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Arnao Giancarlo - 15 settembre 1979
DROGA E INTELLETTUALI: IL PROBLEMA DEL PROBLEMA
di Giancarlo Arnao

SOMMARIO: Il massiccio interessamento della società al "problema" non è sempre stato adeguato , anzi è stato talvolta controproducente. Si è così sovrapposto al "problema della droga" quello che si potrebbe definire "il problema del problema della droga", alla patologia dei cosiddetti "drogati" la patologia di quelli che dei drogati si occupano. Arnao riporta articoli e saggi di diversi autori che trattano questo problema da angolazioni differenti.

(ARGOMENTI RADICALI, BIMESTRALE POLITICO PER L'ALTERNATIVA, Aprile-Settembre 1979, N. 12-13)

E' noto come il "problema" della droga abbia creato, attorno ai soggetti interessati (tossicodipendenti e consumatori di droghe illegali) un progressivo coinvolgimento di diversi settori della società nel tentativo di risolvere il problema stesso. Si è infatti avuta da una parte una proliferazione di strutture istituzionali (giudiziarie, repressive, sanitarie, sociali), dall'altra un moltiplicarsi di interventi da parte del mondo della cultura, e cioè di quelli che sono comunemente definiti "intellettuali".

Questo massiccio interessamento della società al " problema" non è sempre stato adeguato, anzi è stato talvolta controproducente. Si è cosi sovrapposto al "problema della droga" quello che si potrebbe definire "il problema del problema della droga", alla patologia (o presunta tale) dei cosiddetti "drogati" la patologia di quelli che dei drogati in qualche modo si occupano. La misura e la modalità con cui l'una patologia è collegata con l'altra è stata sottolineata da diversi autori (ricordiamo fra tutti J. Young nel suo "The Drugtakers" purtroppo non tradotto in italiano) e si manifesta fra l'altro nel fenomeno di "amplificazione della devianza" (cfr. Arnao, "Rapporto sulle droghe", p. 186). Essa può essere esemplificata in maniera particolarmente efficace da una testimonianza riportata da "Oggi" del gennaio 1976 nel contesto di un ampio servizio sulla droga intitolato "Si drogano a scuola per imitare gli amici". Ne riportiamo i tratti salienti (il corsivo è nostro):

Cosi hanno ucciso mio figlio.

"E' alta, bionda, il viso scavato e gli occhi coperti da un paio di occhiali da vista, scuri". Fuma una sigaretta dopo l'altra con la mano che le trema un poco. "Suo figlio, Alberto, è morto a 17 anni. L'ha ucciso l'eroina. E' accaduto nel 1974 in una grande città di cui la donna ci chiede di non rivelare il nome". (...)

Dopo una pausa per accendere l'ennesima sigaretta, la donna (...) riprende a parlare. ""Volete sapere com'è successo? Come hanno ucciso il mio Alberto? No, non pensate che sia stato un ragazzo diverso dagli altri. Fino alla terza media studiava, era molto bravo a scuola (...). Non ci dava né problemi né preoccupazioni (...). Poi si è iscritto a quel liceo e sono cominciati i guai. (...). Alberto è cambiato di colpo". E' diventato triste e musone. Non parlava più né con me né con suo padre. "A scuola poi era un disastro. (...). E' stato bocciato.

Un giorno (...) ho trovato Alberto nella sua camera. Stava fumando in uno strano aggeggio, una pipetta (...). Aveva gli occhi trasognati. L'ho messo alle strette e lui poi mi ha rivelato che quello che fumava era hashish (...).

Per me" questa rivelazione è stato uno choc. "L'ho pregato di" non farlo più. "Ma lui mi ha risposto: `Mamma, non posso. Ormai è l'unica cosa in cui credo'. A quel punto ne ho parlato con mio marito e insieme abbiamo deciso" di portarlo dal medico. "E' stato" in cura per sei mesi "e sembrava guarito. Non fumava più ma purtroppo" era passato all'eroina. (...). "In quell'ultimo periodo", fra noi genitori e lui era scomparsa qualsiasi forma di dialogo. (...). "Noi lo sgridavamo e lui zitto. Gli abbiamo anche detto che" volevamo portarlo in una clinica. "Lui ha risposto: `Se tentate di farlo mi ammazzo'. Ecco, ancora oggi io mi domando cosa potevo fare, cosa dovevo fare per salvarlo. Ma non ho trovato una risposta. Ho solo dentro di me un grande senso di colpa".

E' un senso di colpa che questa donna si porterà dietro ingiustamente per tutta la vita. Perché in realtà" l'assassino di suo figlio ha un volto e un nome ben preciso: lo spacciatore.

A parte il dato paradossale di questa madre che è evidentemente (ma inconsapevolmente) "drogata" con nicotina, ci sembra che il significato più profondo di questa drammatica storia stia nel fatto che i disturbi esistenziali e scolastici di Alberto, probabilmente legati a problemi di carattere affettivo nei riguardi della famiglia, vengono attribuiti senza esitazioni ad un "agente patogeno" esterno: la droga. Come tali, si cerca di risolverli non attraverso la ricerca di un diverso rapporto familiare, ma dapprima con la proibizione della droga, e poi delegando al "tecnico" (il medico) l'intervento contro l'agente patogeno: un meccanismo analogo a quello con cui gli esorcisti venivano incaricati di scacciare il demonio da chi ne era posseduto, seppure tecnologicamente aggiornato (nello stesso servizio, un illustre psichiatra ed "esperto" afferma che per le droghe leggere "le cure disintossicanti sono le fleboclisi, la somministrazione di epatoprotettori, di tranquillanti e di psicofarmaci adatti"). Ma l'esorci

smo sulla droga leggera viene paradossalmente seguito dal ricorso alla droga pesante. A questo punto, la situazione precipita: aumenta la separatezza fra Alberto e i genitori, la famiglia non trova altra via che tentare ancora la carta dell'esorcismo nella forma del ricovero in clinica. Alberto naturalmente rifiuta, continua a bucarsi, muore. La madre sente confusamente di avere sbagliato. Ma, nella conclusione dell'articolo, gli autori del servizio (Galiani, Marchesini e Rossetti) si preoccupano di assolverla proponendo ancora una volta una interpretazione in chiave demonizzante: la colpa non è stata della famiglia, ma del portatore dell'agente patogeno: lo spacciatore.

L'ideologia demonizzante del drogato, la soluzione esorcistica-medicalizzante dei problemi (come quello di Alberto) dove la "droga" vale tuttalpiù come "sintomo" ma non come "causa" e che sono invece legati a un complesso di fattori psicologici sociali e familiari, è innegabilmente influenzata da un determinato clima culturale. Un clima che non è ispirato soltanto dalla sottocultura dei rotocalchi scandalistici, ma anche da operatori culturali e sociologhi illustri che sono intervenuti sull'argomento dalla ribalta di autorevoli testate.

Questa asserzione ci sembra validamente dimostrata da una limitata ma significativa scelta di interventi di "intellettuali" apparsi sulla stampa italiana negli ultimi anni.

La prima (anche in ordine di tempo) appartiene all'autore più prestigioso, e più attento ai fenomeni di costume italiano: Pier Paolo Pasolini.

La droga: una vera tragedia italiana

("Corriere della Sera", 24 luglio 1975)

In questo lungo saggio che, a parte lo specifico della droga, contiene interessanti ed acute analisi sulla società italiana, P.P.P. sembra partire sul piede giusto, affermando:

"Per chi non si droga, colui che si droga è un "diverso". E come tale viene generalmente destituito di umanità, sia attraverso il rancore razzistico (...), sia attraverso l'eventuale comprensione e pietà. Nei rapporti col "diverso" intolleranza e tolleranza sono la stessa cosa.

C'è da dire tuttavia che mentre gli intolleranti credono che la diversità dei diversi non abbia spiegazioni e quindi meriti soltanto odio, i tolleranti si chiedono spesso, più o meno sinceramente, quali siano le ragioni di tale "diversità".

Ora tanto io che il mio lettore siamo dei "tolleranti": c'è da avere dubbi su questo? Perciò la domanda che pongo è la seguente: "Per quale ragione quei `diversi' che sono i drogati si drogano"?"

Pasolini accenna poi alle diverse situazioni psico-sociali che possono portare alla droga, e conclude:

Quel poco di sapere psicoanalitico di cui ogni intellettuale può disporre è sufficiente a trarre qualche diagnosi: la quale diagnosi è però eternamente la stessa: desiderio di morte".

Passando a trattare il "fenomeno droga" dal punto di vista più generale, storico, afferma poi:

"Per quanto riguarda la mia personale, e assai scarsa esperienza, ciò che mi par di sapere intorno al fenomeno della droga è il seguente dato di fatto: la droga è sempre un surrogato. E' precisamente un surrogato della cultura (...). Ad un livello medio - riguardante "tanti" - la droga viene a riempire un vuoto causato appunto dal desiderio di morte, e che è dunque un vuoto di cultura.

(...) Anche a un livello più alto si verifica qualcosa di simile: ci sono dei letterati e degli artisti che si drogano. Perché lo fanno? Anch'essi, credo, per riempire il vuoto: ma stavolta si tratta non semplicemente di un vuoto di cultura, bensì di un vuoto di necessità e di immaginazione. La droga in tal caso serve a sostituire la grazia con la disperazione, lo stile con la maniera".

A questo punto, non possiamo fare a meno di notare che le interpretazioni e le espressioni privilegiate da P.P.P. dimostrano quanto questo tentativo di "tolleranza" - e quindi di razionalità - sia ispirato ad una valutazione pregiudizialmente negativa del fenomeno in esame, laddove le motivazioni dello stesso vengono descritte con connotazioni fortemente negative (desiderio di "morte, surrogato" di cultura, "vuoto" di necessità e di immaginazione) e le conseguenze sempre fallimentari: la grazia lascia il passo alla disperazione, lo stile alla maniera. Se questo rappresenta realmente l'opinione dei "tolleranti", non si vede in che modo essa possa distinguersi da quella "destituzione di umanità" che sarebbe una caratteristica degli "intolleranti". La pretesa di tolleranza viene più scopertamente smentita da un passo successivo (il corsivo è nostro):

"E' vero che anche oggi, se vado a Piazza Navona e incontro un drogato che passa" ciondolando, "con aria" noiosa "e" vagamente sinistra, "sento in lui i caratteri dell'"infelicità "e del" rifiuto piccolo borghese: "e" maledico "la" misteriosa circostanza che ha" costretto, "lui singolo, a fumare dell'hascish" invece "di leggere un libro".

Una frase in cui non vi è parola che non denunci una connotazione fortemente negativa e che fa del cosiddetto drogato (che è poi un banale "fumatore") quasi un posseduto del demonio. Singolare poi la contrapposizione del "fumare" con la possibilità di leggere un libro, come se l'una cosa escludesse l'altra, come se la condizione di "drogato" escludesse necessariamente qualsiasi attività umana di una certa dignità (una "destituzione di umanità" appunto).

Dopo aver spiegato come il fenomeno della droga sia rimasto confinato alla borghesia durante il fascismo e nel primo trentennio democristiano, P.P.P. fa notare che:

"Il fenomeno della droga ha cambiato radicalmente carattere rispetto a quello che esso era dieci o venti anni fa. E' divenuto cioè un fenomeno che riguarda la massa e comprende dunque tutte le classi sociali (anche se il suo "modello" resta borghese, ed è magari quello fornito dalla contestazione).

Dunque noi oggi viviamo in un periodo storico in cui lo "spazio" (o "vuoto") per la droga è enormemente aumentato. E perché? Perché la cultura in senso antropologico, "totale", in Italia è andata distrutta, o è in via di distruzione. Quindi i suoi valori e i suoi modelli tradizionali (uso qui questa parola nel senso migliore) o non contano più o cominciano a non contare più".

In sostanza, Pasolini riprende qui la sua nota e suggestiva tesi della sostituzione della cultura proletaria e contadina tradizionale con la sottocultura del "consumismo", avvenuta a seguito del boom economico degli anni '60.

Sotto questo profilo, dobbiamo mettere in evidenza due dati fondamentali. In primo luogo, Pasolini sembra dimenticarsi che l'uso (e l'abuso) di alcool fa parte integrante di "modelli tradizionali" della cultura italiana, al punto che l'osteria (oggi purtroppo in via di estinzione) è stata da sempre un tradizionale punto di incontro delle classi popolari. Una dimenticanza incomprensibile, se si considera che Pasolini viene da una regione, come il Friuli, che ha uno degli indici più elevati di alcoolismo nel nostro paese.

D'altra parte, l'affermazione di Pasolini nasce da un approccio rigidamente eurocentrico. Non si vede infatti come la dinamica culturale da lui descritta possa applicarsi a paesi extraeuropei, dove quelle che noi chiamiamo "droghe" (oppio, hascish, coca) fanno parte delle tradizioni popolari, e dove semmai è stato il passaggio dalle droghe tradizionali alla droga imposta/importata dall'occidente (l'alcool) a contribuire alla disintegrazione delle culture locali.

L'assurda e pericolosa illusione che l'alcool non sia una "droga", l'ignoranza di ciò che accade in culture non-occidentali, il dimenticarsi che la definizione di "devianza" cioè il confine tra "droga" e "non droga" nasce da una definizione burocratica di "illegalità" creata da un'agenzia sopranazionale egemonizzata dagli USA come l'Organizzazione Mondiale della Sanità, e che attraverso questa classificazione la cultura occidentale, apponendo il marchio dell'illegalità alle droghe non-occidentali, ha di fatto contribuito a diffondere al resto del mondo le "sue" droghe (alcool in primo luogo): ecco alcuni fondamentali elementi di mistificazione che sono alla base della condanna aprioristica e incondizionata dei "diversi" che si drogano, a quella "intolleranza" che Pasolini fa sostanzialmente sua pur rinnegandola.

I motivi di questo atteggiamento contraddittorio sono certamente complessi, e non è questa la sede per analizzarli. Una spiegazione certamente parziale potrebbe collegarsi con questa ipotesi: che la nostalgia di Pasolini per la scomparsa cultura tradizionale sia talmente, intensa, da indurlo ad affrontare l'argomento con un'ottica in qualche modo "interna" a quella cultura, accettandone cioè pregiudizi e stereotipi.

Un dibattito sull'Avanti!

Nell'estate-autunno del 1978 si è sviluppato sull'"Avanti!" un dibattito sulla droga: stimolato dalla recrudescenza della mortalità da eroina che si era verificata in quel periodo.

Il dibattito viene aperto da un articolo di Giaime Pintor ("Di chi è la colpa se in Italia si muore di eroina") in cui si sostiene:

1) che il problema dell'eroina è sopravvalutato rispetto ai problemi di droghe legali, come l'alcool, che ha provocato 1291 casi morte accertati nel solo 1971;

2) che la morte da eroina dipende in massima parte dalla illegalità e non dalla sostanza in sé;

3) che l'intervento proibizionista dello Stato è controproducente rispetto alla salvaguardia della salute dei cittadini:

"Anche ammesso che lo Stato abbia il diritto di intromettersi nella scelta dei "piaceri" dei cittadini, dove questi piaceri (e non si vede in che modo l'eroina, droga "deprimente", lo possa) non costituiscono un pericolo sociale, si presume che questa intromissione (che a me personalmente suona un'illecita interferenza nel privato) debba essere giustificata dalla difesa della salute del cittadino: lo Stato, allora, tutelerebbe assai più questa salute vendendo l'eroina a concentrazione controllata, e non lasciando che il mercato clandestino imperi e detti le sue leggi di morte".

4) che la legge 685 è inadeguata e controproducente. Conclude Pintor:

"La repressione, la stupidità, l'allarmismo, il bisogno di creare mostri e di esorcizzarli: queste sono le cause della morte d'eroina. Che fare, allora? Non sono né un medico, né un "politico": la risposta che mi sento di dare è "fare qualcosa di radicalmente diverso da quello che si fa adesso'. Né credo che vadano molto oltre l'esercitazione retorica i richiami a un ritorno alla fiducia nella lotta per cambiare questa società: vuote parole, pronunciate solennemente le quali, se uno non ha voglia di lottare per cambiare questa società, tornerà a "farsi" d'eroina, a ubriacarsi, magari a viaggiare in Oriente.

E personalmente questo scandalo e questo allarmismo mi preoccupano: perché ogni volta che si trasforma un problema reale in un dramma c'è qualcosa che non funziona, c'è qualcosa di conservatore, di irrazionale, di antiscientifico, se non proprio di reazionario.

In una società così profondamente disastrata e disastrosa, parlare di dramma della droga sembra veramente eccessivo. Non credo che questo debba renderci cinici al punto di non riconoscere che esiste un problema droga, ma certamente deve renderci cauti nei giudizi e nell'informazione, perché il "diavolo" droga non faccia da paravento a tutte le altre grandi questioni, talvolta drammatiche, e che toccano, come la droga, principalmente i più deboli. E non rischiare di renderci complici, nemmeno a mezzo agosto, di chi, avendo creato (e puntellando) una società mostruosa e quindi al bisogno di droga, legalizza di fatto il mercato clandestino per poi reprimerne le vittime e, se occorre, piangerci sopra, consolarsi vendendo poi le droghe "legali": questo non è cinico, fa semplicemente schifo".

Interviene successivamente Carlo Rivolta ("Di eroina si muore ma non solo di eroina", "Avanti!", 5 settembre). Premesso che non di eroina si muore, ma delle sostanze da taglio e della incontrollabilità dei dosaggi, Rivolta pone una serie di problemi "tecnici":

"Il ministero della Sanità ha mai pensato in questi anni ad accertare seriamente le cause della marte dei giovani "stroncati da una dose di eroina? Quanti sono morti per edema polmonare? Quanti per un collasso circolatorio e per altre cause ancora? Io non sono un medico, ma sono sicuro che una seria analisi di questi problemi condurrebbe alla possibilità di una più chiara conoscenza di questo fenomeno (...). E ancora (...) quanta eroina realmente è presente nelle dosi che si iniettano i giovani tossicodipendenti italiani? (...) Nessuna autorità italiana ha però pensato ad una scandagliatura e una campionatura dell'eroina che viene venduta al mercato clandestino. E fino a che non sapremo quale sostanza dobbiamo effettivamente combattere non sapremo come impostare il problema".

Rivolta propone poi, come Pintor, la somministrazione di eroina gratis ai tossicomani sotto controllo medico. E conclude:

Insomma le comode finzioni, le figure demoniache (appunto il "pusher" spietato e ricco) devono essere abbandonate. L'eroina non è un nemico in quanto tale: non è dotata di proprietà particolari che la rendano l'anima del male, E' come sempre l'uso di una sostanza a renderla letale. Ed è di questo che si deve discutere, subito. E magari, se è possibile, anche del perché esiste un "titolo" di infelicità cosi alto nelle piazze e nelle strade delle città da far sì che più di ventimila persone siano costrette, per vivere, a ricorrere a sostanze che possono uccidere".

Rivolta, Baget Bozzo e Statera

In contrapposizione con le proposte di Pintor e Rivolta escono successivamente articoli di Gianni Baget-Bozzo ("L'eroina e i falsi spazi di libertà", "Avanti!", 28 settembre), di Gianni Statera ("Come battere la "cultura della droga", "Avanti!", 28 settembre) e di Roberto Guiducci ("E' fatale cedere alla religione dell'oppio", "Avanti!", 1º ottobre).

I primi due mettono in discussione soltanto la proposta di liberalizzazione dell'eroina per dare un giudizio che sembra negativo. Dico "sembra" perché ambedue gli articoli partono da presupposti filosofici sul "diritto all'eroina" e non entrano in dettagli operativi. Afferma Baget-Bozzo:

"Quello che, in primo luogo, è risultato chiaro è che lo Stato non può affermare, dopo il diritto all'aborto, il diritta all'eroina. Perché di questi diritti a consumare la propria vita o ad impedire quella degli altri, si può dire che essi sona solo in modo falso e mistificatorio degli spazi di libertà, delle zone sacre alle decisioni dell'individuo. Si può dire che essi rappresentano l'esecuzione spontanea da parte dell'individuo dei meccanismi di morte che ogni società porta con sé".

In questa affermazione è abbastanza singolare il riferimento al "diritto di aborto": un accostamento che sembra implicare una definizione di "droga" in termini di "piacere intenso giustamente punito", che corrisponde all'immagine stereotipa più diffusa. Ma ciò che più colpisce è che, dopo aver svolto valide e rispettabili argomentazioni su un astratto "diritto a drogarsi", Baget-Bozzo non entra nel problema concreto: quello della tutela sanitaria dei tossicodipendenti che, "qui e ora", non vogliono/possono disintossicarsi e debbono "sbattersi" per rimediare la dose quotidiana ed evitare l'astinenza.

Su posizioni analoghe, Gianni Statera afferma:

"Che si possa reagire all'allarme per la droga pesante sostenendo che non fa male - o che non è provato che faccia male - e che, in ogni caso, se pure fa male, non si tratta di fenomeno socialmente pericoloso perché deprimente anziché eccitante, equivale ad effettuare una consapevole scelta di rimozione o di minimizzazione del fenomeno che è quantomeno incongruente con le premesse di denuncia sociale come un tutto che i minimizzatori enunciano.

Se pure l'effetto dell'eroina fosse anche solo "deprimente", ed anzi proprio per questo, uno Stato democratico fondato sulla consapevole partecipazione dei propri cittadini avrebbe l'obbligo di intervenire: e questa non solo e non tanto con l'occhio alla "tutela della salute", quanto soprattutto con riguardo alla salvaguardia o al potenziamento della propria legittimità democratica. In termini più generali, nessun sistema sociale può tollerare, per la sua stessa sopravvivenza, un'elevata "fuga" dagli imperativi e dalle aspettative di ruolo ascritte ai suoi componenti individuali, pena la sua degradazione a sistema di dominio".

Vale la pena di notare che questa argomentazione è basata sul presupposto che lo stato di tossicodipendenza sia necessariamente incompatibile con una attività produttiva, laddove è invece assodato che questo non sempre accade, o meglio è collegato alla possibilità di conciliare l'attività con i costi esorbitanti dell'eroina al mercato nero. D'altra parte, anche Statera sembra ignorare l'aspetto operativo-sanitario immediato, a meno che il riferimento alla "tutela della salute" (cui dovrebbe essere anteposto il "potenziamento della propria legittimità democratica") non postuli una posizione, per cui l'interesse immediato dei tossicodipendenti va sacrificato alle esigenze della prevenzione sociale. Una posizione che è peraltro contraddittoria con quanto Statera propone sul piano legislativo:

"(...) è possibile e doveroso migliorare (...) la legge n. 685 (...) introducendo attenuanti specifiche per il piccolo traffico compiuto da tossicomani in stato di dipendenza, prevedendo la possibilità di sospendere la pena per indirizzare questi rei a centri di riabilitazione, fornendo la possibilità al giudice di distinguere tra trafficanti di droghe leggere - non certo più dannose dei superalcoolici - e trafficanti di droghe pesanti".

Infatti, poiché la grande maggioranza degli spacciatori sono anche tossicomani, una norma di questo tipo significherebbe una depenalizzazione di fatto del piccolo spaccio, e quindi un ulteriore incoraggiamento del traffico illegale. Se si ammette che il tossicomane in stato di astinenza merita un trattamento preferenziale; non si vede perché questo debba concretarsi incoraggiando attività illegali anziché somministrandogli direttamente e legalmente la sostanza da cui è dipendente.

Alcool, tabacco e droga secondo Guiducci

Roberto Guiducci, a differenza di Baget-Bozzo e Statera, affronta il problema droga nella sua globalità (comprendendovi, almeno fino a un certo punto, anche le droghe legali come alcool e tabacco). Guiducci inizia polemizzando con Pintor:

"Siamo ben lontani da una scelta cosciente di" diritto al piacere "come la dipinge metafisicamente Giaime Pintor. E se fosse? Sarebbe in realtà l'esercizio di un diritto che si riduce ben presto ad un" gravissimo dispiacere. "E' il meccanismo di tutte le sostanze che creano dipendenza come l'alcool, il fumo e quasi tutte le droghe leggere o pesanti. Il ciclo è quello di un inizio talora piacevole, talora spiacevole; di un brevissimo periodo di piacere, di un enorme periodo (che può durare tutta la vita) di un piacere prima e di forte dispiacere successivo. Non c'è bisogno di aver provato l'eroina per saperlo. (...) E' questo il classico circolo vizioso di ogni droga in senso generale: ciò che ne fa, appunto, un vizio assurdo". Il primo paradosso "di ogni droga sta, infatti, nel" non dare "rapidamente più piacere, e nel dare molto presto danno e sofferenza. La dipendenza crea la" necessità; "la" non-libertà, "la" schiavitù "dell'uomo rispetto alla cosa da cui non può staccarsi anche quando desidererebbe stacc

arsene". Il secondo paradosso "sta nel fatto che l'unico piacere (se così si può chiamare) non consiste nel piacere di avere, anche se forzatamente", una cosa "cioè" nella presenza della cosa "ma nel sollievo di non provare il dolore per" l'assenza della cosa.

Guiducci ci propone qui una sua personale interpretazione sulla dinamica del rapporto fra droga e individuo. Una interpretazione basata peraltro su presupposti farmacologicamente inaccettabili. E' infatti fin troppo noto che non tutte le droghe danno assuefazione, e quindi "dolore per l'assenza"; è meno noto ma scientificamente assodato che anche le droghe più assuefacenti, come l'eroina, non provocano necessariamente dipendenza, se usate in un certo modo. Una interpretazione che sembra quindi caratterizzata da un approccio più emozionale e moralistico che razionale. La connotazione negativa, l'immagine "maledetta" delle droghe ("tutte" le droghe, "comunque" e da "chiunque" vengano usate) come quintessenza del male è più chiaramente denunciata dalla enunciazione del "primo paradosso": se i vantaggi soggettivi dell'uso di droga fossero realmente così labili e fugaci, e gli svantaggi così evidenti e massicci, sarebbe difficile capire perché la stragrande maggioranza della gente insista - in un modo o nell'altr

o, con sostanze legali o illegali - a drogarsi, né perché si sia drogata da millenni né si spiegherebbe perché la grande maggioranza degli eroinomani riesce più facilmente a smettere che a non ricominciare. Insomma, la connotazione negativa di questa interpretazione è talmente monolitica da risultare del tutto inattendibile.

Alla tendenza alla condanna incondizionata, al rifiuto di distinguere fra diverse sostanze e diverse modalità di uso, si aggiunge poi la conferma di un altro degli stereotipi più diffusi: l'idea che le droghe illegali siano in qualche modo diverse, "più droghe", di quelle legali:

"L'altro argomento inconsistente è che faccia meno male la droga del fumo di tabacco o del bere alcool. Il problema vero è quello della dipendenza e del grado di dipendenza e degli effetti individuali e sociali della dipendenza da qualsiasi droga. Il problema della dipendenza è grave nel fumo e nell'alcool, ma gravissimo nell'uso di droghe allucinogene nell'attuale situazione sociale del nostro paese. Infatti abbiamo già visto in altri articoli che l'uso continuo della droga comporta sistematici contatti con il mondo criminale e fascista degli spacciatori; spinge spesso allo spaccio il drogato stesso; costringe a vivere a livelli di spesa insostenibili (dalle circa 300.000 lire al mese per droghe leggere fino a 3.000.000 al mese per droghe pesanti): porta, di conseguenza, alla sottrazione continua di denaro ed oggetti ai familiari, ai ricatti verso gli amici, al furto verso terzi e talora al delitto".

A parte l'incredibile riferimento alla "dipendenza da allucinogeni" (ma forse Guiducci crede che l'eroina sia un allucinogeno), non è chiaro su quali parametri di uso e di prezzi siano basati i calcoli di spesa rispetto alle droghe leggere. 300.000 lire corrispondono a 100 g. di hashish di discreta qualità, con cui si fanno comunemente 500 spinelli; ora, non si può escludere in astratto che vi sia chi fuma 17 spinelli al giorno, ma è evidente che questo livello di uso è enormemente superiore a quello della stragrande maggioranza dei "fumatori" anche abitudinari del nostro Paese. Con la stessa logica, si può affermare che i consumatori di alcoolici spendono normalmente 300.000 lire al mese (una bottiglia di whisky al giorno).

Quanto ai contatti col "mondo criminale e fascista degli spacciatori" (anche qui è evidente la distorsione demonizzante della figura dello spacciatore, ben diversa da quella reale), l'argomentazione non dimostra, come si pretende, che la "droga" (illegale) è più pericolosa di alcool e tabacco (legali), ma che è la condizione di illegalità a provocare comportamenti antisociali. Ed è appunto questa una delle argomentazioni basilari di chi sostiene la legalizzazione delle droghe. Ma afferma, a questo proposito, Guiducci:

"Ma tornando alla contraddittoria e mistificante speranza di risolvere ogni problema con lo Stato che metta la droga in farmacia, è ben noto che sia il proibizionismo che la liberalizzazione sono due modi contrapposti per salvarsi ipocritamente la coscienza e per fuggire dalle responsabilità di ognuno e di tutti su terreno politico sociale e concreto. Poiché, oggi, c'è proibizionismo si crede di essere di sinistra chiedendo la liberalizzazione pura e semplice. Ma la liberalizzazione" dell'alcool "non è stata liberazione" dall'alcool. "La liberalizzazione del tabacco non è stata liberazione dal tabacco. (...) Perché la liberalizzazione" delle droghe "dovrebbe essere liberazione" dalle droghe?

Tanto per rimanere sul "terreno politico sociale concreto", l'ambigua formulazione sulla analogia fra proibizionismo e liberalizzazione non riesce a nascondere l'evidenza che essere contrari alla liberalizzazione equivale (non essendoci alternative) a sostenere il proibizionismo - un'ammissione che Guiducci ritiene evidentemente fastidiosa.

No alla liberalizzazione, dunque. Con quale motivazione? Guiducci dà per scontato che la liberalizzazione dovrebbe avere come obiettivo la liberazione "dalle" droghe, e dimostra facilmente che questo obiettivo non potrebbe essere raggiunto. Sta di fatto che i sostenitori della liberalizzazione non si sono mai proposti di "liberare dalla droga" l'intera umanità, ma semplicemente di liberare i tossicodipendenti dalla schiavitù e dai rischi del mercato illegale, lasciando all'individuo la scelta di gestire il suo rapporto con la droga nel modo più opportuno, senza ovviamente rinunciare (come Guiducci e altri sembrano credere) ad eventuali interventi riabilitativi, qualora vengano accettati dai tossicodipendenti stessi. Una proposta operativa immediata, con obiettivi precisi e limitati, che non presume di risolvere il problema della tossicomania, ma di evitarne alcune delle conseguenze più drammatiche.

Quanto alla "liberazione dalla droga" proposta da Guiducci (una liberazione evidentemente "totale", senza mezze misure), ci sembra che questa espressione perfezioni definitivamente quella immagine "demonizzante" del fenomeno droga che emerge dal complesso dell'articolo: liberazione dalla droga come liberazione dal demonio. L'analogia è rafforzata da espressioni come:

"(...) i grandi spacciatori che non si drogano perché sanno benissimo, come professionisti, la follia dell'uso del loro stesso prodotto".

Oppure:

"(...) il diritto al piacere degli allucinogeni si stravolge, nell'attuale realtà, in diritto al suicidio: un suicidio mostruoso davanti a un mondo mostruoso, un sacrificio umano offerto al sistema negato".

Per finire, Guiducci afferma:

"E poiché anche gli "elogiatori del papavero" consentono sul fatto che, hic stantibus rebus, il recupero dei drogati è necessario, per attuarlo occorrono modalità già espresse dall'ex-drogato-psichiatra di estrema sinistra David Cooper nel suo "Grammatica del vivere"".

La vera posizione di Cooper

E' singolare che Cooper venga citato per riportarne alcune formulazioni del tutto ovvie, trascurando l'importante contributo che questo autore ha dato ad un approccio razionale e demistificatorio del fenomeno dell'assuefazione. Laddove per esempio egli afferma che l'assuefazione non è un fenomeno limitato alle cosiddette droghe:

"Forme meno evidenti di assuefazione includono, in primo luogo, una ricerca coercitiva di rapporti in contraddizione con i nostri bisogni più ovvi; ma le difficoltà di capire quello che è ovvio sono, come è noto, immense. Uno dei compiti principali di una buona terapia è raggiungere chiarezza riguardo alla scelta coatta di "cattivi" rapporti. (Cooper, cit., p. 138)"

Cooper descrive poi una "assuefazione alla psicanalisi" e infine:

"(...) l'assuefazione al lavoro: il lavoro coercitivamente regolato sul cronometro e orientato sul guadagno. Per la classe operaia, il cronometro e il guadagno sono amare realtà a cui non nella società capitalistica si sfugge (...) Per le classi medie, entrano in gioco, comunque, il consumismo condizionato e una pura e semplice - anche se comprensibile - cupidigia. (cit., p. 140)".

In sostanza, ciò che emerge dalla posizione di Cooper è l'interpretazione della dipendenza da droghe - anziché come unico o principale elemento di disturbo nell'ambito di una normalità soddisfacente - come aspetto parziale di una più generale tendenza alla assuefazione che coinvolge buona parte dei comportamenti comunemente considerati "normali".

Anche sul significato del rapporto fra uomo e droga, Cooper si pone in netta contrapposizione con le semplicistiche teorie della "fuga dalla realtà" o della "ricerca del piacere":

"Molte assuefazioni sono in realtà dispositivi di sicurezza per restare al mondo o mantenere il minimo contatto necessario col mondo normale. Le sigarette, l'alcool e anche le droghe possono essere un cordone ombelicale tra il mondo normale e un io che lo trascenderebbe ma che teme la libertà della trascendenza. La cessazione coatta di una assuefazione fuori tempo, imposta o autoimposta, può essere disastrosa, al punto da indurre una depressione o persino il suicidio. (cit., p. 144)"

Ciò significa, sul piano pratico, che sarebbe necessario rispettare l'autodeterminazione dei tossicodipendenti, e intervenire con la disintossicazione solo su loro richiesta:

"Una disintossicazione imposta e forzata dall'esterno in una clinica o in un altro luogo di cura s'interrompe inevitabilmente non appena ci si sia liberati dal controllo esterno, persino di quello delle cliniche "progressiste" (cit., p. 142)".

Cooper raccomanda infine che l'assistenza ai tossicodipendenti sia eseguita da "brave persone (...) che non hanno bisogno di agire problemi personali contro chi si sta svezzando dall'eroina, dall'alcool, ecc.". Vale a dire che il trattamento non dovrebbe essere affidato a persone che proiettano sulla "droga" conflitti coi demoni interni, e che si accostano ai "drogati" con quell'atteggiamento moralistico e "demonizzante" che è ancora così diffuso nella nostra società, e purtroppo anche - come si è visto - fra i nostri intellettuali.

 
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