I RETROSCENA DELLA LEGGE PER LA DOCENZA UNIVERSITARIAdiario di Massimo Teodori
SOMMARIO: Teodori racconta la sua esperienza di deputato radicale membro della Commissione Pubblica Istruzione. Ripercorre le tappe dei lavori in Commissione sulla proposta di legge-delega Valitutti che tentava di risolvere la questione del riordinamento della docenza universitaria. Ricorda i suoi dilemmi di deputato radicale per sconfiggere la routine e la sua convinzione che la battaglia principale da vincere fosse quella di portare il provvedimento fino in fondo all'approvazione del Parlamento per poi arrivare alla motivazione del suo voto finale contrario.
(ARGOMENTI RADICALI, BIMESTRALE POLITICO PER L'ALTERNATIVA, Novembre 1979 - Gennaio 1980, N. 14)
Gli ultimi mesi del 1979 sono stati un periodo di intenso lavoro parlamentare sovrapponendosi alla mia attività corrente alla Camera (commissione di inchiesta Sindona, bilancio della Camera e dibattito istituzionale, fame e sterminio nel mondo, euromissili, preparazione e presentazione del progetto di legge sulle droghe), la discussione e l'approvazione della legge-delega per il "riordinamento della docenza universitaria", presentata in ottobre dal ministro della pubblica istruzione Valitutti sotto la pressione di tempi stretti dovuti alla scadenza dei contratti dei cosiddetti "precari".
Le difficoltà di azione di un deputato
Per me, deputato radicale membro della commissione pubblica istruzione, la partecipazione attiva a tutto il processo di discussione e formazione della legge è stato particolarmente gravoso, perché su tale questione il gruppo radicale nel suo insieme è rimasto assente lasciando ai singoli membri libertà di movimento. Quando un singolo deputato affronta da solo una qualsiasi battaglia parlamentare senza il retroterra del gruppo parlamentare, e senza una équipe di riflessione e di elaborazione che consenta l'adeguata preparazione di ciò che si discute, si trova di fronte ad una situazione assai difficile. Deve contemporaneamente provvedere all'elaborazione dei contenuti e alla traduzione di detti contenuti in proposte precise fatte di emendamenti e di articoli, sostenere la discussione in commissione e tenere aperto il dialogo in eventuali tavoli di incontro/scontro paralleli ai lavori di commissione. Si tratta in definitiva di un lavoro improbo che evidenzia la quasi impotenza e l'assoluta inadeguatezza del si
ngolo deputato di fronte ad una macchina complessa come quella parlamentare in cui non solo il gruppo parlamentare mantiene in quanto tale la maggior parte delle prerogative di intervento, ma la stessa efficacia di una qualsiasi azione è fortemente condizionata dall'apparato che si ha alle spalle per istruire e affrontare adeguatamente i problemi all'ordine del giorno.
Venendo quindi in discussione i problemi universitari, era per me comunque difficile colmare il divario rispetto alle possibilità di un'azione efficace in una materia peraltro così controversa e con nodi che si sono andati complicando per anni, pur avendo personalmente alle spalle un certo bagaglio di conoscenza specifica e di impegno diretto e indiretto testimoniato anche da pubbliche prese di posizione ("Contro il pasticcio della riforma Malfatti", "Argomenti radicali", n. 2, 1977; "Lotteria universitaria", ecc., "Belfagor", gennaio 1977). Del resto l'assenza sul tema del gruppo radicale - incalzato da tanti problemi dell'attualità politico-parlamentare - non ha certamente contribuito ad alleviare i problemi del "deputato solitario" alle prese con una grande questione, quale è certamente quella dell'intervento legislativo nell'università.
Un mio tentativo di coinvolgere tra settembre e ottobre in una discussione di insieme il gruppo, tramite un documento di indirizzo, non aveva sortito effetto, sicché rimanevo solo pur se confortato dal costante dialogo e contributo di Lorenzo Strik Lievers, il compagno e amico che giorno dopo giorno, durante tutta la discussione parlamentare, metteva a frutto le sue riflessioni ed esperienze delle questioni universitarie, già in precedenza espresse da un'ottica radicale proprio su questa rivista con "Etica universitaria ed etica corporativa", "Argomenti Radicali", n. 10, dicembre 1978
Nell'università le pesanti eredità di un inglorioso passato di nongoverno.
La materia della proposta di legge-delega Valitutti. è la questione del riordinamento della docenza universitaria. Cioè, in breve, l'annosa questione del personale universitario, della sua sistemazione giuridica, e del quadro complessivo (accesso, concorsi...) in cui si situa lo stato giuridico. Da anni, anzi da decenni, tutti i tentativi di riordinamento - di trasformazione o di riforma - universitario sono falliti proprio sulle questioni relative al personale. Dopo le profonde trasformazioni avvenute tra la fine del '60 e l'inizio del '70 (liberalizzazione degli accessi, arresto dei concorsi universitari, abolizione della libera docenza... ), la questione del "personale universitario" si è purtroppo sempre più identificata con la stessa questione universitaria".
La vecchia università d'élite che serviva alle perpetuazione della classe dirigente era soppiantata da una nuova università, i cui connotati tuttavia non si intravvedevano né con le proposte che scaturivano dall'interno del mondo universitario né con i conati di trasformazione messi in atto dalle forze politiche nei diversi, e tutti falliti, tentativi di intervento legislativo. E quanto più tali tentativi si rivelavano privi di profondi motivi ispiratori - i soli che avrebbero potuto e potrebbero dettare linee direttive di una qualsiasi riforma - tanto più si accrescevano le velleità del grande intervento trasformatore - "La Riforma" - capace di dettare dall'alto e dal centro le norme per una globale trasformazione degli aspetti della vita, della organizzazione e della normativa universitaria.
Così, proprio in relazione a tale impotente volontà di riforma globale, negli anni settanta si andavano moltiplicando interventi indirizzati esclusivamente al personale: tali i "provvedimenti urgenti" del 1973 che distruggevano qualsiasi dibattito culturale e politico-culturale specifico, per ridursi a norme corporative riguardanti il personale; e tale il fallito decreto Pedini del 1978, poi in parte ripreso con un provvedimento dallo stesso nome nella primavera 1979.
Pertanto, nel corso di un decennio, sotto la spinta dei non-governi succedutisi pur con il sostegno di maggioranze diverse - centro-sinistra, centrismo, unità nazionale con il PCI dal 1976 al 1979 - l'ottica prevalente per l'università si trasformava da grande questione nazionale a fatto riguardante essenzialmente il personale, cioè problema corporativo, sia che si trattasse dei gradi bassi che di quelli alti.
A questo cambiamento di orizzonte contribuivano massicciamente sia il coagulo di quegli interessi universitari che volevano mantenere lo "status quo", sia l'entrata decisiva sulla scena dei sindacati e partiti che premevano per garantirsi "spazi" di potere attraverso gruppi organizzati secondo linee sindacali e partitiche che subentravano o si giustapponevano ai vecchi gruppi di potere.
Le linee di una battaglia anticorporativa
Le soluzioni contenute nella proposta originariamente presentata dal ministro Valitutti non erano di segno univoco. Era, a mio avviso, un buon punto di partenza l'abbandono di qualsiasi velleità macroriformatrice con l'accettazione di una filosofia di intervento circoscritta al solo e più urgente problema del riordinamento della docenza, lasciando la strada aperta a possibili successivi interventi. Positiva era altresì l'assenza di "ope legis" e di meccanismi riservati, strumenti tipici del corporativismo e della negoziazione tra corpi e categorie organizzate. D'altro canto il provvedimento aveva all'origine una serie di vistose falle: l'esistenza di ampi margini di discrezionalità nella legge-delega (che rinvia al governo il dettaglio della norma ma deve stabilire per ogni punto trattato criteri e principi); la mancanza di una visione complessiva del sistema della docenza nelle diverse fasce in grado di assicurare la mobilità interna e l'accesso dall'esterno; un'assenza di chiarezza nell'impostazione della
fascia dei ricercatori in cui gli ex precari ed i futuri reclutandi avrebbero goduto di due statuti diversi con la sanzione di posizioni di privilegio dovute soltanto a fattori anagrafici.
Da parte mia impostavo quindi la presenza in commissione attestandomi su una linea di rigorosa difesa di alcuni principi generali che enunciavo in un intervento ("E' l'università che è precaria") apparso ne `La Repubblica" del 28 ottobre 1979, di cui riporto qui ampi stralci.
"Università, »precari dentro, precari fuori . E' un falso problema anche rispetto ai provvedimenti sul personale universitario ora in discussione. Dietro a chi vuole incanalare il dibattito sul binaria univoco dei »precari c'è la volontà di non affrontare le reali poste in gioco derivanti dallo stato giuridico dei docenti. Sono fuorvianti tutti i corporativismi, siano di destra o di sinistra, i difensori dei privilegi di potere a i populisti d'ogni ispirazione.
Vediamo con ordine. Prima questione: come restituire mobilità ad una università armai cristallizzata. Non c'è ormai nessuno stimolo alla ricerca, c'è scarsa comunicazione fra energie vive nel paese - culturali, scientifiche, professionali - e l'istruzione e la ricerca universitaria. Chi si siede su una poltrona, una poltroncina o uno sgabello ha come principale obiettivo difendere la propria posizione indipendentemente dal fine. Bloccati i concorsi a cattedra per 5 anni per poi aprire una immotivata emorragia (dopo i 3500 posti di questi giorni vi saranno 5000 posti tra il 1979 e l'80); burocratizzati organici e trasferimenti secondo norme intricatissime; frammentate le innumerevoli figure di docenti; elevata a sistema l'insicurezza per i 12.000 precari, e non solo per essi; resa impossibile l'accesso di nuove leve. Tale il risultato di 10 anni di leggine corporative la cui responsabilità è comune a governi incapaci di governare, sindacati tesi ad allargare la sindacalizzazione ed il potere negoziale in aree
che nulla hanno a che fare con la tutela sindacale, e pressioni di categorie tese a guadagnare meccanismi »riservati di stabilizzazione o avanzamento, di »ope legis in alto e in basso.
Nella proposta Valitutti riappaiano alcuni segni di questa eredità: una fascia di ricercatori con statuto differenziato fra chi è »dentro (acquisita il diritto per sempre) e chi è »fuori (permanenza per soli 7 anni). I concorsi per ordinario diversi da quelli per associato, le idoneità per contrattisti diverse da quelle per borsisti.
Seconda questione: accesso, ricambio e programmazione. Nessuna ragionevole previsione sul ricambio fisiologico nei prossimi anni: quanti nuovi docenti potranno e dovranno entrare nell'università? Quanti usciranno fisiologicamente dai ruoli per anzianità? Perché reintrodurre la figura dei »soprannumerati (oscura per i non addetti ai lavori) che blocca tutto il sistema? Senza tali previsioni e senza agili e continue procedure di accesso alle tre fasce di docenza, a nulla valgano le cifre degli organici. Dobbiamo finalmente essere in grado, con l'assetto definitivo del personale, di dettare norme che non solo garantiscano sicurezza e stabilità, ma anche rispetto delle regole del gioco e programmazione dell'immissione di nuovo personale. E' cruciale, oggi, garantire l'accesso e quindi governare le aspettative disattese per tanto tempo.
Terza questione: autonomia e sperimentazione. E' positivo che si sia abbandonato il mito della grande Riforma, cioè l'ingegneria centralistica ministerial-giacobina. Ma, procedendo per aree di intervento, occorre prevedere chi, come e dove si può tentare la sperimentazione di nuove forme di aggregazione, e organizzazione didattica e scientifica. Non parla del dipartimento, divenuto ormai più mito che proposta di contenuti. Mi riferisco alla possibilità - che è innanzitutto possibilità e disponibilità finanziaria - per tutte le forze vitali che hanno qualcosa da dire e fantasia di invenzione, di poter mettere alla prova le loro capacità. E ciò riguarda tutti, dagli ordinari ai ricercatori: lo divisione non è tra »baroni e »paria , ma tra chi sa e vuol far qualcosa e chi non sa e non vuole.
Quarta questione: incompatibilità e tempo pieno. Si è oscillati finora tra atteggiamenti di moralismo rigorista e »lasciar fare . L'obiettivo di un intervento dovrebbe essere quello di garantire all'università il meglio delle energie disponibili e non rendite di posizione. La proposta Valitutti è ambigua sulle incompatibilità che vanno chiarite, esplicitate e rese eguali per ordinari, associati e ricercatori. D'altro canto va al massimo garantita la possibilità di rapporti definiti nel tempo e negli obiettivi che consentano, senza chiusure, all'università di poter usufruire di apporti arricchenti la dialettica culturale e scientifica. Occorre muoversi lungo due binari: no alle ineguaglianze dei diritti e dei doveri, ma no anche alla difesa delle caste chiuse.
Le giuste rivendicazioni dei »precari di avere subito certezza di prospettive e di porre davvero fine alla precarietà si intrecciano in questi giorni con pretese di privilegio (l'entrata automatica nei ruoli) che non solo sona incompatibili con i principi dello stato di diritto, ma che aprono inevitabilmente la strada a tutte le pretese di altre ben più potenti caste. Sappiamo bene che se si smaglia il principio della idoneità e dei concorsi per tutti, nei buchi si infilerà quel partito dei baroni e baronetti che conta molte quinte colonne in parlamento.
Perciò sarebbe davvero un errore irreparabile se nei prossimi giorni, quando discuteremo la proposta Valitutti, non creassimo in parlamento uno schieramento anticorporativo che, a partire da un atto di buona volontà come quello del ministro, non si adoperasse per esaltare gli aspetti positivi del provvedimento emendandone i residui - non pochi né marginali - di una triste eredità in cui si sono congiunti in passato i grandi e piccoli interessi di casa con le faide di potere dei corpi organizzati ".
Come agiscono i partiti nelle commissioni parlamentari
Mano a mano che procedevano i lavori della commissione, durati quattro settimane di serrato lavoro diurno e notturno, appariva chiaro che il testo presentato dal ministro sarebbe stato smontato pezzo per pezzo e riformulato. Quali gli schieramenti e le forze attive in commissione? Il gruppo più numeroso, quello DC con 18 deputati, si dimostrava sostanzialmente privo di idee di fondo e impegnato solo per una parte dei suoi membri, 3 o 4, portatori di interessi settoriali di una qualche categoria nell'ambito dei docenti intermedi (incaricati e assistenti), a difendere per via di argomentazioni giuridiche presunti "diritti acquisiti". Liberali e socialdemocratici dimostravano una presenza puramente formale mentre il commissario repubblicano senza esperienza specifica di tanto in tanto si faceva portavoce di posizioni maturate in altra sede. Particolare invece la situazione dei due commissari socialisti (su quattro, essendo gli altri due permanentemente assenti), i quali non riuscivano a portare in commissione u
na presenza incisiva al livello della pur corposa elaborazione culturale che in area socialista è andata maturando, come risulta dal fascicolo di "Mondo Operaio" di luglio-agosto 1979. Agguerrita, presente e capace di perseguire con determinazione le proprie soluzioni la delegazione comunista (14 commissari) controllata in lontananza dalla mano politica di Occhetto, e guidata dall'esperienza di docenti come Asor Rosa, Masiello e Ferri. I comunisti fin dall'inizio si attestavano su una linea di ricerca di collaborazione soprattutto con la DC oltre che con il PSI, secondo lo schema in precedenza seguito per arrivare ad accordi tra gli "uffici scuola" che erano stati all'origine del "decreto Pedini" caduto nel dicembre 1978. In particolare per i precari i rappresentanti del PCI in commissione hanno costantemente sostenuto le posizioni propugnate dalla CGIL-Università che, a sua volta, ha sempre trainato i sindacati confederali. Così per questa, vicenda, almeno nella parte più controversa riguardante appunto la
sistemazione dei precari, il ruolo giocato dal PCI è stato quello di cinghia di trasmissione delle posizioni sindacali, invertendo il senso di un rapporto che generalmente è di segno opposto. La presidenza della commissione istruzione è tenuta dal democristiano Giancarlo Tesini, responsabile anche dell'ufficio scuola della DC, il quale senza avere particolari proposte proprie o idee di forza da sostenere, ha svolto il ruolo del gran mediatore, attento soprattutto, da "doroteo", a smorzare tutti i toni e le posizioni al fine di non far sorgere e cristallizzare contrapposizioni e scontri.
Per me la situazione è stata particolarmente difficile. Alle spalle avevo un gruppo impermeabile alla discussione del problema e, di fianco, in commissione, un collega radicale, Alessandro Tessari, sostenitore di posizioni in pratica assai divergenti dalle mie. Per Tessari uno dei cardini del riordino della docenza sarebbe dovuto essere l'immissione automatica nei ruoli senza, filtri di alcun tipo, di tutto il personale non di ruolo ed in special modo dei precari considerati nell'ambito universitario esclusiva mente sotto il profilo di "lavoratori" con il diritto a conservare il posto di lavoro. Di più, la visione complessiva di Tessari dell'università è ispirata ad una semplificata "cospirazione baronale" senza eccessivi distinguo di quelle che effettivamente sono situazioni di privilegio e di ciò che non può essere ricondotto a tale categoria pratica e concettuale. Secondo tale ottica, la questione bruta del "potere" organizzato prende il posto di ogni valenza politico-culturale e, di conseguenza, l'organi
zzazione dei precari acquista il valore di una leva per rompere gli equilibri esistenti.
Poteva così accadere che, mentre andavo sostenendo l'autonomia del momento parlamentare in cui si devono confrontare impostazioni e soluzioni fuori dai negoziati e dalle pressioni di categoria, la sede del gruppo radicale fosse fatta oggetto, tramite Tessari, delle pressioni e degli interventi continui, materializzati anche dalle presenze fisiche di un "coordinamento nazionale dei precari" in contrapposizione con i sindacati nel rivendicare, senza troppe sfumature e senza alcun interesse alle questioni complessive di merito, l'immissione immediata e automatica nei ruoli dell'università di tutto il personale precario.
I dilemmi del deputato radicale per sconfiggere la routine
Nell'affrontare la questione universitaria sono venuti al pettine alcuni nodi sul modo di porsi di fronte alle vicende parlamentari per il nuovo gruppo radicale del 1979 con 18 deputati. A me pare che lo scioglimento di tali nodi può avvenire solo nel quadro delle scelte di più generali criteri di comportamento politico, della sua efficacia e dell'economia complessiva del lavoro politico-parlamentare.
Un deputato radicale ha di fronte a sé molteplici possibilità di azione che, per semplicità, possono essere schematizzate come segue:
1. interessarsi a tutto ciò che avviene in parlamento e in maniera particolare nella propria commissione, ed intervenire su tutto;
2. disinteressarsi della maggior parte dei temi e concentrarsi solo su alcuni maggiori che sono proposti dall'attualità altrui;
3. concentrarsi solo su quelli che ritiene essere i propri temi e le proprie battaglie cercando di imporle all'attenzione degli altri;
4. tenere un atteggiamento selettivo che consideri in primo luogo le proprie battaglie (punto 3) e quindi anche i grandi temi dell'attualità (punto 2).
I dilemmi tra queste varie opzioni si presentano quotidianamente nel lavoro parlamentare. Anche altre importanti questioni si pongono senza che possa essere data una risposta assoluta, definitiva e valida una volta per tutte. Si deve partecipare all'elaborazione legislativa o si deve tenere solo un atteggiamento critico e di opposizione? E, nel caso della partecipazione al processo di formazione delle leggi, lo si deve fare sulla base di criteri di schieramento costruendone uno di opposizione che tenta di battere quello di maggioranza, oppure si deve agire guardando ai contenuti specifici di una singola proposta o di una singola parte di una proposta indipendentemente dallo schieramento?
Nella discussione sulla docenza ho seguito un comportamento parlamentare che ha fatto perno su due capisaldi: primo, la partecipazione alla formazione di una legge con la possibilità anche di pesare positivamente nel gioco complessivo della ricostruzione del testo; e, secondo, lavorare sui contenuti misurando sempre su di essi gli schieramenti che di volta in volta si formavano senza pregiudizio alcuno. Così ho combattuto con i comunisti contro le rivendicazioni corporative categoriali sostenute da alcuni democristiani; ho portato su una mia proposta per la fascia dei ricercatori democristiani e socialisti con l'opposizione dei comunisti; ho sostenuto il ministro Valitutti allorché affermava la necessità di non dettare norme dettagliate di riordino di stampo giacobino e lo ho avversato allorché non ha voluto fare chiarezza su un'ambigua formulazione riguardante le università non statali; mi sono battuto per la programmazione decennale di concorsi ad ogni livello sì da offrire prospettive anche per il futuro
contro ogni visione restrittiva di un provvedimento tampone, e non ho esitato ad avversare il populismo di chi chiedeva le immissioni automatiche nei ruoli o la loro dilatazione oltre ogni misura anche quando tali richieste provenivano da settori politici contigui se non identici al mio.
Non sono certo io a dover trarre un bilancio di un tale comportamento sia per quel che riguarda l'intervento attivo nel processo di formazione di una legge sia nei suoi risvolti di immagine politica complessiva. In queste pagine di diario ho voluto solo portare in evidenza la complessità del lavoro radicale in parlamento, con i costi ed i benefici, complessivi e specifici, che sempre alcune scelte comportano.
Una convinzione di fondo: battere il partito degli ostruzionisti
Fin dalle prime battute mi appariva chiaro come in ogni caso la battaglia principale da vincere era quella di portare il provvedimento fino in fondo all'approvazione del parlamento. La lunga teoria di fallimenti dei tentativi di legiferare in materia universitaria mi convincevano del resto che la proposta di Valitutti ricostruita in commissione - se non portata a termine - avrebbe potuto rappresentare la sanzione dell'impotenza parlamentare e quindi la vittoria definitiva della giungla dei poteri piccoli e grandi presenti nell'università fuori da ogni regolamentazione imposta per via legislativa su principi generali. Era per questa convinzione di fondo che intervenivo pubblicamente durante il periodo caldo del dibattito in commissione concettualizzando l'esistenza di due superpartiti, quello favorevole al provvedimento e quello degli ostruzionisti. L'articolo "I cinque nemici dell'Università" era pubblicato ne "Il Messaggero" del 22 novembre, da cui riporto ampi stralci: "»... Il primo fronte ostruzionistico
è rappresentato da" coloro che vogliono che le cose rimangano come sono. "Di tali ostruzionisti se ne trovano in quasi tutti i partiti; si tratta soprattutto di quel superpartito rappresentato dai cosiddetti »baroni . Far rimanere la situazione immobile significa comunque consolidare i sistemi di potere, i privilegi acquisiti, i corporativismi organizzati, cioè lo sfascio istituzionalizzato. Se il parlamento non riesce a varare una legge, quale che ne sarà la motivazione, la china su cui è avviata l'università diventerà sempre più ripida.
Il secondo nemico è il fronte di" coloro che, "proclamandola a operando in modo tale che ciò avvenga nei fatti", vogliono solo un provvedimento stralcio per i cosiddetti »precari . "Appartengono scopertamente a questo fronte autorevole personalità repubblicane. Anche le forze sindacali organizzate si preoccupano principalmente, se non esclusivamente, della sistemazione degli attuali »precari con una notevole influenza sulle forze della sinistra storica. Se si arrivasse ad una soluzione stralcio di questo tipo si sanzionerebbe davvero un'università »precaria in cui è impossibile imporre razionalità a meno per quanta riguarda la docenza, e quindi per quel primo e più acuta problema che occorre risolvere per mutare l'intera struttura universitaria.
Il terzo nemico è costituito dalla" selva dei gruppi e dei sottogruppi che vogliono difendere, affermare o conquistare privilegi per qualche categoria di docenti, "soprattutto nella fascia intermedia degli attuali incaricati e assistenti. Questo nemico si potrebbe definire »diffuso , anche se le manovre ostruzionistiche, già rivelatesi in commissione e che si svilupperanno in aula, trovano espressione principale nella DC ed attraverso la DC, dove sono rappresentati gruppi particolarmente agguerriti di docenti delle facoltà di medicina.
Il quarto gruppo che potrebbe risultare obiettivamente ostruzionistico è rappresentato da" chi ritiene di difendere i »precari distinguendo strutturalmente il loro status da quello dei futuri reclutandi alle docenze universitarie.
"Questa è la posizione sindacale, fatta propria dal PCI, che sembra tutelare il precariato attuale ma in realtà lo condanna in un ruolo ghetto senza possibilità di uscita, che si chiami degli »aggiunti o dei risuscitati »assistenti . Le cifre parlan chiaro: si avranno nei prossimi anni solo 700/800 nuovi posti di professore associato ogni anno mentre gli attuali precari sono 12.000. Ciò significa che tale terza fascia è un ruolo senza speranza, appiattito e dequalificato, che costituisce un blocco nei confronti di qualsiasi possibilità di accesso per i nuovi giovani che vogliono entrare nella carriera universitaria.
Vi sono, dunque, allo stato attuale, nemici dichiarati, ostruzionisti palesi o diffusi, e posizioni che rischiano di diventare obiettivamente tali. Dinanzi a tale variegato fronte che porta inevitabilmente al blocco del provvedimento sulle docenze, ad opera di questa o di altra maggioranza di schieramento è necessario agire perché si crei un fronte mobile in Parlamento, magari differenziato sui diversi problemi da affrontare, ma unito nella volontà di arrivare al fondo rimuovendo tutti gli ostacoli che si frappongono al riordino integrale della docenza e non solo di una sua parte. Massimalisti e corporativi, utopisti e lassisti si tengono per mano.
Un quinto gruppo ostruzionista, da ultimo, è presente ed è forse assai più diffuso nelle coscienze di quanto non si creda e può finire per essere determinante nell'insabbiare tutto. E' quello dei »politici del Palazzo che desiderano, magari nell'inconscio, che l'università con il suo personale non prenda nelle proprie mani il destino e rimanga, per così dire, politico-dipendente. Così le masse intellettuali resterebbero deboli, economicamente insoddisfatte, precarie nello stato sociale e giuridico e quindi finirebbero per legare la propria sorte a quella di chi ha la facoltà di prendere le decisioni politiche. Se il Parlamento non voterà un provvedimento, che sia decente, non si deve escludere dalla nostra riflessione la veridicità di queste tesi sulla inconscia responsabilità dei partiti nel non voler emancipare l'università, come altri settori, dalla politica dei partiti ".
Le proposte per i precari
Trovare una soluzione adeguata per i "precari" e per i reclutandi, cioè per coloro i quali intendono avviarsi alla carriera universitaria, è stato fin dall'inizio il punto più controverso dell'intera materia in discussione. Perché tale problematicità e difficoltà? Dal 1973 sono stati immessi nell'università giovani (con i cosiddetti "contratti", "assegni", e "borse") che gradualmente, per irresponsabilità della politica governativa, si sono trasformati da temporanei apprendisti della ricerca e della didattica universitaria in permanenti occupati senza prospettive e spesso con funzioni supplenti di corpo docente insufficiente ad affrontare le necessità dell'università di massa. Ad oggi tale massa è costituita da circa 12.000 persone con età media dai 25 ai 30 anni e con caratteristiche assai diverse: alcuni ad un livello alto e pronti per entrare a pieno titolo fra i docenti; altri con capacità medie; ed altri ancora senza nessuna attitudine e impegno, interessati solo alla conservazione del posto di lavoro,
pur se retribuito assai modestamente, come del resto tutte le categorie della docenza universitaria. Un problema quindi, quello dei precari, in cui si intrecciano reali questioni di funzioni e di prospettive di carriera universitaria con esigenze di ordine ben diverso quale appunto le conseguenze della disoccupazione intellettuale ed il mantenimento, in questo drammatico quadro, di una occupazione pur se sottoretribuita.
Inoltre, connesso alla situazione dei precari, è il problema dell'accesso dei giovani che da circa quattro o cinque anni non hanno avuto modo di entrare, anche i più capaci, nell'università, a causa della non-politica governativa e dell'obiettivo conflitto tra l'occupazione di spazi da parte dei precari e l'apertura di nuovi spazi. Ad introdurre poi una ulteriore variabile nel problema considerato nel suo insieme è intervenuto il ruolo svolto dal sindacato. I sindacati che fino alla metà degli anni settanta non rappresentavano una entità influente nella vita universitaria, con la sindacalizzazione dei precari facilmente organizzabili proprio grazie alla loro posizione non tutelata, hanno trovato la strada per impiantarsi nel mondo universitario attraverso una forza d'urto, giovane, aggregata ed anche quantitativamente forte rappresentando tra 1/3 e 1/4 dell'intero personale.
Di fronte a questa intricata situazione le proposte del ministro Valitutti risultavano deboli e inadeguate prevedendo l'inquadramento, previo esame di idoneità, dei precari in una fascia di ricercatori con funzioni generiche insieme ai nuovi reclutati. Ma mentre i primi potevano permanere nel ruolo fino alla fine dei loro giorni, i nuovi reclutati dopo sette anni sarebbero dovuti o diventare professori associati o lasciare l'università. Un evidente controsenso data la statistica impossibilità di diventare professore associato in una previsione che contempla circa 600/700 disponibilità annue.
Nella ricerca di soluzioni più adeguate in grado di corrispondere sia alle aspettative dei precari reduci da un quinquennio di imprevidenze governative, sia alla necessità di riaprire l'accesso dei giovani all'università, si profilavano in commissione due proposte: quella comunista e quella alla cui formulazione contribuivo in maniera determinante.
I comunisti sono stati sin dall'inizio fermi nel richiedere un ruolo auto nomo per tutti i precari. Senza alcuna attenzione sostanziale per le funzioni e le prospettive di carriera, la proposta del PCI ha avuto come costante obiettivo l'inserimento di tutti i precari in un unico contenitore da caratterizzare come un ruolo chiuso, cioè senza ulteriori immissioni ("ad esaurimento"). In altri termini mantenere compatta anche in futuro una categoria assai diversificata ma resa omogenea dal solo fatto di essere entrata nell'università in alcuni anni e di essersi sindacalizzata per raggiungere alcuni obiettivi. Con la creazione del ruolo degli "aggiunti" o con l'immissione nel ruolo degli "assistenti", la richiesta comunista ha puntato sempre sulla singolarità della figura del precario da mantenere anche nel futuro con funzioni non particolarmente qualificate e non qualificabili, come recita la stessa lettera dell'emendamento proposto: "adempiranno a compiti di ricerca scientifica, assicureranno agli studenti, anc
he di corsi diversi, la collaborazione sulla scelta dei piani di studio e nelle ricerche attinenti alle tesi di laurea, collaboreranno alla realizzazione dei programmi deliberati dal dipartimento o dall'istituto, assolveranno compiti dì laboratorio, esplicheranno attività di seminario".
La proposta da me presentata che, pur attraverso alcune modifiche, era uscita maggioritaria dai lavori di commissione, si ispirava a criteri diversi. Offrire la possibilità di un trattamento differenziato (divisione della fascia in due parti con un giudizio intermedio di conferma) fra i più ed i meno meritevoli (secondo lo stato reale di differenziazione nella categoria). Riservare le stesse possibilità di carriera sia ai precari che ai nuovi reclutati senza distinguere in base a criteri anagrafici ma solo per ragioni di merito. Valorizzare al massimo la fascia del ricercatore confermato attribuendogli compiti e funzioni (il diritto di fare dei corsi autonomi, l'accesso diretto ai fondi di ricerca etc.) di pari dignità di quelle dell'associato. Prevedere uno sviluppo di carriera non appiattito ma parallelo all'associato, partendo dalla considerazione che i limitatissimi posti di associato disponibili nei prossimi dieci anni avrebbero comunque posto un problema di prospettive di carriera per i giovani da non
vincolare necessariamente alla disponibilità della titolarità dell'insegnamento. Non creare discriminazioni quanto a possibilità tra precari e nuovi reclutati ma al contrario introdurre nel sistema complessivo uno stimolo costituito dal merito e dalla possibilità soggettiva di passare alla fascia superiore su propria iniziativa (conferma). Infine far automaticamente passare ad associato su chiamata il ricercatore confermato non appena si fosse reso libero un posto senza dover passare attraverso nuovi concorsi.
Questa proposta, approvata a maggioranza in commissione con il voto contrario del PCI, è stata poi rimessa in discussione nel periodo intercorso fra commissione ed aula non già per i suoi contenuti ma per ragioni di schieramenti e tattica politica.
Quali sono i moventi del negoziato parlamentare
Val la pena di raccontare, a partire appunto da questa esperienza della legge universitaria, l'itinerario attraverso cui una proposta legislativa si modifica e quali sono i motivi che spingono le forze politiche a tenere certi atteggiamenti.
Accanto ai lavori di una commissione parlamentare - spesso letteralmente nella stanza accanto - si incontrano, discutono, negoziano e preparano soluzioni i rappresentanti dei partiti quando non sono parlamentari nonché eventuali rappresentanti di "forze interessate" (sindacati, per esempio), i quali, attraverso questo o quel gruppo parlamentare, trovano accesso alla Camera. Nelle vicende universitarie il ruolo extra-parlamentare degli "uffici scuola" dei partiti, quello dei sindacati e dei ministeriali in riunioni di tipo extra-parlamentare è stato in passato assai determinante. Meno lo è stato in questo caso, nella discussione del testo Valitutti, quando il confronto diretto parlamentare ha avuto, almeno nei lavori di commissione, un peso importante, pur se nell'ultima fase di passaggio dalla commissione all'aula il lavoro parallelo extra-parlamentare ha riacquistato spazio.
Per quanto riguarda la fascia dei ricercatori si era dunque verificata in commissione una spaccatura con l'isolamento e la messa in minoranza della tesi sostenuta dal PCI. Ma, una volta conclusa la commissione, gli interessi "politici", le tattiche, e le preoccupazioni di immagine hanno ripreso fiato. Vediamone alcuni.
Per la DC, ed in particolare per il presidente della commissione Tesini, la filosofia del negoziato e dell'accordo generale è stata dominante. Come dunque ricomporre - questa la preoccupazione di Tesini - l'accordo con il PCI anche per evitare eventuali sorprese nel voto in aula nel timore di restare in minoranza? I socialisti sui precari erano incerti e assillati da spinte contrastanti: da un lato convinti della bontà della soluzione specifica votata in commissione ma dall'altro timorosi di essere additati come i fautori di uno schieramento comune con la DC sotto il fuoco della "tigre movimentista", alimentata ad arte dal PCI attraverso i sindacati ed i pronunziamenti provocati da gruppetti di precari. Anche per il PSI la "filosofia unitaria" con il PCI, e magari anche con la DC, rappresenta un imperativo che assai spesso - almeno nel caso specifico - fa aggio sulla valutazione specifica. I comunisti, dal canto loro, hanno giocato contemporaneamente su due ipotesi preoccupandosi, quale che risultasse vincen
te, che fosse possibile rivendicarla come un proprio successo. Si trattava, per loro, o di andare in minoranza su un tema caro al movimento (di quale movimento poi si trattasse è cosa tutta da verificare) utilizzando la situazione per accreditarsi come i fautori di soluzioni di opposizione ma sconfitte ed addebitare ad uno schieramento etichettato come "governativo" le soluzioni vincenti; oppure di negoziare per ottenere qualche concessione anche se marginale ma tale da poter rivendicare a se stessi il merito di aver dato un apporto decisivo e "costruttivo" alla formulazione della legge, tale per cui risultasse rafforzata la formula »senza il PCI non si governa .
Così, per le convergenze di queste tre volontà, guidate tutte dalla primaria aspirazione a non confrontarsi sui contenuti ma a subordinare questi alla "ragion politica", attraverso incontri e negoziati tra DC, PCI PSI e con l'intervento del sindacato, nelle more del passaggio del progetto in aula, veniva trovato un compromesso sull'articolo riguardante i ricercatori. Il testo definitivo risultava un ibrido delle due soluzioni iniziali che tuttavia consentiva a ciascuna delle maggiori forze di rendere omaggio alle "volontà convergenti" (DC), all'impronta "decisiva impressa dalla forza comunista" (PCI) e ad uno "schieramento prefigurante più generali alleanze politiche" (PSI). Chi ne faceva le spese era proprio la chiarezza della soluzione adottata.
Nella discussione in aula, l'emendamento "senza oneri per lo Stato" sulle università non statali spacca gli schieramenti
La discussione in aula infine è una lunga maratona. Si comincia con la seduta di venerdì 14 dicembre, proseguendo sabato 15, lunedì 17, martedì 18, e si conclude mercoledì 19. Prima dibattito generale, poi esame e discussione articolo per articolo (il disegno di legge ne conta 13) con l'analisi degli emendamenti che complessivamente superano i 300. La procedura vuole che ogni emendamento sia illustrato dal presentatore, che su di esso si pronunzi il presidente della Commissione ed il ministro.
Quando un disegno così complesso arriva in aula, in realtà i giochi sugli emendamenti sono fatti. Soprattutto allorché c'è un accordo generale per far passare rapidamente il progetto di legge ed i tempi sono stretti. La votazione degli emendamenti è quasi automatica con pochissimi deputati che in aula seguono i lavori e con lo scenario dei risultati scritto anticipatamente. Infatti, contemporaneamente ai lavori d'aula, oppure al momento in cui essi si interrompono, siede il cosiddetto "comitato dei nove" che ha il compito di selezionare gli emendamenti e di proporne in aula il rigetto o l'accettazione. Una legge, soprattutto di questo tipo, si aggiusta in commissione e nel comitato dei nove mentre l'aula è solo la rappresentazione pubblica e formale del faticoso lavorìo precedente.
Presento per l'aula poche decine di emendamenti concentrandoli nei punti che ritengo essenziali. Alla fine ne vedrò approvati pochissimi - come del resto avviene per la gran parte dei 300 - proprio perché in aula si registrano gli accordi precedenti. Su un emendamento però ingaggio battaglia e in aula si vive l'unico momento di vera tensione e di scontro reale di tutto il dibattito. Si tratta dell'emendamento che tenta di porre un margine alle "norme particolari che potranno essere emanate per le scuole non statali" introducendo il concetto costituzionale del "senza oneri per lo stato". E' molto grave dare una delega in bianco al governo sui criteri che dovranno essere seguiti per inquadrare il personale docente nelle università non statali perché attraverso di essa possono passare ampi finanziamenti a qualsiasi istituzione privata e, comunque, provvedimenti discrezionali che potrebbero accentuare la dilatazione delle università libere a carico pubblico.
Sull'emendamento per la prima e unica volta si spacca clamorosamente l'aula, interviene una votazione a scrutinio segreto, si susseguono le dichiarazioni di voto. Sono favorevoli all'"emendamento Teodori" i socialisti, gli indipendenti di sinistra, i socialdemocratici, i pduppini ed i missini. Parlano a sostegno Spaventa e Rodotà (ind. di sinistra), Fiandrotti (PSI), Bempora (PSDI), Rallo (MSI), Crucianelli (PDUP) e i radicali Mellini, Melega, Roccella e Galli; contro il DC Gui, già ministro della pubblica istruzione; mentre i comunisti imbarazzatissimi si astengono. Si saprà poi che sull'argomento il gruppo PCI è aspramente diviso fra favorevoli e contrari e astensionisti. Dichiarerà in maniera sibillina Asor Rosa su "La Repubblica" del 20 dicembre: "La nostra astensione si giustifica con molta chiarezza se si ritorna, senza strumentalizzazione, al testo votato a maggioranza dalla Commissione". In verità, una volta imboccata la strada del "contributo decisivo" alla approvazione della legge, i comunisti non
vogliono dare adito ad alcuna lacerazione con la DC, anzi intendono accentuare i momenti "unitari" e quindi la difesa del testo, quale ne sia il contenuto.
La votazione si conclude con 62 favorevoli, 204 contrari e 135 astenuti (PCI).
Al termine dell'esame degli articoli ed emendamenti, si passa alle dichiarazioni di voto sulla legge nel suo complesso ed alla votazione finale. Non ho difficoltà a dichiarare nell'intervento finale che nella legge, così come è stata riformulata, si intrecciano elementi positivi ed elementi negativi. Mi pare che questo modo di procedere sia quello improntato ad una visione laica senza pregiudizi e tale da rafforzare proprio i momenti di opposizione togliendone il carattere pregiudiziale e generalizzato che rischia sempre di svalorizzare i comportamenti politici di un gruppo minoritario d'opposizione quale il radicale.
Perché il voto finale contrario
Sono positivi nella legge l'assenza di meccanismi privilegiati per questa o quella categoria; il criterio generalizzato dell'entrata nei ruoli dello Stato solo attraverso concorsi e prove di idoneità estese a tutti; un governo delle aspettative per dieci anni a tutti i livelli del sistema, con l'eccezione della parte riguardante i ricercatori; la riapertura ai giovani, se pure senza una programmazione che vada al di là di alcuni anni; e infine il tentativo di razionalizzare le attuali 30-40 figure che operano nell'università inquadrandole in tre ruoli, l'ordinario, l'associato e il ricercatore.
E' negativo l'aver lasciato nella legge diverse aree di completa discrezionalità al ministro ed alla legge delegata, fra cui, in primo luogo, quella riguardante le università non statali, ma non solo questa, avendo all'ultimo momento inserito anche la possibilità di emanare particolari norme per istituti ed accademie di polizia e dell'esercito. Non c'è sulla legge alcun accenno al rapporto tra stato giuridico e trattamento economico, una questione assai delicata ed importante che non deve essere lasciata alla pura trattativa fra le parti interessate nella quale, come sempre, soccombono i più deboli e non organizzati. L'articolo riguardante i ricercatori è - come ho già detto - un ibrido in cui per risolvere la questione dei precari si è finito per creare una "fascia precari" da ridiscutere fra quattro anni, che cioè non si sa bene che fine farà e quale ne sarà la funzione nel quadro generale di riorganizzazione della docenza. Da ultimo, come segno della stessa ambiguità del governo rispetto a questo provvedi
mento, alla constatazione in extremis della mancanza di copertura finanziaria si è fatto fronte prelevando inopinatamente le somme necessarie dal capitolo riguardante la "difesa del suolo".
Espongo queste mie valutazioni nella loro articolazione annunciando il mio voto negativo. Il risultato finale è di 396 voti favorevoli e di 93 contrari. Hanno annunciato il voto contrario radicali, missini, pduppini, repubblicani ma evidentemente nel segreto dell'urna si sono aggiunti altri oppositori dalle fila dei gruppi favorevoli (DC, PCI, PSI, PSDI, PLI) necessari per raggiungere il numero di 93.
Iniziano le vacanze natalizie. La legge prosegue il suo itinerario al Senato. Nel momento in cui scrivo, all'inizio del gennaio 1980, la sua sorte è ancora incerta.