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Bettinelli Ernesto - 30 gennaio 1980
RIFORME COSTITUZIONALI: UN'ALTERNATIVA AL PRESIDENZIALISMO
di Ernesto Bettinelli

SOMMARIO: L'autore apre il discorso sulle riforme costituzionali ricordando la prospettiva presidenzialistica di Giuliano Amato, riprendendone le opinioni che si fondano su una diagnosi esatta della realta' istituzionale del nostro Paese, della posizione di stallo in cui si ritrovano tutti gli attori politici. Propone che si taglino i "rami secchi" della Costituzione, senza uscire dalla forma di governo parlamentare, quanto basta per semplificare il sistema politico. C'è la proposta di eliminare il bicameralismo e di sopprimere le province unitamente ad un allargamento della democrazia diretta come esercizio di controlli non solo negativi ma anche positivi.

(ARGOMENTI RADICALI, BIMESTRALE POLITICO PER L'ALTERNATIVA, Novembre 1979 - Gennaio 1980, N. 14)

Riprendere il discorso sul mutamento della forma di governo dopo la parziale sospensione delle fondamentali garanzie costituzionali in materia di libertà personale, come decretato dal governo Cossiga quale risposta alla recrudescenza del terrorismo, potrebbe apparire in qualche misura un atteggiamento stravagante. In effetti la parola d'ordine che, in momenti come questi, si impone agli irriducibili democratici dovrebbe essere solo: "difendiamo, attuiamo la Costituzione!". Ma, ahimè, la storia insegna che le grida di dolore non preservano dal dolore; e allora non pare davvero inutile, e proprio in questa congiuntura, riproporre qualche riflessione sul funzionamento del nostro sistema politico. Del resto se il 1980 sarà l'anno di "larga unità nazionale" o, come altri preferisce dire, del "governo di salute pubblica", non è difficile prevedere che la questione di una revisione anche profonda dell'organizzazione costituzionale tornerà di attualità e rifiutarsi pregiudizialmente di affrontare l'argomento, rimane

ndo sulla difensiva, non solo sarebbe improduttivo, ma, al limite, anche rischioso.

Già in Parlamento - in occasione dell'esame dei bilanci interni di Camera e Senato - e per la prima volta in una sede istituzionale, il dibattito si è centrato sulla necessità di una riforma dello Stato. Certo, si è rimasti abbastanza sulle generali; se si escludono gli interventi drasticamente revisionisti di estrema destra, gli esponenti delle varie parti politiche hanno dichiarato - e più alla Camera che al Senato - la loro disponibilità a prendere in considerazione l'opportunità di qualche aggiustamento di questo o quell'istituto disciplinato dalla Carta (correzione, ma non soppressione, del bicameralismo; elezione diretta del Presidente del Consiglio da parte delle assemblee; voto di sfiducia costruttivo; modifiche non sostanziali del metodo elettorale soprattutto per la formazione del Senato ecc.). E' stata in ogni caso esclusa abbastanza nettamente qualsiasi ipotesi di radicale "rifondazione" della forma di governo; in particolare è stato rinchiuso (definitivamente?) nell'armadio lo spettro della pros

pettiva presidenzialistica, su cui da tempo sta insistendo con pochi seguaci Giuliano Amato.

Del tema ci siamo già occupati, e in maniera piuttosto critica, su questa Rivista ("Esecutivo forte o partito libertario?", AR n. 10), m a vale la pena di tornarvi sopra con un approccio più positivo, proprio nel momento in cui si tende, anche da ambienti meritevoli del massimo sospetto, a liquidare le tesi dello studioso socialista come espressione di mera esercitazione accademica. Un simile atteggiamento non può essere il nostro, se la logica del saper distinguere e del "comunque ragionare" premia ancora sull'immotivato pregiudizio.

La democrazia bloccata

In effetti le opinioni di Amato si fondano su una diagnosi esatta della realtà istituzionale del nostro Paese, della posizione di stallo in cui si ritrovano tutti gli attori politici. A furia di predicare (nell'impossibile ricerca di un'alternativa al principio maggioritario) la moltiplicazione dei momenti e dei luoghi di mediazione politica, si è presto passati da uno stato di "democrazia consociativa" a uno stato di "democrazia bloccata", in cui l'unica via d'uscita appare il concorso di tutte le "forze popolari" al governo. Si sostiene che una simile opzione è obbligata per via dell'"emergenza", della grave situazione economica e sociale e di ordine pubblico in cui si versa. Ma, capovolgendo i termini dell'assunto, si potrebbe anche concludere che "l'emergenza c'è perché la democrazia è bloccata".

In un simile contesto vanno valutate, senza respingerle a priori, le elaborazioni di ingegneria costituzionale (e politica) che si prefiggono di arrivare a una semplificazione del nostro sistema politico, di superare l'irrimediabile sclerosi di alcune strutture decisionali - quali i partiti nella loro attuale forma - di riconsegnare agli elettori un effettivo potere di indirizzo (e, dunque, la sovranità). E' difficilmente contestabile che nella presente congiuntura i cittadini votano, ma di fatto non decidono, con il risultato - messo in evidenza a più riprese da Giorgio Galli - che il partito di maggioranza relativa con meno del 40 per cento dei voti detiene il potere come se fosse in una situazione di maggioranza assoluta.

Indubbiamente questi argomenti e questa analisi non possono essere rimossi, anche se, come chi scrive, non si crede nella soluzione presidenzialistica, non tanto per generici motivi di cultura o di tradizione a cui amano richiamarsi i pressappochisti di turno, ma per ragioni più sostanziali. In primo luogo perché un regime presidenziale "vero" - quali che ne siano i contrappesi - non può costruirsi se non escogitando leggi elettorali le quali - anche con il ricorso alla tecnica del doppio turno - penalizzano i gruppi minoritari o creano sbarramenti all'emersione di nuove formazioni, anche se queste sono rappresentative di quegli interessi e bisogni che non trovano spazio nelle tavole di priorità dei "grandi" partiti. Inoltre, una riforma in senso presidenzialistico non è detto che riesca a trasformare la forma-partito (la qualità della partecipazione politica interna, la burocratizzazione e professionalizzazione dei quadri, la vocazione ad occupare tutti i centri decisionali, anche se periferici). Anzi, il r

ischio è proprio quello di rafforzare - magari in una dimensione di neoefficientismo - il verticismo dell'organizzazione, a detrimento di una benefica disaggregazione orizzontale.

A nostro avviso è invece opportuno riconfermare la "convenzione proporzionalistica" come la più idonea - almeno per ora - a dare peso e ruolo alle autonomie politiche, sociali e territoriali, le sole che possono conferire un senso alla promessa democratica di un'effettiva partecipazione e del concorso di tutti i cittadini alla determinazione della politica nazionale.

I rami secchi della Costituzione

Ciò non comporta che ci si debba rassegnare allo status quo. Si tratta di impostare un programma articolato di operazioni chirurgiche e di innesti vivificanti.

Si taglino i "rami secchi" della Costituzione senza uscire dalla forma di governo parlamentare, ma quanto basta per semplificare il sistema politico, per rendere a tutti percepibili i meccanismi decisionali, per dare fiato alle autonomie. Lo scopo da perseguire è immettere in un circuito decisionale rinnovato (anche perché meno ingolfato) agenti politici che sappiano incidere sulle strozzature dei soggetti di potere reale.

Ci si deve finalmente rendere conto che il bicameralismo - anche in una sua versione corretta che sembra tornare in auge (la trasformazione della Camera Alta in camera delle regioni o in camera a competenza ispettiva) - è fuori luogo e fuori tempo. L'esperienza repubblicana conferma che il ruolo del Senato è stato tutto sommato marginale; i casi in cui ha effettivamente funzionato come "camera di ponderazione" sono nell'economia di un trentennio poco rilevanti. Il fatto che il sistema politico italiano con la presenza di partiti politici centralizzati, e con la loro storica propensione a chiudere in recinto tutte le istituzioni, non potesse consentire l'affermarsi di un ruolo autonomo del Senato (o della Camera rispetto al Senato: è la stessa cosa) fu non casualmente recepito dal legislatore costituzionale che, nel 1963, decretò anche sul piano formale Ia pari durata delle due Camere e dunque la fine dell'illusione di ogni loro sostanziale differenziazione.

Il bicameralismo con il defatigante procedimento legislativo che comporta ha per lo più impedito o ritardato l'approvazione delle grandi riforme sociali e di ciò, con il consueto gioco delle parti, le forze conservatrici del Paese hanno largamente approfittato.

Un sistema monocamerale può recare invece un contributo non trascurabile alla riqualificazione e alla rappresentatività del potere legislativo, richiedendo una sua riorganizzazione (quanto, ad esempio, alla distribuzione di competenze tra commissioni e assemblea) e una rivalutazione dell'attività e delle responsabilità dei suoi membri anche in quanto singoli e non solo come "segmenti" dei gruppi parlamentari.

Che questa sia la direzione da seguire è confermato implicitamente in un documento recentemente approvato all'unanimità dalla Camera dei deputati in conclusione delle discussioni sul bilancio interno. In tale ordine del giorno, "rilevata la inadempienza degli strumenti a disposizione dei deputati per l'adempimento del loro mandato", si impegna l'Ufficio di presidenza a predisporre finalmente in favore di "ciascun" componente della Camera i servizi e le dotazioni indispensabili all'assolvimento delle proprie funzioni istituzionali. Se per una volta nella storia italiana un simile impegno venisse soddisfatto, se tutti i 630 deputati fossero messi veramente in grado, fruendo dei necessari strumenti operativi, di meglio conoscere per poter meglio deliberare, a che servirebbero altri 320 parlamentari?

In favore dell'instaurazione di un sistema monocamerale potrebbero addursi moltissime altre ragioni. Una tale semplificazione influirebbe anche sui rapporti tra Governo e parlamento; alcune delle deviazioni costituzionali (che molti interpreti tendono a considerare ormai come fisiologiche al sistema) non troverebbero più alcuna giustificazione. Si pensi solo all'abuso da parte dell'esecutivo della decretazione d'urgenza, la quale sempre più di frequente si pone come un surrogato del "disegno di legge" (che dovrebbe essere, invece, il mezzo ordinario per lo svolgimento dell'indirizzo politico): proprio perché l'eccessiva vischiosità dell'attuale procedimento legislativo rende di fatto inagibile il ricorso all'iniziativa legislativa governativa. Ci si potrebbe anche soffermare sulla rivalutazione di cui beneficerebbe, in un Parlamento monocamerale riqualificato e ristrutturato, la funzione di sindacato ispettivo nei confronti del Governo o il controllo - oggi di fatto evaso - sulla gestione dei vari enti pubbl

ici, ma in questa sede non si può fare altro che un discorso d'assieme.

L'espansione delle autonomie e del controllo

Poche obiezioni dovrebbe poi incontrare la proposta di sopprimere le province che hanno progressivamente perso le loro funzioni, tanto che nel 1980 eserciteranno la propria competenza solo in materia di viabilità. La recisione di quest'altro ramo secco è una premessa per una ridefinizione dei livelli del governo locale, mentre i tentativi di rivalutare le province delegando ad esse alcune funzioni spettanti alle regioni (l'ipotesi non è esclusa dalla "proposta di attuazione legislativa del programma regionale di sviluppo" della Lombardia), probabilmente non sortirebbe altro effetto che quello di salvare una burocrazia in via di salutare estinzione.

Anche nell'ambito regionale e periferico l'esigenza è quella di semplificare al massimo. Dopo quasi dieci anni di sperimentazioni, di elaborazioni ed anche di improvvisazioni sul riassetto degli enti locali, è tempo di arrestare la frenesia della loro moltiplicazione (attraverso operazioni varie di accorpamenti e successivi scorpori: consorzi, comunità montane...). Che senso ha, ad esempio, continuare a predicare la separazione tra momenti di programmazione e momenti di gestione, se non quello di rendere improbabile un effettivo esercizio del controllo politico da parte degli amministrati?

Ecco, proprio l'esigenza di un controllo politico diffuso e reale, di cui devono riappropriarsi i cittadini - sia come singoli sia in quanto associati - (dopo la mitica stagione ormai in esaurimento di una partecipazione consiliare inesistente perché fagocitata dalle burocrazie di partito) è il leit-motiv delle considerazioni che si vanno proponendo. E, a questo punto, è inevitabile che ritorni il tema della democrazia diretta, del referendum in particolare. Il suo impiego, tanto a livello nazionale quanto a livello locale, non può continuare ad essere considerato come fattore di destabilizzazione, bensì di diffusione del potere, di mobilità e di aggregazione politica sostanziale. Per questo, contrariamente all'opinione da più parti espressa, i referendum non indeboliscono, ma rafforzano la "democrazia dei partiti". Certo, occorre che il partito-burocrazia ceda il passo al partito-società: ma non è forse questo l'obiettivo a cui dichiarano di tendere tutti, comunisti compresi?

Democrazia diretta e referendum non significano necessariamente "solo" referendum abrogativo, tanto più che questo istituto è uscito piuttosto malconcio dal "ridimensionamento" che ha subito ad opera della Corte costituzionale.

L'allargamento della democrazia diretta, come esercizio di controlli non solo negativi, ma anche positivi, richiederebbe dunque una revisione della Costituzione e degli Statuti regionali: un "innesto", come sopra si anticipava. Ripescando una vecchia idea, poi abbandonata in sede di Costituente, parrebbe utile inserire nell'ordinamento il "referendum costitutivo" (cioè attribuire al popolo il potere di esprimersi direttamente sui progetti di legge presentati da frazioni del corpo elettorale e sui quali il Parlamento o i Consigli regionali non abbiano deliberato entro un congruo termine). Se il ricorso al referendum abrogativo appare "riduttivo" o "parziale", se può essere utilizzato in "modo spregiudicato" anche per fini di mero "disturbo" politico, perché non reinventare un istituto che provi la capacità "costruttiva" degli elettori?

Un tale pacchetto di "ritocchi" costituzionali, di fronte all'ipotesi presidenzialistica, potrebbe apparire minimalista. Ma così non è, se si pensa che le modifiche prospettate sarebbero sufficienti a garantire l'espansione (e la rimessa in circuito) delle autonomie politiche e territoriali, un reale decentramento e la diffusione di responsabilità effettive, con una pressione determinante sulle situazioni istituzionali in patologica condizione di stallo. I partiti politici se non vogliono rimanere travolti da altre forme di aggregazione politica e sociale sarebbero costretti a ripensare se stessi.

 
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