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Corleone Franco, Strik Lievers Lorenzo, Teodori Massimo - 30 gennaio 1980
Guerra, terrorismo, solidarietà nazionale
di Franco Corleone, Lorenzo Strik Lievers e Massimo Teodori

SOMMARIO: Dopo le elezioni politiche del giugno 1979 si sono delineati tre importanti elementi di novità nel quadro politico del nostro paese. Il ritorno nelle coscienze della paura della guerra, la riproposizione all'ordine del giorno della cosiddetta "solidarieta' nazionale", la presenza e l'azione del terrorismo che ha portato con il presunto stato di guerra al sovvertimento delle garanzie costituzionali. Tali novità hanno avuto per il Partito Radicale ripercussioni e conseguenze nel suo stesso modo di essere:si è dovuto costruire giorno dopo giorno un'opposizione dura, costante e isolata rispetto alle altre forze di sinistra. Temi come la fame, l'editoria, l'antiterrorismo hanno reso l'ostruzionismo indispensabile. Ogni azione esercitata in Parlamento e nel paese è volta all'incontro e allo scontro su principi e valori ed altro i radicali non potrebbero fare inuna situazione in cui ostinatamente la sinistra si rifiuta di proporre essa, e di accettare quando vengano proposti, contenuti innovativi di gove

rno.

(ARGOMENTI RADICALI, BIMESTRALE POLITICO PER L'ALTERNATIVA, Novembre 1979 - Gennaio 1980, N. 14)

I - Dopo il giugno 1979

La stagione seguita alle elezioni politiche del giugno 1979 è stata gravida di novità, tali da ridisegnare le stesse coordinate di riferimento dell'intero quadro politico nel nostro paese. Tre sembrano essere stati i maggiori elementi di tale novità, che continuano ad essere in primo piano in queste settimane, e che probabilmente condizioneranno la vicenda italiana ancora per molto tempo: il riproporsi della "politica internazionale" come variabile determinante anche per gli equilibri interni, la rimessa in circolo, con sempre maggiore unanimismo, della "solidarietà nazionale", e la questione del "terrorismo" e del "partito armato".

E' tornata nelle coscienze la paura della guerra

La dimensione della politica estera nel nostro paese ha sempre esercitato un gran peso anche nella politica interna, pur se l'opinione pubblica e una gran parte della classe dirigente non v'hanno prestato grande attenzione, quand'anche non ne sono state completamente ignare. In questo ultimo anno si è imposta in molti modi una rinnovata importanza del quadro internazionale, e basta qui evocare gli euromissili, il movimento islamico con la successiva crisi iraniana, l'invasione sovietica dell'Afghanistan, e la questione petrolifera con le ripercussioni mondiali. Tutte queste vicende hanno introdotto nella nostra vita quotidiana, ancor prima che nella coscienza della classe dirigente, la nozione che la "guerra" non è più una remota e lontana possibilità ma potrebbe diventare una probabile eventualità con la quale fare i conti nel corso della nostra prossima esistenza. E guerra, per la natura stessa delle tecnologie d'oggi, non sarebbe più soltanto tale ma catastrofe ed olocausto che coinvolgerebbe non solo reg

ioni remote del mondo. lontane dall'Europa, e quindi estranee alla nostra esperienza, ma anche la realtà europea ed italiana. Tale vicinanza la si è direttamente verificata con gli euromissili che saranno installati sul territorio nazionale in numero e quantità ancor più grande di quanto non lo siano di già oggi e con la drammatizzazione degli approvvigionamenti petroliferi "condizianate" sempre più l'intera economia nazionale.

Alcuni affermano che si è tornati alla guerra fredda con la fine del processo di distensione che dall'inizio degli anni '60, ad alterne vicende, aveva impresso il segno determinante alla scena internazionale. In realtà i termini internazionali della questione sono ben diversi giacché oggi l'eventualità del conflitto è di tipo nucleare, e cioè definitivo, il teatro del conflitto stesso è anche - e forse soprattutto - l'Europa (con un bell'eufemismo gli strateghi nucleari affermano che i missili sovietici ss 20 e quelli americani Pershing e Cruise sono "armi di teatro", cioè destinate a confrontarsi in Europa) mentre la radice della conflittualità internazionale risiede nella contraddizione tra Nord e sud, cioè tra paesi opulenti industrializzati ed i paesi che rappresentano i "dannati della terra". I popoli ex coloniali e i paesi cosiddetti in "via di sviluppo" sono tutti in movimento, sia quelli poverissimi colpiti endemicamente dallo sterminio della fame e delle denutrizioni, sia quelli ricchissimi produtto

ri di petrolio o di altre essenziali materie prime, e nel loro movimento intrecciato alle sorti dei paesi industrializzati travolgono quegli stessi equilibri che, fin da Yalta, poggiavano sul rapporto tra le due superpotenze.

Le possibili guerre, oggi, suscettibili di provocare la "guerra totale" si presentano in primo luogo, tendenzialmente, sotto forma di guerre alimentari e di guerre petrolifere. cioè come conflitti basati su motivazioni ben diverse da quelle puramente strategico-militari che ancora dieci o venti anni fa dominavano la realtà e la natura dei rapporti internazionali.

Tale rinnovata importanza della dimensione internazionale ha ripercussioni dirette ed immediate sulla politica interna: e non si tratta tanto di come la crisi afghana può favorire o impedire l'associazione dei comunisti a nuove (e vecchie) maggioranze ed a compagini governative, quanto della vicenda petrolifera la cui ultima, e certamente non marginale, conseguenza è stata resa visibile dall'"affaire" delle tangenti ENI e dai relativi probabili interventi dei servizi segreti medio orientali tesi a influire, e profondamente, sui rapporti politici interni.

Una solidarietà nazionale che ha come fine soltanto se stessa

La seconda novità degli ultimi mesi si manifesta con la riproposizione all'ordine del giorno della cosiddetta "solidarietà" o "unità nazionale". Non che non ci sia una coerente continuità negli ultimi anni nella politica perseguita dal PCI e in gran parte dalla DC che trovò la sanzione formale - formale in quanto tradotta in maggioranza parlamentare - negli schieramenti unanimistici del biennio 1976-1978; ma oggi ai movimenti profondi e capillarmente diffusi di sempre si aggiunge di nuovo la richiesta di un ingresso al governo del PCI sull'onda di nuove proclamate o fomentate "emergenze". Come nel passato - pensiamo alla stagione successiva alla avanzata delle sinistre del 1976 - e ancor più che nel passato, non è soltanto l'aspetto aritmetico delle combinazioni parlamentari a premere per l'unità nazionale ma è lo stesso orizzonte concettuale delle forze politiche che si sta assuefacendo alla inevitabile prospettiva che in questo paese non ci possa essere altro c e un sistema politico basato sull'unanimismo.

Nella DC non c'è ormai quasi più alcun significativo settore e leader di corrente e frazione che escluda una qualche combinazione con il PCI. Quanto al PSI la pressione generalizzata per una alleanza organica di tutti i maggiori partiti è passata attraverso la vicenda delle tangenti ENI, una vicenda che sicuramente - quale che sia l'interpretazione dei fatti che è possibile dedurre - ha come protagonista principe Giulio Andreotti e come obiettivo la distruzione del Partito Socialista. La partita che si era aperta con l'"affaire" Moro tra lo schieramento duro con al centro l'allora presidente del consiglio Andreotti appoggiato dai comunisti e il partito della trattativa animato da Craxi, si chiude ora con il colpo giocato dall'onnipresente ed onnipotente ex presidente del consiglio e candidato permanente a Palazzo Chigi ed al Viminale per togliere di mezzo l'unica forza che, all'interno dell'attuale regime, si è mossa e si sarebbe potuta muovere non in perfetta sincronia con il disegno integratore dell'unità

nazionale.

Il gioco messo in moto dalla diabolica iniziativa andreottiana e nel quale sono rimasti invischiati i socialisti per la miseria dei propri rapporti interni, ha avuto l'esito di liquidare qualsiasi rivendicazione di presidenza del consiglio socialista - per quel pochissimo che valeva! - di spezzare in due fazioni il PSI, di screditare nella pubblica opinione quel tanto di ricostruzione di immagine che la segreteria Craxi era riuscita a guadagnarsi e, quindi, di ridurre ad una semplice partita a due tra DC e PCI tutto il futuro dei rapporti interni al sistema dei partiti tradizionali.

La "solidarietà nazionale" resta ad oggi l'unica prospettiva esplorata ed esplorabile, pur se è assai probabile che il logoramento della ricerca di formule in cui sia possibile risolvere tutte le contraddizioni continuerà per molto tempo, in attesa prima del congresso democristiano, poi delle elezioni regionali (alle quali DC e PCI dovranno presentarsi con il volto l'una dello pseudo-governo e l'altro della pseudo-opposizione) e quindi magari di nuove elezioni politiche, elezioni impiegate come mezzo ordinario di gestione della crisi permanente. Ma quale che sia l'appuntamento dell'"unità" a cui spingono con impareggiabile sincronia democristiani impotenti e protervi. comunisti di null'altro preoccupati che della "gestione". terroristi fedeli alla filosofia del "tanto peggio tanto meglio", forze economiche ansiose di essere protette ed assistite dallo stato e stampa propagandista delle situazioni di emergenza, una cosa è certa, ed è il contenuto stesso della solidarietà nazionale. "Il progetto di unità nazio

nale ha come fine e come contenuto null'altro che se stesso".

Anche per chi, come noi, ritiene un cardine fondamentale della democrazia il perseguimento dell'alternanza e del confronto tra diverse posizioni, soluzioni e quindi schieramenti, non sarebbe inconcepibile in determinate situazioni il ricorso a "grandi coalizioni". Ma queste avrebbero un significato non di grande integrazione gestionale solo se fossero davvero limitate nel tempo, negli obiettivi e si fondassero su ben precisi contenuti, e prima ancora su valori da salvaguardare e da attuare. Nel caso attuale invece, c'è forse qualcuno che si senta di affermare che l'unità nazionale è "per fare una determinata politica", per realizzare un qualche obiettivo, e per portare a compimento un determinato progetto? O non si tratta, piuttosto, di una prospettiva che fonda le sue ragioni non già sulla difesa della democrazia politica ma proprio sul suo affossamento, come tutta la politica inefficace e anticostituzionale dell'ordine pubblico sta ampia mente dimostrando?

Hanno dichiarato la "guerra" e così legittimano il terrorismo

La terza questione caratterizzante questo momento è la presenza e l'azione del "terrorismo" e del partito armato. In parte come conseguenza ed in parte come premessa della emergenza proclamata a più voci e della situazione internazionale (il richiamo di Pertini alle centrali estere" del terrorismo è solo l'ubbia di un vecchio e non prudente Presidente o qualcosa di più?), il terrorismo praticato dalle varie correnti del partito armato è destinato a perdurare ed a giocare un ruolo di primo piano nella vita nazionale. E' destinato a perdurare, dal momento che anni di indagini e di moltiplicazione degli strumenti eccezionali non sono riusciti ad avere alcun effetto ed alcuna efficacia sino a quando non sono stati portati alla luce alcuni significativi frammenti di trame terroristiche solo grazie alla drammatica - e certo autentica - crisi interiore, morale e politica, dell'ex "brigatista" Carlo Fioroni, che ha fatto fare un salto di qualità alla scoperta del partito armato, le cui strutture e connessioni non er

ano state quasi per nulla individuate, per incapacità o forse per dolo da parte degli organismi a ciò preposti. E' destinato a giocare un ruolo di primo piano perché nel suo nome si preparano ad essere compiute le più miserevoli operazioni politiche, giustificate davanti alla pubblica opinione come strumenti necessari per condurre la "guerra" al terrorismo.

Il termine "guerra" è ormai entrato nel lessico familiare della cronaca politica e della cronaca "tout court", cosicché leggi "eccezionali", convergenze "eccezionali", misure "straordinarie", e sovvertimento delle garanzie costituzionali sono tutti passi che vengono giustificati dal presunto "stato di guerra" proclamato ad ogni piè sospinto da tutte le tribune. C'è allora da domandarsi se la proclamazione di questa situazione di guerra non sia proprio il risultato che da sempre il partito armato si prefigge, non solo per l'accelerazione della spirale repressione-terrorismo ma anche per essere riconosciuto nella guerra cosi dichiarata una "parte" legittimata dallo Stato e dalla pubblica opinione.

II - Dove stanno andando i radicali?

Di fronte a tali novità e conferme, è legittimo chiedersi dove stanno andando i radicali al di là delle iniziative di cui la cronaca dà o non dà conto giorno per giorno. E' una domanda che l'opinione pubblica si pone così come se la pongono settori non marginali della classe politica per comprendere qual è la linea portante di una forza considerata, a ragione, emergente. Tenteremo di rispondere qui, sia pure per sommi capi, evidenziando quelli che ci paiono i nostri maggiori problemi, il loro rapporto con gli elementi generali prima analizzati e senza tralasciare i dilemmi che oggi pur si pongono in presenza di una così intricata e difficile situazione.

Quello del giugno scorso - elezioni politiche ed europee - è stato per il Partito Radicale un salto qualitativo nella presenza istituzionale che ha avuto ripercussioni e conseguenze nel modo stesso di essere del partito. Gran parte del gruppo dirigente storicamente e politicamente "legittimato" è entrato in Parlamento ponendo il partito di fronte all'inevitabile crisi di un ricambio generale, stante la sostanziale oltre che formale incompatibilità ed autonomia fra momento partitico e momento istituzionale. Tutti i partiti vivono in determinati periodi la questione del ricambio generazionale, ma per i radicali questo momento è risultato particolarmente intenso proprio per la forma-partito dell'esperienza radicale. Al congresso di Genova è stata visivamente testimoniata in un assise che apertamente mostrava tutte le caratteristiche del PR, la difficoltà di vivere e far vivere una forma-partito originale in una situazione politica generale particolarmente difficile. E corre l'obbligo di richiamare l'attenzione

sul fatto che mentre tutti gli osservatori interessati a cogliere le contraddizioni radicali si sono lanciati a Genova sulla presunta fine dell'ascesa del PR. le esperienze politiche al tramonto o alla fine debbono essere cercare altrove: nel fallimento prima politico e poi elettorale dei gruppi di nuova sinistra che si richiamano alla lunga traiettoria della cosiddetta "sinistra rivoluzionaria"; nell'immiserimento del PDUP che rappresenta l'altro spezzone della stagione "antirevisionista"; nella stasi, anzi nell'arretramento delle speranze di cui sono stati caricati i sindacati; nella scomparsa di movimenti sociali con valenza politica quale, da ultimo, era potuto sembrare quello del 1977; nella crisi non solo del marxismo-leninismo ma dello stesso marxismo e di altre ricette ideologiche come fonte di organizzazione e azione politica; e infine nella sostanziale incapacità di rinnovarsi delle forme partitiche di tutta la sinistra tradizionale.

Così il congresso radicale di Genova poteva certo sembrare inadeguato a fornire la risposta più entusiasmante al cumulo di speranze e di aspettative che il milione e trecentomila elettori di giugno avevano caricato sulle fragili spalle di una forza minoritaria, ma di fronte a tante macerie rimane consolidato il risultato di un partito che continua a sperimentare una forma assolutamente atipica di esser partito e di volerlo essere completamente al di fuori dei condizionamenti istituzionali anche ora che i radicali rappresentano in Parlamento una forza di tutto rispetto.

Val la pena dunque di fare un bilancio, innanzitutto parlamentare, degli ultimi sei mesi per accorgersi che esso è tutt'altro che negativo.

Un positivo bilancio parlamentare

Abbiamo mantenuto, anzi abbiamo dovuto costruire giorno dopo giorno una opposizione dura, costante e isolata stante i comportamenti delle altre forze di sinistra: con i comunisti sopratutto attenti a non fare nulla che potesse entrare in conflitto con la DC, e con i socialisti pressoché assenti da qualsiasi significativa iniziativa. Le cronache quotidiane hanno - e solo in minima parte - segnalato la nostra massiccia presenza su tutti i temi all'ordine del giorno dell'agenda parlamentare, pur in mezzo a polemiche spesso aspre come risultato di una posizione certamente non indolore. Abbiamo subìto il bombardamento ostile di tutti coloro che si sono abituati a considerare il Parlamento come una istituzione piuttosto acconcia alla integrazione che non al confronto di posizioni diverse e contrapposte. E siamo stati etichettati fin dall'inizio come "ostruzionisti" perché ponevamo la difesa costituzionale opponendoci alla emorragia dei decreti legge come un cardine della nostra presenza. Si è sostenuto da più part

i che la "costituzione materiale" si configura ogni giorno come più lontana dalla costituzione scritta: eppure quando con difficoltà anche rispetto al nostro stesso ruolo abbiamo operato per porre degli argini alle fuoriuscite costituzionali, della nostra azione è stata colta l'ostinata opposizione, l'essere "contro" senza voler comprendere che quel "contro" era essenzialmente "a favore" e "a difesa" di qualcosa di ben più importante del singolo provvedimento. Ed anche in questo difficile contesto non sono state poche né marginali le occasioni in cui abbiamo svolto una opposizione, per così dire, costruttiva, come nel caso, solo per fare qualche esempio, della legge Merli sull'inquinamento e della legge sulla docenza universitari (vedi in questo "AR" il "diario parlamentare"), nonché nella promozione delle inchieste Moro e Sindona; e per la seconda, anzi, siamo stati con successo all'avanguardia dell'iniziativa propositiva.

Fame, editoria, antiterrorismo; I'ostruzione indispensabile

E' ben vero che da ultimo l'immagine che ci è stata messa addosso è stata quella di una forza esclusivamente "ostruzionistica". Ostruzionisti perché abbiamo con ostinazione voluto far pesare in Parlamento la vacuità delle risposte governative ed il disimpegno di tutte le forze politiche sulla fame nel mondo, dopo che in passato si erano manifestati interessi ed erano stati assunti impegni che sono stati puntualmente disattesi e traditi. E come si sarebbe potuto accettare che un tema di tanto momento - per noi il tema su cui si deve riorientare l'intera politica estera italiana - potesse essere liquidato alla Camera, nel giro di poche ore quasi si fosse trattato di un gioco in cui il governo e le altre forze politiche avessero dichiarato di essersi sbagliate e di aver fatto finta di aver preso sul serio le iniziative e proposte radicali! L'ostruzionismo, in questo caso emblematico del modo di comportarsi dell'esecutivo e delle diverse maggioranze che apertamente e occultamente lo sostengono, è innanzitutto qu

ello dell'assenza di politica e di iniziativa del governo stesso. Analogo il caso della legge per l'editoria per la quale il riflesso (anzi l'interesse) condizionato di tutta la stampa è scattato nel momento in cui abbiamo cominciato ad esercitare una dura opposizione di merito al fine di non avallare una organica operazione di legame tra informazione scritta e condizionamenti politici. La nostra opposizione definita "ostruzionistica" è derivata dalla consapevolezza che con la legge per l'editoria si gioca il destino stesso della libertà nel nostro paese. Ed ancora, con il decreto e la legge cosiddetta "antiterrorismo", come non ricorrere - questa volta sì! - all'ostruzionismo vero e proprio nel momento in cui sono letteralmente in gioco elementi fondamentali della Costituzione (vedi l'editoriale di Viviani) rispetto ai quali ormai assai debole è stata la reazione da parte degli ambienti democratici e di sinistra che pure altre volte si sono mostrati vigili e sensibili!

La formula aurea del non-governo

La ricorrente obiezione che ci viene mossa è di essere una forza del "no", tant'è che saremmo connotati, nelle istituzioni, da una presenza che muove un "attacco al Parlamento" e, nel paese, da un progetto referendario che contiene in sé, anch'esso, una valenza "distruttiva". L'obiezione non si basa su un'analisi della situazione che stiamo attraversando perché, se così fosse, dovrebbe prendere in considerazione l'assenza di una reale volontà e forza di governo e la contestuale trasformazione della costituzione materiale. A chi non governa se non per realizzare provvedimenti tampone e corporativi, a chi non ha la forza di imprimere una qualsiasi direttrice di marcia, i radicali contrappongono la resistenza a leggi e provvedimenti ritenuti iniqui e che rappresentano parodie del governo stesso. A chi vuole ogni giorno distorcere e trasformare i metodi e le istituzioni costituzionali, opponiamo con il blocco dei decreti legge la difesa di procedure che sono e devono restare il fondamento della democrazia politi

ca e delle regole del gioco. Con i referendum ribadiamo la volontà di portare all'ordine del giorno del paese temi che altrimenti sarebbero ignorati (nucleare, caccia, droga, aborto) o attraverso i quali, con l'abrogazione, si può esercitare una funzione legislativa in positivo (reati d'opinione, norme anticostituzionali penali e militari) perseguendo un metodo di formazione dell'unità dal basso in grado di rompere gli estenuanti negoziati tra partiti che stanno alla base dell'immobilismo di decenni.

La verità è che con ogni azione che esercitiamo in Parlamento e nel paese tentiamo l'incontro e lo scontro su princìpi e valori, l'unico terreno che consentirebbe la ricostruzione della stessa politica. Avevamo noi proposto in campagna elettorale un "patto costituzionale" a tutte le forze politiche, cioè un patto che partisse proprio dal rispetto sostanziale della Costituzione all'interno del quale ogni forza potesse esercitare il proprio ruolo di governo o di opposizione, di maggioranza o di minoranza. Ma non solo quella nostra proposta non ha avuto formalmente riscontro ma ogni giorno che passa ci si allontana da questa sostanza e si accentua il non-governo.

L'assenza di governo, cioè di linee direttive, di princìpi e di criteri, caratterizza non solo l'attuale gabinetto Cossiga senza maggioranza parlamentare ed in balìa della sopravvivenza quotidiana ma caratterizzerebbe anche qualsiasi soluzione di unità nazionale, dal momento che essa sorgerebbe esclusivamente sul terreno della gestione senza contenuti e obiettivi. Basta riferirsi ai due temi maggiori che abbiamo individuato come caratterizzanti questo momento - politica estera e terrorismo - per comprendere come anche una soluzione di unità nazionale così come l'attuale governo non sarebbe in grado di avanzare proposte originali, efficaci e innovative. Se fin da ora non esistono proposte di governo nelle diverse forze che vogliono andare all'unità nazionale, queste non nascerebbero certo domani quando lo "stare insieme" sarebbe al tempo stesso mezzo e fine della cosiddetta "solidarietà". Un appiattimento su un atlantismo tutto proteso al mantenimento degli equilibri tra i due blocchi caratterizzerebbe inequi

vocabilmente la politica estera e, sul terreno interno dell'ordine pubblico. assisteremmo alla copertura dell'incapacità della lotta al terrorismo con l'uso autoritario degli strumenti repressivi e della legislazione d'eccezione effettuato congiuntamente dagli uomini forti dello Stato e da quelli del PCI.

Il "governo ombra" resta il progetto dei radicali per una sinistra che governi

Cosa altro i radicali potrebbero fare in tale situazione in cui ostinatamente la sinistra si rifiuta di proporre essa, e di accettare quando vengano proposti, contenuti innovativi di governo? La nostra insistenza sulla "lotta alla fame nel mondo" comporta appunto un terreno nuovo e fondante di una diversa politica estera; e così l'opposizione agli euromissili, sui quali i comunisti non sono stati capaci di andare al di là della linea illusoria degli "equilibri a livello più basso" degli armamenti nucleari dei due blocchi ed i socialisti hanno passivamente accettato il ricatto atlantico senza neppure dar prova della fantasia dimostrata da paesi come l'Olanda e la Danimarca. Ancora più in generale la nostra resistenza contro una maniera di governare per decreti ha come sostanza una linea di difesa costituzionale che dovrebbe, essa sì, costituire la bandiera dei democratici e delle sinistre.

Oggi c'è una strada alternativa che deve essere centrale nella politica radicale e che dovrebbe anche costituire il punto di riferimento di una sinistra che comunque, quale che ne sia la formula, voglia candidarsi al governo. E' la strada di ciò che in campagna elettorale definimmo il "governo ombra", cioè in altri termini un progetto o una serie di progetti in grado di dare risposte ai grandi problemi che sono sul terreno. Con la formula non si va lontano, o meglio si può all'infinito continuare a pensare che pentapartito o unità nazionale sono maggioranze alternative quando invece finirebbero per equivalersi salvo che cambierebbero, e solo in parte, le mani nelle quali si troverebbe la gestione della vicenda nazionale. Come radicali avemmo nella primavera scorsa l'intuizione che questo era il problema centrale per le forze del cambiamento, una intuizione che non è stata ad oggi realizzata se non per alcuni, se pure importanti, elementi quale appunto quello della nuova dimensione della politica estera centr

ata sul rapporto fra Nord e Sud invece che su quello tra Est-Ovest e quello della difesa costituzionale. Per noi radicali il "governo ombra" resta ancora la sfida centrale che abbiamo innanzi, anche se non possiamo illuderci che tale progetto o meglio tale insieme di progetti possano essere realizzati con le sole nostre forze. Intorno alla ridefinizione di priorità, di vincoli e compatibilità combinati in progetti positivi di intervento dobbiamo coinvolgere le forze migliori della sinistra in tutte le sue componenti e le energie disponibili nella società civile perché senza di esse sarebbe velleitario metterci ad un'opera così difficile e complessa.

Andiamo incontro ad una stagione di isolamento, che del resto non rappresenta una novità nella ormai lunga vicenda politica radicale.

Isolamento politico, isolamento nel paese?

Si illudeva chi pensava, all'indomani del successo elettorale, che i radicali potessero essere "addomesticati" trasformandoli in forza della stessa qualità delle altre. Noi che pure abbiamo sempre cercato di mantenere aperti i canali di comunicazione con le altre forze della sinistra, ed in primo luogo con il PCI che ne è la forza maggiore e determinante, sappiamo bene che in politica l'unica comunicazione e l'unico dialogo possibile sono quelli fondati sul confronto di posizioni o sulla ricerca di nuove posizioni comuni e non già su negoziati di qualsiasi tipo.

La divaricazione che sembra riproporsi tra radicali e sinistra tradizionale, in Parlamento o forse anche nel paese, con gli apparati dirigenti, in occasione dei prossimi referendum, deriva dalla latitanza generale di prospettive e progetti, cioè di volontà di governo, da parte di PCI e PSI. Noi radicali quindi ci troviamo ad essere caricati di compiti ben maggiori di quelli assolti in passato, quando abbiamo dimostrato la capacità di essere forza trainante di governo su singoli temi. L'accresciuta forza ci addossa ora altre, maggiori esigenze. L'isolamento che di conseguenza dobbiamo scontare ci è imposto dalla situazione generale: occorrerà fare in modo che esso non diventi emarginazione ma solo la condizione oggi inevitabile di costruire intorno a noi nella sordità altrui progetti alternativi di governo basati su valori a cui non si deve rinunciare. Ci muoviamo fra le macerie della "sinistra rivoluzionaria" e tra le sempre più gravi rinunce della sinistra tradizionale. L'opposizione in Parlamento in nome d

i valori alternativi, l'ostruzionismo quando necessario per difendere la Costituzione, il progetto referendario nel paese come strumento di aggregazione e come iniziativa legislativa non necessariamente di segno negativo, le eventuali proposte di legge che sono l'altra faccia dei singoli referendum (e ne abbiamo già una serie, da quello sulla riforma della Pubblica Sicurezza a quello sulle droghe), la grande iniziativa istituzionale e non-violenta contro lo sterminio per fame sono tutti elementi di quella rifondazione politica basata sui valori che sono alla base della nostra iniziativa politica e che proponiamo quale nostro contributo alla sinistra ed ai democratici.

All'origine della nostra storia, c'era e rimane la concezione federativa dell'organizzazione delle forze politiche ed anche del modo in cui organizzare la lotta per il rinnovamento riformatore dello Stato e della società. Pur nell'isolamento voluto dagli altri, dobbiamo oggi porci nella prospettiva tesa a federare forze ed energie ben più ampie e anche diverse da quelle che già gravitano intorno al Partito Radicale e che vanno mantenute nella loro autonomia. Il progetto che può valorizzare tali forze ed energie è quello della ricostruzione di iniziative di governo di fronte a tante dimissioni di sinistre vecchie e nuove e a tanta proterva volontà di semplice gestione che trova la sua esaltazione proprio nella solidarietà nazionale.

 
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