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Barbera Augusto - 30 gennaio 1980
RIFORME COSTITUZIONALI SI', NEL SISTEMA
di Augusto Barbera

SOMMARIO: Barbera risponde a Bettinelli obiettando che non è possibile far fronte alla frantumazione ed alla disgregazione della società ed alla crisi del modello neocorporativo innescando un nuovo ordine sul vecchio da spazzar via. Esprime la sua grande sfiducia per la proposta di "grande riforma costituzionale" e pensa sia necessario partire da quel processo di riforma democratica già in atto nel Paese, dal 1970 in poi, sotto la spinta del movimento operaio uscito dal chiuso della fabbrica.

Le riforme istituzionali devono tendere ad un duplice scopo: rilanciare e rafforzare quella strategia di sviluppo della democrazia; dare uno sbocco decisionale, anche attraverso una più attenta politica delle istituzioni, alla democrazia del Paese. Propone poi varie correzioni istituzionali tra cui la trasformazione del bicameralismo.

(ARGOMENTI RADICALI, BIMESTRALE POLITICO PER L'ALTERNATIVA, Novembre 1979 - Gennaio 1980, N. 14)

Su due punti sono in pieno accordo con Bettinelli: 1) le riforme istituzionali devono tendere non all'avvento di una seconda Repubblica ma rappresentare la ricerca delle condizioni per far funzionare meglio "questa" Repubblica; 2) esse possono comportare (e per alcuni aspetti "devono") alcune modifiche della Costituzione ma tali da non stravolgerne lo spirito e l'assetto complessivo; 3) non è possibile ridurre il "sociale" all'"istituzionale" e l'"istituzionale" al "governativo".

Su questo punto, invece, manca l'accordo con il mio interlocutore: non v'è dubbio che i partiti politici soffrano una crisi di "centralità", talvolta portati più a "meditare" che a "governare", più a "occupare" che a "dirigere", non sempre in grado di recuperare la necessaria carica di progettualità, di creare le necessarie tensioni ideali attorno a progetti-obiettivo. Ma come è possibile far fronte alla frantumazione e alla disgregazione della società e alla crisi del modello neocorporativo degli anni settanta? Come innescare un nuovo ordine sul vecchio da spazzare via? Accrescendo l'autonomia del "sociale" dal politico ovvero recuperando il ruolo di sintesi e di direzione dei partiti politici?

Quanti mitizzano la società civile come il regno dell'armonia prestabilita (mi riferisco anche a settori del mondo cattolico, in questo vicini a certe posizioni radicali) si sono chiesti quale sarebbe la forza di disgregazione di interessi non filtrati dalla intermediazione partitica? Non dimentichiamo che negli USA i gruppi di interesse sono soggetti politici primari e che i partiti, non in grado di farsi portatori di progetti politici, altro non sono che un involucro organizzativo dei vari gruppi di interesse in lotta.

Ma, a parte questa diversa impostazione di fondo, non vedo avanzate dal mio interlocutore tutta una serie di proposte fiorite in questi anni che, come scopo prevalente, tendevano a colpire la forma "partito": le proposte per un intenso controllo sulla vita interna dei Partiti (i "diritti del militante"); le primarie di Stato; l'utilizzazione della Corte Costituzionale e del Capo dello Stato come "cheks" al potere dei partiti; le incompatibilità tra cariche di partito e cariche parlamentari (dello stesso segno, del resto, talune versioni delle proposte maggioritarie o presidenzialistiche). La stessa utilizzazione dei referendum - lo sottolineerò più avanti - non è presentata in chiave di "strategia alternativa" alle altre espressioni della sovranità popolare.

Ma andiamo alle proposte di riforme istituzionali avanzate.

Non ho mai guardato con simpatia e fiducia alla proposta di "grande riforma costituzionale". E che di fiducia questa proposta, peraltro vaga e mai precisata, ne meritasse poca sta a dimostrarlo la fine che essa sembra avere avuto, dopo i sussulti iniziali. Ma se si vuole dare un senso ad essa, come a qualunque altra organica proposta, due cose bisogna precisare innanzitutto. In primo luogo che la grande riforma istituzionale si deve, se mai, porre non come l'ora x per le istituzioni, ma come il risultato di una serie di comportamenti (parlo di "comportamenti" riferendomi anche alla necessità di ripristinare il rispetto di precise regole del gioco) e di riforme, e per alcuni settori anche di microriforme, coerenti e incisive, rapide ed efficaci, basate sul consenso ma in grado anche di spezzare resistenze settoriali e corporative.

In secondo luogo occorre precisare che un processo di riforma democratica dello Stato è da tempo in atto nel Paese, dal 1970 in poi, sotto la spinta di un movimento operaio uscito dal chiuso della fabbrica e che, sia pure a fatica, incomincia a confrontarsi in maniera più ravvicinata con il tema delle istituzioni. "E' da qui che bisogna partire"; dai risultati conseguiti, e dai limiti incontrati, dagli errori commessi. E' questo l'asse su cui appoggiarsi per dare forza e coerenza al processo riformatore.

La democratizzazione della società

Quali i punti di forza di questa strategia: a) lo sviluppo di tutta la rete delle assemblee elettive (dal quartiere al Parlamento, come è stato detto con una espressione ormai rituale); b) l'intreccio delle forme della rappresentanza politica con momenti di democrazia diretta sia dei cittadini (forme di gestione sociale dei servizi, consigli di zona ecc.); c) lo sviluppo di una rete di garanzie che assicuri attraverso spazi di libertà di lavoratori, cittadini, studenti la via per trasformare dall'interno la fabbrica, la scuola, la famiglia, i corpi separati.

Una strategia, questa, che supera i modelli classici della democrazia liberale che incentrava essenzialmente nelle assemblee parlamentari le espressioni della sovranità popolare e che ha consentito l'acquisizione di risultati di rilievo: la istituzione delle Regioni, dei quartieri, delle comunità montane; il notevole ampliamento dei poteri dei Comuni; il decreto n. 616; lo smantellamento di migliaia di enti inutili o inutilmente interferenti con i poteri delle assemblee elettive; l'impianto istituzionale della riforma sanitaria; gli organi collegiali della scuola; la riforma dei servizi di sicurezza; l'avvio della riforma di polizia; le forme istituzionali in cui si è progressivamente (anche se con non pochi aspetti contraddittori) concretato il tema della "centralità" del Parlamento (poteri delle Commissioni parlamentari in ordine ai servizi di sicurezza o agli interventi nel Mezzogiorno, alle partecipazioni statali, alla Rai-TV, alla gestione del bilancio dello Stato, alle nomine negli enti pubblici). Cont

emporaneamente la crescita di soggettività degli anni settanta, che è uno degli effetti positivi della nuova collocazione del movimento operaio dal '69 in poi, ha consentito di ampliare il catalogo delle libertà (andando al di là dello stesso testo costituzionale in qualche occasione): diritti all'interno della fabbrica con lo Statuto dei lavoratori, all'interno delle caserme con la legge sulla disciplina militare, all'interno delle carceri con la pur mutilata riforma carceraria; l'obiezione di coscienza; le nuove dimensioni assunte dalla libertà di informazione (Radio e TV locali; comitati di redazione); la legge sulla psichiatria; la crescita di soggettività di giovani e donne (voto ai diciottenni, parità, il nuovo diritto di famiglia); il divorzio; l'aborto; le nuove frontiere aperte per anziani e minori da avanzate leggi regionali.

Questo processo, per ragioni che sarebbe troppo lungo qui ripercorrere, ha avuto momenti di offuscamento: scaduta la partecipazione, appannate le autonomie, impantanato il Parlamento, corporativizzate alcune battaglie per la riforma dei corpi separati, offuscati alcuni collegamenti fra battaglie per le libertà e battaglie per la trasformazione (la crescita di soggettività sta vivendo momenti di esasperazione e di regressione individualistica). Ma rimane l'unica strategia di riforma democratica percorribile. Le riforme istituzionali devono tendere ad un duplice scopo: rilanciare e rafforzare questa strategia di sviluppo della democrazia; dare uno sbocco decisionale, anche attraverso una più attenta politica delle istituzioni, alla democrazia di base.

Proprio per il perseguimento di questo duplice obiettivo (che comporta il passaggio dalla mera "rappresentanza" alla "decisione") bisogna acquisire piena consapevolezza dei limiti della strategia di riforma istituzionale fin qui seguita, e inserire le correzioni necessarie. Il poco spazio a disposizione non ci consente approfondimenti. Vado per rapidi cenni.

I momenti di aggiustamento della strategia che fa perno sull'asse delle assemblee elettive possono così sintetizzarsi: a) rafforzamento degli esecutivi. Un'assemblea può esplicare in pieno i propri poteri di indirizzo e controllo nella misura in cui ha in posizione dialettica un esecutivo autorevole e robusto. Il confronto fra debolezze contrapposte porta altri soggetti a occupare il vuoto lasciato. La centralità del Parlamento e delle altre assemblee elettive non viene vanificata, ma esaltata da un esecutivo che funzioni come momento di sintesi e di raccordo; b) maggiore attenzione al ruolo insostituibile degli apparati amministrativi, per evitare forme di separazione ma anche per evitarne la mortificazione. Lo scarto fra la volontà che matura nelle assemblee elettive e la capacità di realizzazione è ancora troppo accentuato (ancora più evidente nelle amministrazioni gestite dalle sinistre); c) ricerca di un più intenso e organico collegamento delle assemblee fra loro, per evitare fenomeni nuovi di scollame

nto e frantumazione (Camera e Senato; Parlamento - assemblee regionali; assemblee regionali e locali; Consiglio comunale-quartieri); d) definizione di un più corretto rapporto partiti-assemblee elettive al fine di evitare che l'espansione del potere delle assemblee elettive si traduca in un'espansione del potere dei partiti (e non in un'espansione della sovranità popolare rispetto alle degenerazioni corporative e agli scollamenti dei corpi separati e del sistema delle amministrazioni parallele); e) precisare meglio il collegamento fra forme della rappresentanza politica, quali si realizzano nelle assemblee elettive, e gli strumenti di democrazia diretta; f) passare dalla fase puramente garantista della tutela dei diritti di libertà a una fase più ricca e articolata che, senza toccare le garanzie, le inserisca in più pregnanti "istituzioni per le libertà" (centri stampa, centri civici a disposizione di tutte le forze politiche e culturali, sviluppo delle associazioni, azioni popolari, servizi vari e così via)

, in grado di promuovere l'ulteriore sviluppo dei diritti di libertà (e non solo la loro garanzia) e la tutela di interessi diffusi.

Una proposta di correzioni istituzionali

Puntare soltanto sulle assemblee elettive e sulle forme di partecipazione consiliare è riduttivo: occorre favorire forme di partecipazione e di controllo politico sia delle categorie sia di associazioni, gruppi, movimenti collettivi, minoranze intense, portatori di interessi alternativi rispetto a quelli che percorrono i normali canali di trasmissione della domanda politica (tutela dell'ambiente, dei consumatori, del patrimonio artistico, della salute e dei bisogni essenziali). Ma questo è un punto che tratterò in altra occasione.

E' in questa cornice di successi conseguiti e di debolezze, sia pratiche che tecniche da superare (che è peraltro il modo più corretto per evitare l'astratta ingegneria istituzionale), che vanno inserite le riforme istituzionali necessarie. Ne dò una rapida elencazione schematica. In riferimento al "punto a": rafforzamento dei poteri del Presidente del Consiglio, sia attraverso l'attuazione dell'art. 95 e sia attraverso l'eventuale modifica del sistema di nomina e di conferimento della fiducia al governo (per es. trasformazione della fiducia in un voto sul programma e sulla persona del Presidente del Consiglio, lasciando ad esso piena autonomia nella scelta dei collaboratori); accorpamento dei Ministeri per settori organici; superamento della giungla dei comitati interministeriali e rafforzamento del Consiglio dei Ministri; delegificazione di alcune materie e recupero delle funzioni di indirizzo del Parlamento (evitando forme di "cogestione" che mortificano sia il Governo sia il Parlamento; discorso analogo

può farsi per le assemblee regionali e locali).

In riferimento al "punto b": superamento sia della concezione separata, gerarchica e deresponsabilizzante delle attuali strutture amministrative, sia delle forme di "politicantismo" e di subordinazione (una "qualifica funzionale" rettamente intesa e non distorta a fini corporativi; ruoli unici; valorizzazione della dirigenza e della professionalità); superamento della giungla retributiva e approvazione della legge quadro sul pubblico impiego; eliminazione dei controlli superflui, introduzione dei controlli di gestione, precisazione delle responsabilità.

In ogni caso i punti a) e b) vanno collegati insieme: avere attenzione solo agli apparati di governo trascurando gli apparati amministrativi e i problemi di efficienza ed efficacia della loro azione è miopia tuttora presente nella sinistra, (e purtroppo l'infelice intervista di Giannini ci fa correre il rischio di compiere dei passi indietro rispetto al dibattito che l'ottimo "Rapporto" dello stesso Ministro aveva cominciato ad avviare).

In riferimento al "punto c") vanno precisati due aspetti. In primo luogo: evitare che il bicameralismo si presti ad ostruzionismi sia di maggioranza che di minoranza, rallenti inutilmente il processo legislativo, consenta a partiti e Governi di inserirsi nei varchi aperti dalla mancanza di un unico centro autorevole, snello e politicamente qualificato quale sarebbe dato da una sola Camera. In secondo luogo, evitare che, da un lato, il settorialismo derivante dai non infrequenti connubi tra apparati politico-burocratici di settore - commissioni di settore - gruppi di interesse, stravolga la riforma regionale, mortificando le assemblee regionali e locali, togliendo ad esse spazio normativo, settorializzandone e frantumandone l'attività, riducendo le autonomie a centri erogatori di spese predeterminate minuziosamente dal centro. Ed evitare, dall'altro, che le attività regionali e locali siano del tutto avulse da programmi ed indirizzi centrali, che le assemblee elettive locali portino a nuovi fenomeni di disgre

gazione e frantumazione. Un metodo di legislazione basato su leggi "polisettoriali" per grandi obiettivi potrebbe dare ordine sia alla pratica legislativa del Parlamento sia alla attività delle assemblee legislative regionali.

Ma è in grado l'attuale sistema dei rapporti politici di pervenire a una legislazione per leggi organiche (necessarie anche secondo i suggerimenti della Commissione sulla "giungla retributiva" nel settore della Pubblica Amministrazione)?

Una riforma istituzionale, da attuare forse anche attraverso la sola modifica dei regolamenti parlamentari, potrebbe spingere in questa direzione, non sostituirsi a una assente volontà politica (non sono le leggine che impediscono le grandi leggi di programmazione e di riordino ma - è stato già rilevato in altre sedi - è vero il contrario: è l'assenza di queste ultime a sollecitare la produzione delle prime).

Per quanto riguarda le assemblee locali concordo pienamente con Bettinelli nell'auspicare che si arrivi presto ad una riforma organica delle autonomie locali per evitare la giungla degli organismi intermedi, che paralizzano, si sovrappongono, lasciano vuoti e spazi che altri provvede a colmare. D'accordo sulla soppressione dell'"attuale" Provincia, ma se deve nascere uno, ed uno solo, ente intermedio, con compiti di promozione, poco importa quale sia il suo nome (Provincia o Comprensorio), purché sia chiaro che la creazione del nuovo ente intermedio (di numero necessariamente superiore all'attuale) non moltiplichi gli apparati periferici dello Stato (che per la Costituzione devono far capo al Commissario di governo non ai Prefetti, che la Costituzione non menziona espressamente).

La trasformazione del bicameralismo

E veniamo al bicameralismo. Esso non ha senso in uno Stato che non è federale (Senato americano, Bundesrat tedesco, ecc.) e che non riconosce diritti e seggio a particolari ceti o categorie (Camera dei Lords, o Camere corporative).

Quindi una sola Camera con poteri di indirizzo politico (se non ostasse la tradizione, sarebbe preferibile sopprimere la Camera dei deputati, non il Senato: i senatori sono in numero ottimale - 315 - ed eletti con un sistema elettorale che attenua la degradante lotta per le preferenze).

Però mi pare indispensabile - è una convinzione che ho acquisito vedendo dal di dentro il modo talvolta superficiale di lavorare delle Camere - una seconda Camera che, senza avere poteri di indirizzo, assicuri una "seconda lettura" delle leggi, fermo restando che spetterà solo alla Camera dotata di poteri di indirizzo politico, e quindi di diretta investitura popolare, la decisione finale in ordine alle "proposte" di emendamento formulate dalla Seconda assemblea.

Come comporre questa seconda Camera? Si tratta di passare innanzitutto dalla visione di una seconda Camera come strumento di "garanzia" originariamente prevista dal Costituente su sollecitazioni delle correnti cattoliche (prima interessate ad una Camera corporativa poi a un Senato rappresentativo delle Regioni, per ripiegare infine su un Senato che avesse durata diversa e diverso elettorato rispetto all'altra Camera: differenziazione caduta nel 1963) ad una seconda Camera di "riflessione" con compiti relativi al solo procedimento legislativo (e solo, ad esempio, per le leggi non dichiarate urgenti dalla prima Camera).

Una volta accettata questa funzione della seconda Camera, non sarà difficile pensare alla composizione. Si potrebbe anche pensare "alla formazione di una seconda Camera in modi più espressivi della "base regionale" indicata della Costituzione" (v. da ultimo Perna su "Rinascita,, del 21 ottobre 1979 e Amato su "Mondoperaio,, del 1979, fascicolo 4), affidando ai Consigli regionali la scelta e di propri rappresentanti e di rappresentanti di particolari categorie.

Ma non dimentichiamo i problemi dell'"oggi". Proprio su questa rivista sento il bisogno di sottolineare l'esigenza di arrivare ad una rapida riforma dei regolamenti parlamentari per eliminare mali vecchi e mali recenti. Fra i primi l'eccessiva settorializzazione delle Commissioni, lo scarso collegamento istituzionale con le forze sociali e le autonomie territoriali, la farraginosità delle procedure; fra i secondi l'uso esasperato degli strumenti regolamentari a scopi ostruzionistici. L'ostruzionismo si dice dettato, per esempio, dall'abuso di decreti-legge, ma i ritardi legislativi portano all'ulteriore necessità di ricorrere ad altri decreti-legge (o non poche volte forniscono alibi a un Governo che vive alla giornata e ha bisogno della decretazione di urgenza come strumento privilegiato di iniziativa legislativa).

In riferimento al "punto e"), trovo equilibrate le posizioni di Bettinelli sull'uso politico del referendum. Mi sembra che egli ritenga giustamente destinato a fallimento (o mi sbaglio?) l'uso dei referendum come strategia alternativa rispetto al sistema di mediazione politica dei partiti su cui si è retta la politica del partito radicale. Se il referendum può anche talvolta integrare le altre forme di espressione della sovranità popolare o correggere soluzioni "manipolate dai partiti", perché non avere presente che il referendum si può prestare ad altre manipolazioni (no mi riferisco solo a De Gaulle) e che può essere manipolata dai mass-media anche una campagna referendaria?

Le proposte di Bettinelli sotto questo profilo possono essere interessanti (salvo una verifica di non trascurabili modalità procedurali): anche perché recuperano la funzione di stimolo che le richieste di referendum hanno fin qui avuto su un legislatore spesso distratto ed inerte.

Ma anche questo è un punto sul quale occorre che la Sinistra e il movimento operaio riflettano di più e recuperino i ritardi accumulati. Una cultura della trasformazione esige anche una politica "delle" istituzioni e non solo una politica nel sociale e nelle istituzioni.

 
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