di Hervè OttSOMMARIO: Ogni riflessione sul digiuno o sullo sciopero della fame è una riflessione sulla morte. Cessare di mangiare è in effetti togliere alla vita ogni possibilità di continuare. E' per questo che sospendere volontariamente di nutrirsi è sempre un atto "a-normale", che provoca delle reazioni insospettabili. L'autore distingue tra digiuno e sciopero della fame per arrivare alla conclusione che lo sciopero della fame non è "sacrificio", non è "suicidio", non è "ricatto" ma mezzo ultimo di lotta contro leggi ingiuste, esso è la negazione stessa del potere dello Stato, perchè suo scopo è sensibilizzare l'opinione pubblica affinchè rompa la propria collaborazione passiva con lo Stato, almeno su uno scopo preciso e per un tempo limitato.
(ARGOMENTI RADICALI, BIMESTRALE POLITICO PER L'ALTERNATIVA, Aprile-Settembre 1979, N. 12-13)
"Ogni riflessione sul digiuno o sullo sciopero della fame è una riflessione sulla morte. Cessare di mangiare è in effetti togliere alla vita ogni possibilità di continuare. E' per questo che sospendere volontariamente di nutrirsi è sempre un atto "a-normale", che provoca delle reazioni insospettabili presso colui che vive questa esperienza, come presso coloro ai quali si indirizza questo atto.
Nella nostra società chiamata "di consumo" gli uomini non consumano forse per dimenticare che essi sono "esseri-per-la-morte"? C'è in ogni caso un malessere: disagio che spiega l'attuale inflazione di libri sulla morte, malessere davanti alla morte pianificata giustificata, calcolata, davanti alla proliferazione di armamenti, la ecatombe di macchine, gli omicidi bianchi sul lavoro, le rivoluzioni ed il terrorismo, la morte lenta negli ospedali psichiatrici...
E' paradossalmente quando lo sciopero della fame diventa sempre meno "pensabile" presso di noi (poiché contrariamente agli affamati del mondo, noi abbiamo molto da perderci) che può rivelarsi un mezzo di lotta nonviolenta sempre più efficace. La sua efficacia dipende in effetti dall'attitudine generale della nostra società occidentale davanti alla morte. Perché la nostra società, come ogni società, ha la propria maniera particolare di affrontare questa realtà ineluttabile: noi siamo tutti degli "esseri-per-la-morte"(1).
Toccando da vicino il dominio del simbolismo e della morte il digiuno e lo sciopero della fame scatenano sovente le passioni più irrazionali e rimettono in questione fatti politici creduti incontrollabili. E' dunque cercando di rispondere alle obiezioni più correnti che cercherò di precisare qualche aspetto essenziale di queste forme di azione. E' necessario innanzitutto chiarire la differenza tra digiuno e sciopero della fame".
Digiuno o sciopero della fame?
"Intuitivamente sentiamo che digiuno e sciopero della fame non indicano la stessa cosa. Ma quando si cerca di definire dei criteri che permettano di utilizzare questi due termini sempre nello stesso senso, ci si rende conto della confusione. Fra i militanti nonviolenti, gli uni utilizzano il termine di digiuno riferito a ciò che è strettamente privato (rifiuto dell'alimentazione per ragioni morali, religiose, dietetiche, etc.) e chiamano tutto il resto sciopero della fame.
Altri vorrebbero riservare il termine sciopero della fame alla sospensione dell'alimentazione di colui che, fissando un obiettivo preciso dichiara di perseguirlo, se necessario, fino alla morte. Fra questi due estremi, le opinioni variano a seconda dei criteri scelti: durata (limitata o illimitata), obiettivo (privato o politico), natura della pressione esercitata (costrizione morale, appello all'opinione pubblica). In questo disordine la tradizione storica nonviolenta non ci è di nessun aiuto. Gandhi per esempio impiega esclusivamente il termine di digiuno anche nei casi in cui oggi tutti sarebbero d'accordo per parlare di sciopero della fame...
Nel libro "Strategia dell'azione nonviolenza" Jean-Marie Muller propone questa definizione: "Ci sembra importante distinguere il digiuno iniziato per ragioni di ordine religioso e terapeutico dallo sciopero della fame iniziato con degli obiettivi politici. Di conseguenza il digiuno è un gesto privato mentre lo sciopero della fame è pubblico". D'altronde egli distingue nettamente lo sciopero della fame limitato a qualche giorno (che egli annovera tra i mezzi di appello all'opinione pubblica) dallo sciopero della fame illimitato, di cui parla nella parte dedicata alle azioni dirette, quelle che mettono in atto dei mezzi di costrizione.
Gene Sharp nel libro "The Politics of Nonviolent Action" distingue tre termini: digiuno di pressione morale, sciopero della fame e digiuno sathiagraha. Questa ultima espressione non si addice che a certi digiuni di Gandhi ed indica un digiuno il cui scopo primario se non esclusivo è di "convertire" colui contro il quale si digiuna, che non deve essere un avversario ma un amico o un vicino. All'opposto lo sciopero della fame "può essere definito come un rifiuto di mangiare con lo scopa di forzare l'avversario ad accordare certe richieste, ma senza alcuno sforzo di convertirlo o di" cambiargli il cuore". "Tra i due, il digiuno di pressione morale rivolto ad esercitare una influenza morale su altri al fine di raggiungere un obiettivo, ma senza l'intenzione apertamente coercitiva dello sciopero della fame e senza l'intenzione di conversione del digiuno" sathiagraha. "Queste distinzioni non mi sembrano soddisfacenti.
Quella di Gene Sharp è troppo imprecisa: si contenta di porre due termini opposti (conversione e coercizione) per utilizzare in una categoria intermedia (il digiuno di pressione morale) ciò che non rientra nelle prime due definizioni.
Non sono neanche d'accordo con le distinzioni fatte da Jean-Marie Muller. Non mi sembra possibile infatti distinguere così nettamente le ragioni d'ordine religioso da quelle d'ordine politica. Senza parlare di Ghandi (che rappresenta un caso molto particolare), di Chavez, di King, di Camara, dei contadini del Larzac, per non citare che quelli che non fanno chiaramente queste distinzioni.
Io credo dunque che è necessario proporre un nuovo modo di definire queste diverse nozioni. Non affidandosi più sulle motivazioni, ma sui destinatari dell'azione. Propongo di chiamare digiuno ogni privazione volontaria di alimentazione, con la quale si cerchi di indirizzarsi ai membri del proprio gruppo o di un gruppo solidale. Lo sciopero della fame in vece si indirizza all'"esterno": all'opinione pubblica perché non resti indifferente, agli oppositori ai quali si vuole strappare una decisione...
Questo modo di distinguere i due termini si appoggia sul senso originario della parola "digiuno" e della parola "sciopero". Il digiuno è una pratica antica che ha una origine tipicamente religiosa: serviva alla riflessione, alla purificazione, alla penitenza e alla riconciliazione. L'espressione "sciopero della fame" invece, deve essere messa in parallelo con sciopero del lavoro, è l'atto stesso di non-collaborazione. Si fa sempre sciopero contro qualcuno o qualcosa di esterno a se stessi o al proprio gruppo.
Credo, d'altronde, che non bisogna forzare la differenza tra lo sciopero della fame limitato nel tempo e lo sciopero della fame illimitato: è una differenza quantitativa, e non qualitativa. La differenza quantitativa di tempo aumenta la differenza quantitativa di costrizione. Lo sciopero della fame limitato serve a provocare l'attenzione dell'opinione pubblica e denunciare un'ingiustizia, ma senza pretenderne la soppressione. Serve in pratica da proiettore, da rivelatore. Come ogni azione simbolica interroga, semina il dubbio nella quieta e buona coscienza dell'opinione pubblica. Lo sciopero della fame illimitato, al contrario è un atto di costrizione: non mira alla pubblicizzazione di una lotta, ma tende al raggiungimento di uno scopo. Perché è evidente che non basta far prendere coscienza di un problema all'opinione pubblica: è necessario giungere a una decisione che metta fine, nei fatti, alla situazione denunciata come ingiustizia; è in questo caso che quanto più la vita di chi attua lo sciopero della fa
me è posta in causa tanto più aumentano le possibilità di realizzazione. E' molto pericoloso in ogni azione attenersi alla sola pubblicizzazione trascurando la necessità di certi mezzi di costrizione".
Qualche obiezione corrente
"Lo sciopero della fame è sovente assimilato ad un sacrificio con tutte le connotazioni religiose che comporta questa parola. Certe espressioni di nonviolenti come Ghandi e Chavez che non hanno mai nascosto le loro convinzioni religiose, sembrano giustificare questa assimilazione. "La forza spirituale della non violenza è creata da uomini e donne che accettano di sacrificarsi" dice Chavez, e Ghandi parla spesso del sacrificio come principio di vita. Il pensiero di René Girard può aiutarci di chiarire questo punto" (La violence et le sacré, "Grasset 72)".
Lo sciopero della fame non è un "sacrificio"
"La storia dei riti religiosi ci mostra che il sacrificio non è mai sacrificio di sé, ma sempre sacrificio di un altro (capro espiatorio). Infatti è solamente a partire dal 17º secolo che si parla di sacrificio di se stessi probabilmente sul modello della morte di Cristo interpretata erroneamente come "sacrifico", ciò che non avviene più dopo Girard. Ugualmente in una prospettiva evangelica non si può parlare di "sacrificio" a proposito dello sciopero della fame (2).
Un altro chiarimento su questo punto ci viene dal pensiero di Franco Fornari (F. Fornari", Psicanalisi dello stato atomico) "e dalla distinzione che egli prende in prestito da M. Klein tra "stato paranoide" e "stato depressivo" (3). Lo stato paranoide può essere definito come un rapporto di violenza nel quale il soggetto percepisce l'oggetto come una minaccia alla propria esistenza, minaccia in sé e per sé illusoria ma psicologicamente reale, e da ciò il soggetto tende a distruggere l'oggetto in una illusoria prospettiva di sopravvivenza. E' precisamente la situazione sacrificale di Girard quella che conduce ad uccidere la vittima totalmente innocente ma considerata colpevole: il capro espiatorio. Per stato depressivo Fornari intende al contrario un rapporto di violenza che è scatenato quando la violenza si ritorce contro l'oggetto di amore: la violenza cessa allora di dirigersi verso l'oggetto e si riflette sul soggetto considerato come una condizione indispensabile alla conservazione dell'oggetto, e per po
ter sopravvivere identificandosi coll'"oggetto".
E' dunque lo sciopero della fame che è descritto come "stato depressivo", "il soggetto si preoccupa di salvare l'oggetto amato attraverso il quale si sente vivere al punto di sacrificarsi per amore di questo oggetto".
Non si tratta dunque né di masochismo né di dedizione suprema ad una causa o agli altri: assumendo il rischio di morire, il soggetto agisce ancora per se stesso, poiché la sua preoccupazione è di salvare il senso che gli permetta di vivere.
Egli accetta il rischio di morire per questo senso piuttosto che tradirlo rischiando di uccidere: uccidendo, salverebbe forse la propria vita ma tradirebbe ciò che dà senso alla vita, la sua propria verità, dunque sé stesso. Questa riflessione sullo sciopero della fame ci riconduce attraverso sentieri non abituali al dibattito sui fini ed i mezzi: solo lo stato depressivo (nel senso di Fornari), solo il rifiuto di sacrificare l'altro (nel senso di Girard) permettono di mirare all'identità tra i fini ed i mezzi.
Lo sciopero della fame non è un "suicidio"
Un'obiezione frequente che si fa a proposito dello sciopero della fame, in particolare dai cristiani, è che si tratta di un suicidio. La questione importante è che si tratta di giudicare se il fatto di mettere la propria vita in gioco equivale ad un suicidio. Se suicidio è darsi la morte da se stessi volontariamente, lo sciopero della fame non è un suicidio: io lascio ad altri la responsabilità di lasciarmi morire o no (si parlerà allora di "riscatto", ma ci ritorneremo). E' già una differenza di taglia, perché è l'altro che indirettamente mi uccide. Se vedo un uomo armato che si appresta ad uccidere una persona che voglio salvare ed io mi getto volontariamente tra i due è forse un suicidio? Tutto ciò che cerco in un simile gesto non è di essere ucciso al posto dell'altro, ma annullare la volontà omicida dell'assassino, presentando un'altra vittima, innocente, ai suoi occhi.
Un'altra differenza fondamentale con il suicidio riguarda la durata, fattore decisivo in una lotta. Mentre il suicidio è un atto brusco e inevitabile, lo sciopero della fame permette di esercitare sull'avversario una pressione graduata. Bisogna d'altronde ricordare che lo sciopero della fame è sempre l'ultimo mezzo, cioè si tratta dell'ultima arma al termine di una lunga lotta in cui tutti gli altri mezzi nonviolenti possibili sono stati utilizzati: l'avversario non è dunque preso alla sprovvista e ha già tutti gli elementi di informazione necessari per prendere la propria decisione. E' vero che si può stimare suicida questo o quello sciopero della fame: ma sono allora altri aspetti che bisogna incriminare, non lo sciopero in se stesso; mancanza di partecipazione, errori d'analisi nella valutazione dei rapporti di forza, richieste eccessive che l'avversario non può accordare in nessun caso, mancanza di sforzo di spiegazione di fronte all'opinione pubblica, etc. E' totalmente sbagliato identificare suicidio e
sciopero della fame a meno che non si decida di chiamare suicidio ogni azione nella quale si rischia di morire. Non è oggi più pericoloso, statisticamente parlando, guidare l'automobile che fare uno sciopero della fame?
Lo sciopero della fame non è un "ricatto"
Nel suo recente libro L. V. Thomas (L. V. Thomas", Mort et pouvoir, "Payot 78) tratta dello sciopero della fame in un capitolo sul "ricatto fino alla morte", tra il suicidio e il sequestro di persona. "Per un sorprendente paradosso, dice, se la conquista del potere scongiura l'angoscia della morte, il potere in certi casi non può conquistarsi che al prezzo della vita. E' così che certi suicidi e condotte autodistruttive rispondono al desiderio di autoaffermazione per esercitare sull'altro un dominio più o meno durevole: la mia morte diventa allora la posta, il supporto della mia superiorità". Per illustrare la sua proposizione, Thomas cita il suicidio-ricatto, il suicidio-vendetta e lo sciopero della fame.
Se mi sembra giusto riconoscere, nel caso del suicidio, un certo "desiderio di affermazione di sé" credo che sia falso per ciò che riguarda lo sciopero della fame. E ciò per la ragione affermata in precedenza: lo "stato depressivo" (nel senso di Fornari) non è all'inizio affermazione di sé, ma affermazione dell'oggetto d'amore (giustizia, verità, pace, ecc.). Thomas ha ben visto che il "suicidio-ricatto non riesce che quando fallisce"; ma non ha scoperto la differenza fondamentale con lo sciopero della fame: esso riesce se l'obiettivo è raggiunto (se l'oggetto d'amore è conservato, in termini fornariani) anche se chi ha messo in atto lo sciopero della fame ne muore. Nel caso del suicidio-ricatto, il rischio è di "fallire il fallimento"; nello sciopero della fame il rischio non è di morire ma di non raggiungere l'obiettivo al quale si mirava. Thomas analizza in seguito il "suicidio-sacrificio" (quello di Jan Palach, per es.) e lo paragona allo sciopero della fame, notando la differenza di durata ma pretendend
o che in ambedue si tratta di un ricatto, ultimo ricorso che si offre a chi non ha potere per imporre la propria volontà ai potenti. I loro scopi sono identici: avvisare l'opinione pubblica al fine di mobilitarla per una causa d'interesse generale contro le vigenti autorità. "Interesse generale", "vigenti autorità": noi ci troviamo dentro un vocabolario politico. Si può ancora parlare di ricatto a questo livello? Esiste il ricatto quanto cerco di imporre la mia volontà esercitando su qualcuno una forte pressione psicologica (rendendolo responsabile della mia morte). Ma nel caso di uno sciopero della fame iniziato per un obiettivo di interesse generale, per esercitare sulle autorità una pressione politica e non psicologica? Lo sciopero della fame non sfuggirà dunque all'accusa di ricatto finché non riesce a convincere che l'obiettivo è di interesse generale e non privato, se questo obiettivo è preciso, senza ambiguità, relativo ad una realtà concreta, appoggiato su di un consenso popolare.
E' necessario che l'obiettivo permetta di sollevare questioni fondamentali e faccia riferimento a dei valori semplici e comprensibili da tutti come la pace, la giustizia, la libertà, la democrazia, ecc. L'appello a questi valori che sono comuni alla schiacciante maggioranza dell'opinione pubblica del nostro paese deve permettere una presa di coscienza di reali problemi politici. Lo sciopero della fame permette allora di affrontarli immediatamente invece di perdersi in interminabili discussioni e lotte ideologiche per definirne i contorni esatti. Quanto alla pressione esercitata sull'avversario, se per caso fosse percepita come un ricatto, il suo dovere, secondo Ghandi, sarebbe di non cedere alle richieste di chi attua lo sciopero della fame! "Ad un certo momento, Ghandi esortò tutti gli individui e tutte le autorità contro le quali si digiunava e che riconoscevano il digiuno solo come una forma di ricatto, di rifiutare di cedere anche se questo rifiuto avrebbe potuto provocare la morte del digiunatore!" (E.
H. Erikson", La verità di Ghandi, "Feltrinelli). C'è una minaccia di morte che è brandita, riconosce Thomas. Me segue una prova di forza nella quale l'intensità drammatica s'accresce con l'imminenza della morte. Ma questa minaccia differisce fondamentalmente dalla minaccia violenta nel senso che secondo l'espressione di J. Semelin (J. Semelin", Du militant nonviolent et de la mort, "A.N.V. n. 24-25) non sono più io che minaccio l'altro di morte, ma è l'altro minacciato dalla mia morte.
Per valutare l'efficacia di una azione come lo sciopero della fame, è necessario analizzarne gli effetti sull'avversario, e particolarmente sullo Stato. Come potere repressivo lo Stato si definisce fondamentalmente attraverso due fattori: 1) ha il monopolio della violenza legittima, grazie alla Legge, percepita come minaccia di morte; 2) la sua esistenza e la sua forza sono legate al consenso popolare: anche la peggiore fra le dittature si nutre sempre della cooperazione di un grande numero, o quanto meno della passività, della maggioranza dei cittadini. Si può essere in disaccordo con questa o quella misura (legge, decreto, ecc.) ma quando si accetta solo di subirla, si collabora, indirettamente certo, ma realmente, con lo Stato.
L'opinione pubblica: come stabilire un rapporta di forza?
Il potere dello Stato non risiede dunque solo nei mezzi di repressione (sempre legittimi d'altronde) ma anche nella Obbedienza Civile dei cittadini. Ora, se la disobbedienza civile è un mezzo di lotta contro leggi ingiuste, lo sciopero della fame ne è il mezzo ultimo: esso è la negazione stessa del potere dello Stato. L'obbedienza può anche essere semplicemente passività, oppure può anche diventare zelo attivo e trasformarsi in obbedienza servile. Poco importa: lo Stato sa contentarsi della rassegnazione passiva. L'opinione pubblica è quella della massa di persone che non dicono niente (maggioranza silenziosa) perché la loro espressione è anestetizzata: questo non significa che non hanno opinione, anzi al contrario. In quanto passiva, questa opinione pubblica non sostiene nemmeno l'azione dei propri dirigenti, sia attraverso il voto, sia per l'assenza di ogni forma di resistenza.
Scopo essenziale di ogni azione nonviolenta in generale e di ogni sciopero della fame in particolare è di "sensibilizzare" l'opinione pubblica affinché rompa la propria collaborazione passiva con lo Stato almeno su uno scopo preciso e per un tempo limitato.
Si può così schematizzare questa azione:
Stato-Governo
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nonviolenza -" opinione pubblica
L'azione violenta mira direttamente contro lo Stato e lascia l'opinione pubblica in una posizione di "aspettatore":
Stato-Governo
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violenza - - opinione pubblica
Ma l'opinione pubblica non resta spettatrice: da una parte è sempre spaventata dalla violenza, soprattutto dalla violenza "illegale", d'altra parte lo Stato si serve di questa paura, l'organizza, la mette in scena per condannare i "violenti" ad esercitare contro di loro una repressione ancora più forte:
violenza "- opinione pubblica
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Stato-Governo
La forza di pressione dell'opinione pubblica non è solo una questione di quantità: se il numero è importante è soprattutto la diversità di persone coinvolte che conta. Uno degli errori delle lotte popolari, in Francia oggi, consiste nel credere che sensibilizzando tutta l'opinione "di sinistra" si può vincere contro dei progetti realizzati dallo Stato-governo di destra. Ora se la sinistra è ancora minoritaria e, soprattutto il Governo è molto più sensibile agli umori dei propri elettori che a quello degli avversari, è dunque anche l'opinione pubblica che sostiene il Governo che è necessario raggiungere.
Nel caso dello sciopero della fame, la sensibilizzazione dell'opinione pubblica deriva dallo choc psicologico: non mangiare è diventato, nella nostra società sempre più consumistica, una cosa sconosciuta, sorprendente. A maggior ragione arrivando fino al rischio della morte, lo sciopero della fame, come d'altronde il digiuno, colpisce come una trasgressione dell'ordine naturale. E' diventato banale rimarcare che lo Stato, quando è attaccato frontalmente da metodi violenti, reagisce con tutta la violenza che possiede. Lo Stato e l'opinione pubblica fanno blocco, vi vendo insieme questo attacco come l'inizio della fine. Il processo sacrificale funziona allora perfettamente poiché la "colpevolezza" dei terroristi è evidente (essi hanno fatto uso di violenza): l'opinione pubblica trova normale che li si lasci morire e tutti insieme.
Al contrario, l'azione nonviolenta ha per primo risultato che l'opinione pubblica non fa blocco con lo Stato. Questo tipo di attacco dolce ma fermo evita che il conflitto sia vissuto drammaticamente dall'avversario: ha il tempo di valutare i rischi che corre nel mantenere la propria intransigenza. Questo rischio, per lo Stato, non è solo di vedersi abbandonato dall'opinione pubblica ma anche di trovarsi diviso in se stesso: ci sono infatti persone, in seno allo Stato-Governo che si oppongono alla intransigenza dei membri più duri. Lo sciopero della fame ha dunque per effetto di minare la potenza dello Stato, innanzitutto alla base e poi al vertice, non con delle puntate offensive ma con una lenta disgregazione che può, a lungo termine, essergli catastrofica. E' d'altronde perché subisce una pressione che lo Stato cerca di rompere il processo generato dallo sciopero della fame, per non perdere la faccia. Ma in questo caso la repressione deve provocare un aumento della resistenza.
C'è una opinione in cui non si parla abbastanza ed è l'opinione pubblica internazionale; ora il processo delle relazioni tra stati è lo stesso che quello delle relazioni tra uno Stato ed i suoi cittadini. Generalmente gli Stati e le opinioni pubbliche hanno tendenza a sostenere i poteri già esistenti, anche se sono delle dittature, allorché i movimenti di liberazione accettano il ricorso alla violenza. Ma laddove un movimento di liberazione fa ricorso alle strategie nonviolente, il sostegno internazionale viene meno e lo Stato coinvolto non può giustificare la repressione. E' dunque essenziale conoscere bene questo meccanismo e non dimenticare l'opinione pubblica internazionale nella preparazione di uno sciopero della fame.
Potrei riassumere ciò che ho appena detto estrapolando questi tre elementi. Ogni sciopero della fame è:
- il superamento di una necessità naturale (il fatto di alimentarsi);
- una trasgressione della Legge come fondamento dell'ordine sociale, attraverso la messa in gioco della propria morte;
- l'affermazione di un riferimento assoluto: pace, giustizia, libertà".
Da "Alternatives nonviolentes" n. 34, juillet 1979, traduzione dal francese di Claudio Jaccarino
Note
1) "Dall'Alto Medioevo fino a metà del XIX secolo l'attitudine davanti la morte è cambiata, ma così lentamente che i contemporanei non se ne sono accorti. Da circa un terzo di secolo, noi assistiamo ad una rivoluzione totale delle idee e dei sentimenti tradizionali: così "brutale" che non ha mancato di colpire gli osservatori sociali. E' un fenomeno in realtà assolutamente inaudito. La morte, cosi presente altre volte, tanto che era considerata familiare, viene cancellata e nascosta. Essa diventa vergognosa ed oggetto di divieto..." Aries, "Essais sur la mort".
2) Vicina alla nozione di sacrificio è quella di "martire"; ma se si prende questa parola nel suo senso etimologico, quello di testimone, perde la sua connotazione religiosa e traduce un senso profondo dell'attitudine che giace al fondo di ogni sciopero della fame... essere testimone della giustizia, della libertà, ecc.
3) Questa espressione non va presa nel senso di depressione nervosa tratta da una cattiva volgarizzazione della psicologia, ma designa in Melania Klein l'identificazione del soggetto con l'oggetto d'amore.