spazio, almeno in parte, a f

enomeni e comportamenti d'apparato. A un osservatore esterno, ma non malevolo, come chi scrive, è apparso inevitabile, ma pur sempre un po' deplorevole, che nella formazione delle liste elettorali, e nel gioco delle rinunce e delle opzioni ad elezioni passate abbiano giocato, in casa radicale, evidenti fattori di questo tipo. Si è trattato, con tutta probabilità, di fenomeni contingenti e transitori, eliminabili per il futuro con adeguati interventi d'ingegneria politica (sarebbe interessante, per dirne una, proporre il principio dell'incompatibilità delle candidature in più d'un collegio) ma sarebbe sbagliato, alla fin fine, far finta di niente. Il problema, potenzialmente, è quello, tutt'altro che trascurabile, di un eventuale divario tra offerta e domanda politica. Un divario che, una volta stabilito, è difficile da colmare, e che spesso, nella storia della sinistra, vecchia e nuova, è stato semplicemente occultato, mediante costruzioni ideologiche più o meno complesse. La nuova sinistra d'origine sessant

ottesca s'è servita, all'uopo, d'una raffigurazione molto ideologizzata dell'autonomia operaia, o del falso concetto d'una continuità nella classe operaia della tradizione e dei valori terzinternazionalisti, continuità viva alla base e tradita dai vertici dei partiti storici (qualcosa come la "rivoluzione tradita" della letteratura trotzkista). Ai radicali è stato spesso imputato di ricorrere, nella stessa prospettiva, a figure di grande valore carismatico. L'imputazione è fin troppo banale per essere presa in considerazione, ma qualcosa di vero dev'esserci, se il fenomeno s'è parzialmente duplicato e riprodotto. Prima e dopo il 3 giugno, tra i nuovi elettori radicali provenienti dall'area di Lotta Continua s'è sviluppata la tendenza, fatta propria anche dal giornale e esplicitata dagli appelli preelettorali di Adriano Sofri e di Sanatano (ex Mauro Rostagno), a risolvere perplessità e contraddizioni varie sulla scelta elettorale caricando d'un certo valore carismatico le figure di Mimmo (Pinto) e Marco (Boat

o). E anche in questo, al di là della stima, condivisa, verso i singoli compagni, e della fiducia nelle loro capacità operative, c'è molto di ideologico e di occultante.

Non c'è niente di scandaloso, ovviamente, nel fatto che una proposta politica caratterizzata, tra l'altro, dalla polemica contro gli apparati e dal rifiuto dell'ideologia, corra il rischio di generare comportamenti d'apparato e giustificazioni ideologiche. E', appunto, un rischio, che va individuato ed evitato. Evitarlo, anzi, per la scommessa su cui si gioca, oggi come oggi, la sopravvivenza della proposta stessa. E probabilmente l'unica via da battere è quella di partire dalle domande politiche espresse nel voto radicale, dai bisogni che esse mettono a nudo. Non è detto che tra questi bisogni e la proposta radicale ci sia, sempre e comunque, una corrispondenza biunivoca: c'è, piuttosto, una dialettica molto ricca. Ma è su questa dialettica che la proposta può crescere.

Insomma, proviamo a fare un'ipotesi: un po' impressionistica, non documentata, ma sempre un'ipotesi. I radicali, con la loro precisa ed inequivocabile azione parlamentare nella passata legislatura, con le lotte di massa che hanno proposto e condotto sul tema dei diritti civili ed umani, con la spregiudicata creatività con cui si sono saputi conquistare uno spazio nel sistema delle comunicazioni di massa, con la loro connotazione - in poche parole - di forza rigidamente d'opposizione al regime, si sono posti al centro d'un'area estremamente vasta, forse potenzialmente maggioritaria, e l'hanno fatto - correttamente - prescindendo da eventuali debolezze del loro strumentario conoscitivo ed operativo. Sono, per usare un termine della nuova sinistra, una tipica forza "di movimento": affine, per molti versi, a quello disperso sulle liste di Nuova Sinistra Unita (d'altronde la presentazione congiunta al Senato avrà ben significato qualcosa, o no?), ed affine anche, nel suo esprimere inequivocabilmente un rifiuto, a

l milione e mezzo di voti negati rappresentato dalle schede bianche e nulle. Affine sì, ma non ovviamente identico: in particolare, il voto radicale non è un voto solo di rifiuto, (come, frettolosamente, qualche commentatore "di movimento" ha interpretato, come se fosse il voto di chi dice "io politica non ne voglio più fare, eccovi la mia delega, rompete più che potete le scatole al nemico comune e lasciatemi in pace"), ma è un voto che esprime una coincidenza di giudizio su molti importanti temi politici, generali (rifiuto del compromesso storico, dichiarato o strisciante; garantismo, ecc.) o particolari (droga, aborto e via dicendo). Questa coincidenza, anzi, è sentita come decisamente predominante sui pur numerosi casi in cui non esiste da una parte (per esempio: il tema della non-violenza, o l'interesse a un recupero della tradizione socialista spinto fino al rapporto privilegiato con il PSI di Craxi e Signorile) o dall'altra (tutta la problematica della condizione operaia in fabbrica e nel sociale).

Ora, naturalmente non è sensato, né corretto, chiedere ai radicali, come qualcuno fa, di rinunciare, in base a queste considerazioni, alle proprie caratteristiche specifiche, e neanche alle proprie tattiche e strategie (inclusa, se esiste, quella del rapporto con il partito socialista), come se dovessero astrattamente mettersi "a disposizione" del movimento. Ci mancherebbe altro. Certe scelte possono lasciare perplessi dei settori dell'elettorato (l'approccio parlamentare al problema della fame nel mondo, per fare un altro esempio) ma sono evidentemente scelte assunte in piena responsabilità, e se mai il problema è quello di discuterne collettivamente senza ricorrere ad ideologismi vari. Ma è giusto, e sensato, e corretto, chiedere attenzione per certe istanze e certi valori del movimento (attenzione che, detto con franchezza, non sempre c'è stata) e non tanto per correttezza preelettorale ("t'ho dato il voto, stammi a sentire"), che sarebbe sempre qualcosa al limite del clientelismo, ma perché queste istanz

e e questi valori sono una componente fondamentale del processo d'opposizione, di quella realtà confusa e tumultuosa che esprime pur sempre la volontà dei soggetti subordinati di passare, come appunto i radicali dicono, dal ruolo d'antagonista a quello di protagonista.

E questo è il punto decisivo. In fondo, la caratteristica fondamentale di quel settore (maggioritario) del movimento che non ha rinunciato alla politica, caratteristica espressa anche nel voto alle liste del PR, è proprio la volontà d'essere protagonista, di recuperare, in forme non subordinate o addomesticate, la possibilità d'una propria partecipazione. Partecipare direttamente e responsabilmente, non solo attraverso la delega alla lotta politica e alla direzione politica, è stata l'istanza fondamentale del sessantotto studentesco e del sessantanove operaio, ed è sembrato, per un certo tempo, possibile e attuale ai militanti della nuova sinistra (il che è poi ciò che ha fatto della nuova sinistra, nonostante tutti i settarismi le ingenuità, le forzature ideologiche, i compromessi e gli sbandamenti, un'esperienza importante, anzi decisiva, e non liquidabile della nostra storia recente). C'era qualcosa di vero nell'immaginifica formula di quel dirigente di LC che diceva che i cortei operai alla FIAT ai tempi

dell'autunno caldo erano quanto di più simile a un soviet che, in quelle condizioni storiche, la classe operaia potesse esprimere. E la volontà popolare di partecipare oggi si oppone direttamente alla volontà padronale di gestire, senza interferenze la propria crisi e quella del proprio modello di società.

Un'esigenza del genere, per quanto capiamo, è ben presente ai radicali, che anzi hanno offerto negli ultimi anni, con le varie proposte referendarie, occasioni concrete (le uniche, in un certo senso) di partecipazione, e si propongono di continuare su questa via. Ma ovviamente la strategia referendaria non esaurisce la domanda di partecipazione, soprattutto per via dei limiti istituzionali che il referendum abrogativo, com'è oggi organizzato, comporta, e un po' anche perché il suo uso politico non è ancora largamente socializzato. Il problema è quello, non solo di considerare esaurito nel momento elettorale (o referendario) il proprio rapporto con la massa dei nuovi soggetti politici, e con i loro bisogni, ma anche d'impegnarsi nel complicato processo che ha per fine la strutturazione del movimento in una pluralità di centri autogestiti di lotta politica e di gestione sociale. In presenza di qualcosa del genere il senso della delega ai rappresentanti attivi nelle istituzioni ha un senso, in assenza ne ha un

altro. Certamente, un impegno di questo tipo è, per tutti, nuovo, ed ha il carattere azzardato d'una scommessa. Ma è una di quelle scommesse, come dicevamo prima, in cui la posta in gioco è la propria sopravvivenza.

 
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