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Panebianco Angelo - 30 gennaio 1980
LA POLITICA ESTERA ITALIANA E L'ALTERNATIVA RADICALE
di Angelo Panebianco

SOMMARIO: Vengono ricordati i due punti fermi dei trenta anni di politica estera del regime democristiano: l'allineamento sempre e comunque con gli USA; la retorica europeista per cui l'Italia era a parole uno dei "paesi di punta" dello sviluppo comunitario.

Le cause di questa politica estera vanno ricercate nel tipo di sistema politico e nelle caratteristiche dei principali partiti italiani.

La fine dell'ordine di Yalta impone però un cambiamento

nel sistema di politica estera: quello che i radicali propongono è una "aggressiva" politica di pace che parta da una scelta di disarmo unilaterale. Si accomulerebbe così un tale prestigio e una tale forza morale da poter svolgerr un ruolo da co-protagonista nelle vicende internazionali.

(ARGOMENTI RADICALI, BIMESTRALE POLITICO PER L'ALTERNATIVA, Novembre 1979 - Gennaio 1980, N. 14)

Nelle sue memorie Henry Kissinger, ricordando i colloqui con l'allora ministro degli Esteri italiano, osserva a un certo punto che "(...) quando si discuteva [con lui] sugli affari internazionali, si aveva spesso l'impressione di annoiarlo" (1).

Questa battuta sintetizza da sola, meglio di qualunque analisi approfondita, le caratteristiche - di contenuto e di stile - che per più di trenta anni ha avuto la politica estera del regime democristiano. Questa politica estera si fondava su alcuni (pochi ma granitici) punti fermi:

- l'allineamento sempre e comunque, su tutte le questioni, con gli USA (la "scelta di civiltà"), non una alleanza ma una vera e completa subordinazione: nessun paese europeo alleato degli Stati Uniti (neppure l'Inghilterra dell'epoca delle "relazioni speciali" con cui polemizzava De Gaulle o i paesi del Benelux) ha mai accettato, dal dopoguerra in poi, un asservimento ai voleri statunitensi così continuativo e senza riserve come l'Italia.

- la retorica europeista per cui l'Italia era a parole uno dei "paesi di punta" dello sviluppo comunitario.

La politica estera italiana si fondava quindi su due dogmi - che, come ogni dogma che si rispetti, non avevano bisogno di alcuna dimostrazione: esiste "totale" coincidenza fra gli interessi italiani e gli interessi statunitensi, esiste "totale" coincidenza fra gli interessi europei e gli interessi statunitensi. La politica estera italiana era così, nei fatti, estremamente semplice: "fare" politica estera, per il politico medio, significava guardare cosa facevano e dicevano gli Stati Uniti e mettersi rapidamente al rimorchio.

Al di sotto di questa comoda e confortevole coperta c'era tutto il resto: l'inefficienza burocratica, per cui la Farnesina, che pure non manca fra le sue file di funzionari capaci e preparati, è ancora un ministero degli esteri ottocentesco - salvo che il sistema internazionale della seconda metà del XX secolo non ha più nulla a che fare con il sistema internazionale del XIX. Con la conseguenza che, cerimonie a parte, il principale compito dei diplomatici italiani è la ratifica "ex post" (contratti commerciali, di cooperazione ecc.) delle attività delle multinazionali italiane e degli imprenditori in genere. C'era la totale impreparazione e incompetenza di molti ministri e sottosegretari sui problemi comunitari (a Bruxelles, a quanto si dice, ridono ancora); e l'incapacità di gestire in modo "costruttivo" i rapporti con i paesi ex coloniali. Ad esempio, la vendita d'armi ai paesi sottosviluppati, nel caso di altri paesi occidentali, ha diverse finalità, compresa l'influenza politica; in Italia è stato per lo

più un problema di "bustarelle". E quando alla motivazione economica si aggiunge quella politica è solo perché quella "particolare" vendita risulta gradita agli Stati Uniti. E, naturalmente, le "mediazioni" democristiane, i tentativi di mettere il naso inopinatamente nelle questioni più lontane, sempre accolti con un educato "no, grazie" dai paesi interessati. E poi decine di episodi, alcuni gravi, altri tragicomici: dalla "liquidazione" di Ippolito (scandalo CNEN del 1963) per conto di interessi stranieri, al caso Lockheed, fulgido esempio di come vengono gestiti i problemi attinenti alla famosa "sicurezza nazionale"; dagli "aiuti al sottosviluppo" dispersi in realtà in rivoli corporativi per le imprese italiane all'estero quando non addirittura investiti nei viaggi dei politici italiani e dei loro familiari, parenti e clienti, alla recente vicenda ENI, dimostrazione ennesima (quale che sia la versione veritiera) di una gestione di delicati affari con risvolti internazionali con lo stesso metro utilizzato

da questa classe dirigente per la gestione degli affari esclusivamente interni. E si può ricordare anche l'episodio gustoso dell'allora on. (DC) Mario Pedini, per lungo tempo sottosegretario agli Esteri, il quale dopo tanti discorsi sulla necessità di portare agli africani sviluppo, pace e benessere (e "civiltà cattolica"), divenuto in seguito ministro per la ricerca scientifica (1975), si trasforma improvvisamente in un convinto assertore della vendita d'armi ai paesi sottosviluppati (collegio elettorale: Brescia); per arrivare infine al recentissimo caso del ministro degli esteri Ruffini che pianta in asso, a metà dei lavori, il parlamento di Strasburgo, di cui è il presidente di turno, per tornarsene ai più politicamente redditizi "affari romani". E si potrebbe continuare. Una politica estera italiana - nel significato che di solito si dà alla espressione "politica estera" - è forse esistita, sia pure in un ambito limitato, soltanto in un breve periodo della storia italiana post-bellica: all'epoca del tan

dem Fanfani-Mattei, quando Fanfani agli Esteri e Mattei alla presidenza dell'ENI, e con la copertura ideologica di certi umori antiisraeliani di marca cattolica, svilupparono una "politica" nei confronti dei paesi arabi, "dribblando" per un certo periodo (i contratti "fifty-fifty" per il petrolio) le famose "sette sorelle" e provocando inquietudini nel protettore americano.

La nuova sinistra sessantottesca, nei suoi furori leninisti, oltre a tante altre cose, si inventò a un certo punto l'esistenza di un "imperialismo" italiano. Naturalmente non era vero. La politica estera italiana, per ragioni attinenti, come vedremo, agli equilibri politici interni e alle caratteristiche delle forze politiche tanto di governo che di opposizione, non poteva svilupparsi nei modi dinamici, continuativi e aggressivi che l'imperialismo o anche un sub-imperialismo richiedono. E semmai, in prospettiva, quello fanfaniano fu l'unico tentativo, poi abortito, di sviluppare una moderna politica sub-imperialistica oppure, se il termine appare troppo forte e sproporzionato ai fatti, semplicemente dinamica.

Partiti e politica estera

Se questa era ed è rimasta la politica estera della DC (e satelliti) e quindi dello Stato italiano, le cause vanno ricercate nel tipo d i sistema politico e nelle caratteristiche dei principali partiti italiani (2). Giocava e gioca un ruolo di primo piano, anche qui, l'assenza di alternanza, il carattere bloccato del sistema per cui il partito dominante non era e non è tenuto a rendere conto ai cittadini di come gestisce gli affari internazionali. E poi il "corporativismo cattolico" (3) che aveva la sua parte nell'orientare i politici democristiani verso una gestione degli affari esteri, sotto l'ombrello americano, altrettanto corporativa-clientelare della gestione degli affari interni. Soprattutto, la principale causa era il carattere del partito di opposizione per antonomasia, il PCI: stalinista per tutti gli anni cinquanta e rigidamente allineato con l'URSS fino a Praga, il PCI fu l'alibi e la carta vincente nelle mani della DC: le sue posizioni internazionali degli anni quaranta, cinquanta e sessanta, sp

iegano altrettanto bene "sia" l'identificazione che la classe politica di governo fece fra i propri interessi e gli interessi statunitensi (e quindi spiega la subordinazione incondizionata agli Stati Uniti) "sia" la conseguente impossibilità/incapacità di imprimere uno sviluppo dinamico in senso sub-imperialista alla propria politica estera. Infatti, e con buona pace della vecchia "nuova sinistra", un imperialismo, anche dipendente, richiede, pur nella fedeltà alle alleanze, un margine di autonomia internazionale, richiede scelte autonome e non un allineamento puro e semplice con la politica del protettore. Ma, nel caso dell'Italia, scelte autonome "non" erano possibili. La "frattura internazionale" (il confronto bipolare) fra USA e URSS del dopoguerra si era infatti in questo caso sovrapposta (a differenza di altri paesi occidentali) su una "frattura interna", rafforzandola e contribuendo a congelarla (e "bloccando"così il sistema politico). Con la decisiva conseguenza che il seguito comunista da una parte

e quello anticomunista dall'altra avevano, in un certo senso, "interiorizzato", il controllo, veicolato dal PCI e dalla DC, rispettivamente dell'URSS e degli USA. In altre parole, poiché la frattura internazionale e la frattura interna coincidevano, le due superpotenze si trovarono a possedere, nei confronti del grosso dell'elettorato italiano, un "potere legittimo": "Addavenì" da una parte e "l'America non permetterà ai rossi di metterci sotto" dall'altra sintetizzano abbastanza bene come si rifletteva, negli umori popolari, questa situazione. E naturalmente, la sovrapposizione fra frattura internazionale e frattura interna tolse immediatamente spazio elettorale alle posizioni "terzaforziste" all'interno e "neutraliste" in campo internazionale: i tentativi socialisti in quella direzione si risolsero in un fallimento e altrettanto frustrate furono le aspirazioni neutraliste dell'ala dossettiana e gronchiana della DC (tentativo, poi rientrato, di opposizione alla ratifica del Patto Atlantico).

Una politica estera dinamica - che presupponeva una "razionalizzazione", che non ci fu, delle istituzioni preposte alla gestione degli affari internazionali - avrebbe comportato dibattiti interni ritenuti, dalla classe politica di governo, pericolosi e destabilizzanti per gli equilibri politici.

La "distanza psicologica" del cittadino dalla politica internazionale, di per sé piuttosto alta in qualsiasi sistema politico, veniva notevolmente aumentata da questo sistema di politica estera (retorica + gestione corporativo-clientelare).

Non servivano analisi della situazione o proposte di corsi di azione alternativi sui diversi problemi internazionali, come accade invece in altri paesi occidentali. Di conseguenza, non poteva formarsi neppure un sia pur limitato "pubblico" in grado di valutare e di dibattere i problemi di politica estera. Non esisteva e non esiste cioè - anche se forse, per ragioni che vedremo, comincia lentamente a formarsi - una "opinione pubblica" sulla politica estera capace di "controllare", come la democrazia richiede, le scelte e gli atti dei governanti (4): gli episodi edificanti che ho elencato all'inizio ne sono la diretta conseguenza. In questa situazione i governi democristiani, così come, sull'altro versante, il PCI, non dovevano giustificare le proprie scelte di fronte a un pubblico informato e attento: era sufficiente propinare slogans e retorica "ad uso delle masse".

Né, negli anni settanta, con i mutamenti nella impostazione ideologica del PCI e la fine del "suo" allineamento "rigido" con l'URSS ci furono cambiamenti nel sistema di politica estera democristiano e per due ragioni: in primo luogo perché la DC aveva interesse a mantenere il suo allineamento rigido con gli USA che si era rivelato così redditizio in passato nella difesa degli equilibri di potere interni; in secondo luogo perché il "new look" del PCI non era tale da permettergli una dura lotta contro i metodi e gli indirizzi di politica estera dell'Italia. Il "deficit" di legittimazione del PCI, traducendosi nella politica del compromesso storico e delle "grandi intese" all'interno, gli imponeva l'adozione di una politica estera di "accomodamento" (5). Si trattava di una politica, come è noto, che doveva consentire tutto e il contrario di tutto, che doveva permettere di tenere insieme - in una "superiore sintesi" degli opposti - le cose più eterogenee. Per cui se il PCI doveva essere "all'interno" "partito di

lotta e partito di governo", volere insieme la rivoluzione e l'alleanza con il partito conservatore, questo richiedeva sul piano "esterno" sia il mantenimento dei legami con l'URSS (per non "disturbare" i molti militanti e simpatizzanti tuttora filosovietici senza riserve) sia l'accettazione della NATO (cioè di una alleanza militare in funzione anti-URSS). La premessa di questa impostazione era un "wishful thinking", la speranza nella "irreversibilità" della distensione. Solo la continuazione e l'approfondimento della distensione fra le superpotenze poteva infatti consentire al PCI l'alleanza con la DC, la conservazione della solidarietà con l'URSS, e, se non l'amicizia, almeno garanzie di non-interferenza da parte degli Stati Uniti. Il tutto senza pagare il prezzo - destabilizzante per gli equilibri interni di partito - di cambiamenti troppo bruschi e accelerati. E in questo modo la DC poteva continuare, anche negli affari internazionali, la sua gestione di sempre.

Sono cose note ma vale la pena di ricordarle per inquadrare i problemi sul tappeto ora e per tentare di capire - è l'obiettivo di questo articolo - quale impatto potrebbe avere la proposta politica radicale sulla gestione delle relazioni internazionali del nostro sistema politico.

La fine dell'ordine di Yalta

Il sistema di politica estera qui rapidamente descritto si infrange contro una serie di cambiamenti di grande portata sia "interni" che, soprattutto, "internazionali". Sul piano interno, l'aumento dell'area del voto di opinione, insieme (e certamente, almeno in parte, collegato) alla perdita secca di credibilità dei miti internazionali spiazza le forze politiche, rende sempre più improduttiva la gestione del passato, o meglio rende più difficile occultare sotto coltri di retorica le scelte concrete. Sul piano internazionale "quel" sistema di politica estera, per anni come si è visto redditizio per la DC a fini di predominio interno, si infrange contro la fine dell'ordine internazionale nato a Yalta.

"L'ordine di Yalta" (inteso in senso lato) si fondava, come é noto, su tre principali pilastri: 1) la indiscussa "leadership" internazionale degli Stati Uniti; 2) il carattere di potenza "regionale" dell'URSS; 3) la subordinazione del Terzo Mondo all'occidente. Il sistema era bipolare, un condominio a due (USA e URSS), ma si trattava di un bipolarismo zoppo o squilibrato: la prima potenza del sistema, con una capacità di intervento globale e con un controllo, diretto o indiretto, su tre quarti del globo erano gli Stati Uniti. La stabilità del sistema (il suo "ordine") poggiava dunque "sia" sulla reciproca dissuasione atomica fra le due superpotenze (6) "sia" sul predominio, militare, economico e politico degli USA non solo sull'Europa occidentale ma sull'intera struttura internazionale (talché tutte le principali istituzioni, FMI, Agenzie ONU ecc. erano modellate su e contribuivano a riprodurre questo predominio).

E' sotto gli occhi di tutti adesso che i tre pilastri di quell'ordine sono saltati. Naturalmente il processo di disgregazione non è cominciato l'altro ieri ma viene da lontano: oggi assistiamo soltanto alla sua decantazione.

Mentre l'URSS acquista definitivamente una capacità di intervento "globale" (dal ponte aereo in Angola all'intervento diretto in Afghanistan) l'"egemonia" degli Stati Uniti si sfalda, il dollaro é detronizzato, alcuni degli alleati europei accentuano la propria indipendenza, la Cina è una potenza autonoma, le dighe (come l'Iran) crollano, nelle diverse sedi internazionali i paesi del terzo mondo formano cartelli di opposizione agli Stati Uniti. Si riduce drasticamente l'area dei sudditi: gli USA possono contare ormai, e con tutte le contropartite del caso, su alleati in quanto tali mai definitivamente acquisiti e potenzialmente pronti a rinegoziare in ogni momento le condizioni dell'alleanza. Questo processo, oltre che alla crescita di potenza sovietica é strettamente associato alle dislocazioni in corso nel c. d. Terzo Mondo, il quale inizia un cammino internamente differenziato, di svincolamento dalla subordinazione dando luogo a nuovi assetti e a nuove diseguaglianze internazionali (7). La rivoluzione kom

einista, per fermarci solo al caso più macroscopico, e quali che siano gli esiti delle convulsioni post-rivoluzionarie, è l'evento che meglio documenta il risveglio in corso nel Terzo Mondo e la drastica perdita di controllo che su di esso aveva l'occidente: per la prima volta una rivoluzione viene fatta non in nome di disegni politici e secondo canoni culturali europei (liberali, socialisti o comunisti non importa) ma secondo canoni culturali indigeni. Il fenomeno, come altri hanno già osservato, è di portata storica. Non solo e non tanto per l'effetto di contagio che può produrre in altri paesi islamici ma per una ragione più profonda: perché, d'ora in avanti, le élites rivoluzionarie di molti paesi del Terzo Mondo non saranno presumibilmente più costrette a fare ricorso a "modelli d'esportazione" inventati in Europa ma potranno servirsi di modelli culturali autoctoni. E non c'è niente di più antagonista, di meno facilmente recuperabile al controllo, di una cultura estranea rivitalizzata.

Non è difficile immaginare che processi di questo genere spiazzeranno, nel lungo periodo, quali che siano a breve termine i vantaggi o gli svantaggi dell'uno o dell'altro, tanto l'occidente quanto l'oriente sovietico.

Si apre così un convulso periodo di transizione, con una struttura di potere internazionale in mutamento e - come in tutte le fasi di transizione - le relazioni internazionali diventano caotiche e si avvicinano pericolosamente al surriscaldamento bellico. L'atmosfera non ha nulla da invidiare - salvo che la situazione è di gran lunga più complessa ed esiste, a salvaguardia di una precaria stabilità, il deterrente nucleare - ai periodi che precedono i due conflitti mondiali di questo secolo.

Al di sotto degli episodi che marcano la nuova congiuntura sta un sistema internazionale reso ingovernabile dalla sua accresciuta interdipendenza. La interdipendenza internazionale mette, almeno per alcuni aspetti, "in mora" il sistema degli Stati. Interdipendenza e complessità internazionale riducono drasticamente la "capacità di controllo" sulle situazioni tanto "interne" quanto "esterne" dello Stato-nazione. Sul piano interno, perché l'interdipendenza sociale ed economica riduce la libertà di manovra dei governi. Sul piano internazionale perché non funzionano più né i tradizionali meccanismi della politica dei blocchi del sistema bipolare né, d'altra parte, sono ripristinabili, nonostante le illusioni di alcuni, i meccanismi della "bilancia dei poteri" (l'equilibrio multipolare del XVIII e del XIX secolo) che presupponeva l'esistenza di "pochi" attori rilevanti. Al tempo stesso lo Stato nazionale "resta" il principale attore del gioco mondiale, sia pure con le crescenti interferenze degli attori non stata

li, senza che siano prevedibili, sotto questo profilo, mutamenti di rilievo nel prossimo futuro. E poiché gli Stati continuano a giocare il vecchio gioco mentre stanno mutando "le regole", il risultato è una "potenza" (intesa come capacità di influenzare l'altrui comportamento) per così dire "impotente" cioè cieca; l'effetto del "gioco di potenza", per la complessità del sistema e l'interdipendenza fra gli attori, diventa largamente imprevedibile: qualunque azione pensata per incidere in una parte del sistema può dare luogo a conseguenze del tutto impreviste e non volute in altre parti oppure ritorcersi contro chi l'ha messa in atto.

E' anche a causa di questo insieme di fenomeni che entra oggi definitivamente in crisi - detto per inciso - l'idea, coltivata per lungo tempo dalle sinistre europee vecchie e nuove, nonostante una fede internazionalista di maniera, secondo cui sarebbe possibile, a conti fatti, costruirsi un bel socialismo casereccio, sostanzialmente in autarchia.

Come si riflettono questi mutamenti sull'Italia? Si riflettono mandando in pezzi i pilastri del suo sistema di politica estera (8). La classe dirigente italiana è disorientata, in questa situazione, cerca disperatamente di versare il vino vecchio, quello delle certezze passate, nella nuova botte ma con risultati disastrosi. La DC si trova, per la prima volta nella sua storia, di fronte a un dilemma, impensabile solo poco tempo addietro, e che si riflette, almeno potenzialmente, in lacerazioni interne. La coincidenza fra interessi democristiani e interessi americani non può essere data per scontata: l'esistenza o meno di questa coincidenza diventa, d'ora in avanti, oggetto di dibattito interno. Con una Europa divisa (Inghilterra contro Germania e Francia) e divisa dagli Stati Uniti, la DC va presumibilmente incontro a conflitti fra un'ala che riproporrà la politica di allineamento rigido agli USA (ma senza più l'efficacia di un tempo per i mutamenti nella situazione interna e internazionale) e un'ala che cerc

herà di assumere una posizione di maggiore equidistanza fra USA e Germania. In ogni caso, il vecchio sistema è alle corde e un protettore internazionale a fini interni altrettanto collaudato e sicuro di quello utilizzato per trenta anni non è facilmente reperibile sul mercato: l'uso della politica estera per fini di politica interna nei termini del passato e con gli stessi "utili" politici è, quasi certamente, finito.

Ma neppure il PCI appare capace di risposte credibili. Vediamo perché. Prendiamo, a titolo di esempio, le due vicende dei missili NATO e dell'Afghanistan. Per quanto riguarda il primo caso si sono visti i risultati del dibattito parlamentare. Da una parte la DC e satelliti che tentavano di ricostruire gli schieramenti dei "felici" anni cinquanta: o con gli USA o contro, o con la "civiltà" o contro di essa. Ma senza riuscire convincenti anche perché i dirigenti (non comunisti) di altri paesi-NATO, dall'Olanda alla Danimarca alla Norvegia, rifiutavano di recitare lo stesso copione. Dall'altra parte c'era il PCI che cercava di salvare i cocci del suo antico disegno. Nella fattispecie, come si ricorderà, mentre la DC sposava la tesi statunitense sulla necessità di riequilibrio dei rapporti di forza militari perturbati dalla installazione dei missili sovietici SS 20, il PCI proponeva la trattativa con l'URSS per ristabilire l'equilibrio "al livello più basso", "prima" della autorizzazione alla installazione dei m

issili americani (in cambio di una sospensione di parte sovietica nella costruzione di nuovi SS 20).

Non c'è dubbio che, se si accettano i termini della questione così come le forze politiche (compreso il PCI) la ponevano, la posizione più ragionevole era quella della DC (condivisa, nella sostanza, dal PSI), non quella del PCI. Se si accetta infatti l'idea che esista un problema di equilibrio militare in Europa e si constata che l'altra parte ha modificato questo equilibrio a proprio vantaggio, l'unica cosa da fare è "prima" ristabilire l'equilibrio perturbato e "soltanto dopo" andare alle trattative. Nella ipotesi dell'equilibrio, infatti, ci si deve sedere al tavolo delle trattative, come in ogni trattativa che si rispetti, da una posizione di forza, o almeno di parità, non di debolezza: altrimenti la trattativa si risolve in una capitolazione. E poiché anche il PCI accettava l'idea dell'esistenza di un problema di equilibrio militare, dalla sua stessa impostazione risultava che la sua posizione sui missili era radicalmente inadeguata.

Ma proviamo a porre diversamente la questione e a domandarci se esiste veramente un problema di equilibrio militare. La risposta è "no" perché entrambi i blocchi hanno armi sufficienti a distruggersi parecchie volte. Ed è inoltre chiaro che - con o senza armi di teatro - qualunque aggressione, condotta con armi convenzionali, nucleari tattiche o altro, dall'una o dall'altra parte, in un sottosistema internazionale così "centrale" come l'Europa equivarrebbe a una dichiarazione di guerra all'altra superpotenza. L'Europa non è una "zona grigia", non è né il Vietnam, né l'Afghanistan, né l'Angola. E' invece, sotto il profilo strategico e politico, un continente spartito fra due potenze imperiali: neppure le convulsioni dei periodi elettorali negli USA o le lotte per la successione al vertice del Cremlino potrebbero fare dimenticare, ad americani e russi, la differenza. Il problema è allora non militare ma politico, legato alla capacità della potenza più forte militarmente di creare nei paesi dell'altro blocco un

clima psicologico di intimidazione favorevole a un aumento della sua influenza politica. Se si accetta la tesi (sbagliata) dell'esistenza di un problema di equilibrio militare in Europa non si sfugge alla conclusione che un vantaggio sul piano militare - mentre non aumenta di per sé la minaccia (che è già enorme con gli arsenali esistenti) alla "sicurezza nazionale" dei paesi dell'altro blocco, può essere facilmente convertito in un vantaggio politico. Se si accetta la tesi della necessità di un equilibrio militare la conclusione inevitabile è che l'URSS ha rotto a proprio vantaggio l'equilibrio e che, per annullare i vantaggi politici che essa ne può ricavare, occorre ristabilire l'equilibrio (o magari riportarlo a proprio vantaggio). Se si accettano infatti le premesse è giocoforza accettare anche le conclusioni che ne discendono. Se quelle conclusioni non ci piacciono allora dobbiamo modificare le premesse (il che significa, come vedremo, cambiare radicalmente politica).

Prendiamo poi il caso dell'Afghanistan. Qui il PCI ha fatto, rispetto alla stessa vicenda dei missili, un più deciso passo avanti nel distacco dall'URSS. Se sui missili la sua posizione era ancora nell'ottica dell'"accomodamento", della politica di "un colpo al cerchio e uno alla botte" (non rompere con l'URSS ma neppure allinearsi con essa, non accettare le proposte americane ma neppure rifiutarle in toto) la condanna dell'intervento russo in Afghanistan cambia sensibilmente il quadro. Nella divisione che sulla risposta all'URSS contrappone gli Stati Uniti alla Germania e alla Francia - nuova politica del "contenimento" (dottrina Carter) da una parte e salvaguardia della distensione e del dialogo dall'altra parte - il PCI si schiera nettamente con il governo tedesco conseguendo due vantaggi: rimanere attaccato alla idea che è possibile salvare la distensione, punto-cardine, come si è detto, del disegno politico che legittima la permanenza in carica entro il PCI dell'attuale gruppo dirigente e, contemporanea

mente, assumere una autonoma posizione internazionale con gli stessi argomenti di uno statista (Schmidt) e di un partito (l'SPD) che non possono essere certo accusati di filo-sovietismo.

Il punto è che il problema, ancora una volta, posto nei termini dei tradizionali rapporti di influenza fra gli Stati, rende inefficace (vantaggi di legittimazione interna a parte) la posizione del PCI e difficilmente traducibile in una politica estera realistica. Nei termini attuali della questione infatti, la tragica conclusione cui si rischia di arrivare è che Carter, proponendo un nuovo "containment" ha ragione e Schmidt (e Berlinguer) torto. La distensione non esiste più e tentare di riesumarla è una scelta perdente. Davanti a una Sparta il cui complesso militare-industriale è in espansione e la cui aggressività é stata certo, almeno in parte, risvegliata dagli errori di Carter, in particolare dal modo "folle" con cui è stata gestita in funzione antisovietica, a fini elettorali interni, la carta cinese, il tentativo di dialogo nei vecchi termini da parte dell'Atene europea è destinato a concludersi con buone probabilità in un solo modo: con l'accrescimento della influenza politica di Sparta in grado di c

onvertire in risorse politiche i vantaggi militari e il (per ora) buon controllo che esercita sulla propria situazione interna e, alla fine, con la finlandizzazione di una parte almeno di Atene. Se la questione è impostata come scelta fra due sole alternative: il contenimento (con il suo corollario di corsa agli armamenti e tutto il resto) e il dialogo nei vecchi termini, la politica più razionale rischia di essere il contenimento e quella più irrazionale il dialogo. Tranne nel caso, davvero improbabile stante le attuali divisioni, che i paesi europei riescano a darsi una politica comune (facendo così blocco e aumentando il proprio potere contrattuale) nei confronti dell'URSS.

E allora si domanderà a questo punto il lettore, soprattutto radicale, che vuole una politica di pace e il disarmo e che sa che la massima "si vis pace para bellum" conduce inevitabilmente alla guerra e non alla pace (perché rafforza a dismisura, per un gioco di azioni e reazioni, il peso politico dei falchi militari da una parte e dall'altra), che fare?

Una politica "aggressiva" di pace

Il che fare è tutto affidato alle capacità e alle possibilità che i radicali avranno nei prossimi anni di imporre un mutamento nelle "premesse" tale per cui si dia un drastico ampliamento delle alternative politiche disponibili. Sono note a tutti le posizioni internazionali dei radicali: la proposta federalista fondata sulla constatazione della crescente inadeguatezza dello Stato nazionale, l'opposizione agli eserciti e agli armamenti, le denunce dello sfruttamento del terzo mondo (di cui sono parte le battaglie in corso contro la fame nel mondo). L'obiezione di sempre è che quella radicale è, nell'insieme, soltanto una bella utopia. E una utopia non è una politica. Ad esempio, i commenti della stampa sulle posizioni assunte dai radicali durante il dibattito sui missili-NATO sottolineavano il carattere velleitario e astratto delle proposte radicali.

Ma proviamo ad immaginare uno scenario di questo genere. A seguito di mutamenti consistenti negli equilibri politici interni e nelle caratteristiche delle sue forze politiche, l'Italia adotta una nuova politica estera basata su due cardini: la scelta del disarmo unilaterale con immediati e consistenti passi in quella direzione e la decisione di appoggiare in tutte le sedi internazionali le richieste dei paesi, e in particolare di quelli privi di potere contrattuale, di una rinegoziazione dei termini di scambio con l'occidente su basi assolutamente egualitarie.

E' noto che la potenza internazionale (la quale a sua volta è indispensabile per provocare mutamenti politici) non dipende "solo" da un tipo di risorsa, ad esempio, dalla forza economica oppure dalla forza militare. Come ci ricorda la famosa domanda di Stalin: "Quante divisioni possiede il Papa?", una importantissima risorsa spendibile nella arena internazionale è data dalla "forza morale" (9), dal prestigio accumulato internazionalmente. Piccoli e medi paesi, come la Jugoslavia di Tito o l'Egitto di Nasser hanno svolto in tempi passati un ruolo di primo piano nelle vicende mondiali, un ruolo certo sproporzionato per eccesso rispetto al peso economico o militare di questi paesi. D'altro canto, come si è visto, una media potenza come l'Italia non ha svolto nei decenni passati una politica estera di un certo peso "esclusivamente" per ragioni attinenti ai suoi equilibri politici interni. In altri termini, e contrariamente a quanto sostiene la quasi totalità dei commentatori politici, l'Italia non è stata e non

è condannata a un ruolo di spettatore a causa di condizioni "oggettive" e immodificabili ma "soltanto" a causa dei suoi rapporti di forza interni e delle caratteristiche dei suoi partiti.

Una classe dirigente che decidesse di entrare nell'arena internazionale con una "aggressiva" politica di pace, partendo da una scelta di disarmo unilaterale, non si consegnerebbe inerme agli aggressori esterni ma accumulerebbe talmente prestigio e forza morale da poter svolgere un ruolo di co-protagonista, anziché di comparsa, nelle vicende internazionali (rendendosi inoltre inattaccabile con l'unica vera politica di "sicurezza nazionale" nell'epoca delle armi termonucleari). Una politica aggressiva di pace spiazzerebbe le superpotenze e mostrando che esiste una terza via fra corsa agli armamenti e capitolazione metterebbe in moto, con ogni probabilità, una serie di reazioni a catena: altri paesi, in altre parti del mondo, farebbero probabilmente la stessa scelta e, insieme all'Italia, questi paesi diventerebbero automaticamente il punto di riferimento (come la Francia rivoluzionaria lo fu per i movimenti democratici europei dell'inizio del XIX secolo e la Russia per i movimento socialisti di parte del XX) p

er i movimenti pacifisti e antimilitaristi europei ed extraeuropei che, a quel punto, vedendo l'utopia tradursi in politica, acquisterebbero slancio e forza ovunque.

In breve, se un paese adottasse la politica che i radicali propongono all'Italia i processi che si metterebbero in moto potrebbero rapidamente condurre a un nuovo "internazionalismo", se si vuole ad un nuovo "movimento dei non-allineati", non passivo come il precedente ma "attivo", capace di lottare, con mezzi pacifici ma aggressivamente, contro le superpotenze in tutte le sedi e le arene internazionali disponibili, per costringerle a drastici mutamenti di politica. E certo a quel punto, all'interno delle stesse superpotenze, nascerebbero attori politici consistenti in grado di combattere le politiche dei propri governanti: anche in URSS, nonostante quello strano complesso di inferiorità dei democratici nei confronti dei regimi dittatoriali, che li porta regolarmente a sopravvalutare la capacità di questi regimi di controllare, in "qualunque" caso, la propria situazione interna.

Combinando forza morale e ciò che resta dell'autonomia nazionale per partecipare alla "politica di potenza" con strumenti, finalità e risorse diverse da quelle tradizionali e usando, laddove è possibile, questi strumenti "contro" lo Stato nazionale per imporre soluzioni federalistiche più stabili e "ordinate", una politica estera di questo genere sarebbe l'esatto contrario delle invocazioni rituali di un "nuovo ordine internazionale" che servono alle varie forze politiche, italiane ed estere, per nascondere sotto la retorica il proprio immobilismo. Un nuovo ordine internazionale, inteso come struttura stabile e fondato sul consenso generale, è probabilmente irrealizzabile in tempi politici, troppo complesse essendo ormai le relazioni internazionali. L'obiettivo non potrebbe essere, tranne che in tempi storici, quel "nuovo ordine mondiale" la cui prefigurazione oggi altro non è se non il "pendant" sul piano internazionale dei "Progetti" "complessivi" di rifondazione della società che le varie forze politiche

sbandierano all'interno (e sulla cui totale inutilità pratica mi sono soffermato in altre occasioni su questa rivista). L'obiettivo dovrebbe essere invece la costruzione, di volta in volta, di "segmenti di ordine" perseguiti mediante una politica condotta "per progetti" (al plurale) e sostenuti con coerenza e con vigore nelle diverse sedi bilaterali e multilaterali (con un uso innovativo degli strumenti creati dalla interdipendenza).

Nel mondo degli anni ottanta l'impossibilità di trovare soluzioni monetarie stabili (perché non è più ricostituibile una struttura con un solo "direttore d'orchestra"), la crisi energetica, la nuova corsa agli armamenti, la degradazione delle condizioni di vita del Quarto Mondo (i paesi sottosviluppati senza risorse energetiche né potere contrattuale di alcun genere) e la dispersione del potere militare internazionale, rendono le prospettive assolutamente cupe. Ma una classe dirigente che usi creativamente degli strumenti della politica estera per partecipare attivamente e, ripeto, aggressivamente, nell'ottica indicata, alle vicende internazionali, avrebbe molti "atouts" da spendere per contribuire a rendere meno fosco i futuro. Inoltre, per la stretta interdipendenza che lega politica estera e politica interna, essa potrebbe in questo modo tutelare stabilizzandola, la democrazia interna contro tentazioni autoritarie. I mutamenti che una politica estera di questo genere contribuirebbe a provocare nelle relaz

ioni internazionali, nelle transazioni economiche con altri paesi (con un probabile effetto propulsivo per lo sviluppo di una economia ormai stagnante come quella italiana), consentirebbero passi decisivi nella direzione, non della "società perfetta" dei miti cattolici e comunisti, ma certo della più laica e realizzabile "società decente". E il consenso interno, dopo primi successi, tenderebbe ad aumentare. Anche perché i mutamenti internazionali, combinandosi con i mutamenti interni, vanno nel frattempo allargando sensibilmente l'area del "pubblico che, anche in politica estera, non si accontenta più dei miti o delle chiacchiere ma valuta i governanti per le loro scelte concrete.

Non si tratta, peraltro, di una utopia. Come nel caso del divorzio o dell'aborto la c. d. utopia radicale è certamente assai più realistica degli obiettivi "realisti" e "ragionevoli" degli altri. Utopia e irrealisnmo, come i radicali ripetono da tempo, è credere, ad esempio, che la corsa agli armamenti serva a preservare la pace, realismo è fare qualcosa qui e subito (e non soltanto retorica pacifista) per attuare il disarmo.

Ho detto che si tratta di un politica realistica, non necessariamente, realizzabile. La sua realizzabilità è tutta affidata infatti alle chances di uno "sfondamento" elettorale a sinistra da parte dei radicali. Lo "sfondamento" mettendo con ogni probabilità in moto un processo tale da dare vita a un grande partito radicalsocialista con tutte le carte in regola per porsi alla testa della sinistra e del paese, provocherebbe cambiamenti profondi in "tutto" il sistema politico e nelle caratteristiche dei suoi attori: essendo infatti un "sistema" definito dalla stretta interdipendenza fra le due diverse parti, un mutamento in una parte (nella fattispecie nella fisionomia della sinistra) darebbe luogo a immediati mutamenti in tutte le altre parti del sistema.

Solo per questa via, evidentemente, lo scenario qui descritto potrebbe tradursi in realtà. Ma l'alternativa a questo scenario non sarà né la tranquilla sicurezza del passato, rimpianta dalla destra, sotto l'ala protettrice di un santo patrono internazionale né, come intende il PCI, un contributo di qualsiasi genere a un "nuovo ordine mondiale". L'alternativa sarà un sistema politico allo sbando in una arena internazionale sempre più caotica e pericolosa, del tutto incapace di azioni efficaci in direzione di un mondo più pacifico e per conseguenza incapace anche di tutelare e di garantire se stesso.

NOTE

1) Riportato da S. Hoffmann in "How to read Henry Kissinger", "The New York Review of Books", dicembre 1979, p. 18.

2) Per un inquadramento teorico rinvio a A. Panebianco, "La politica estera italiana: un modello interpretativo", "Il Mulino" N. 254 (1977), pp. 845-879.

3) Vedi l'analisi di S. Caruso, "La strategia corporativa dal fascismo alla Democrazia Cristiana", "Inchiesta", N. 38-39 (1979), pp. 3-23.

4) E' un fatto che chiunque scriva di cose politiche è in grado di constatare empiricamente: scrivere sulla politica estera e sulla politica internazionale significa, al massimo, vedere le proprie tesi riprese o criticate da uno sparuto gruppo di "addetti ai lavori" su riviste specialistiche (lette, per lo più, "soltanto" da quegli stessi addetti ai lavori). Scrivere sulla politica "interna" italiana, ad es. sui partiti, significa invece essere spesso ripresi sui mass media ed avere una udienza assai più ampia. Non è un problema di "qualità" dei lavori che vengono pubblicati nell'uno o nell'altro campo. E' un problema di "mercato" riconducibile alla esiguità - per le cause indicate - del "pubblico" per gli affari internazionali. Tuttavia i riflessi interni dei mutamenti in corso nella arena mondiale dovrebbero presumibilmente mutare questa situazione, dovrebbero cioè ampliare almeno un poco l'area del "pubblico attento" alla politica internazionale (con benefici sicuri per il "controllo democratico", cioè da

l basso verso l'alto, sulle scelte dei governanti in politica estera).

5) Vedi, più estesamente A. M. Gentili, A. Panebianco, "The PCI and the International Relations: The Politics of Accomodation", in L. Gray, S. Serfaty (eds.) "The Italian Communist Party", Westport, Greenwood Press, 1980. Analisi assai acute sulle contraddizioni della politica estera del PCI sono svolte da M. Salvadori, ad esempio, "Sulla politica estera del PCI", "Mondoperaio", N. 10 (1979), pp. 25-28.

6) Vedi su questi problemi L. Bonanate, "Teoria politica e relazioni internazionali", Milano, Comunità, 1976.

7) Il PCI ha sempre portato una grande attenzione ai processi in corso nel Terzo Mondo e i suoi analisti svolgono sovente considerazioni assai interessanti ma le proposte politiche risultano quasi sempre avviluppate nelle contraddizioni qui indicate. Come esempio di analisi altrettanto acuta e informata quanto debole nella prognosi vedi R. Palmieri, "I rapporti Nord-Sud all'origine delle tensioni", "Rinascita". N. 3 (1980). p. 29.

8) Con la consueta finezza è, da un po' di tempo, Gianni Baget Bozzo, fra i commentatori della situazione italiana, ad avere colto molte delle novità in atto e delle potenzialità che si aprono all'Italia nella gestione delle sue relazioni internazionali: vedi, ad esempio, le osservazioni svolte in "Democrazia e questione nazionale", "Problemi della Transizione", N. 2 (1979), pp. 63-67.

9) Vedi su questi aspetti e più in generale sul rapporto fra non-violenza, pacifismo e guerra N. Bobbio, "Il problema della guerra e le vie della pace", Bologna, Il Mulino, 1979.

 
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