di Agostino VivianiSOMMARIO: La crisi dell'ordine pubblico si inserisce in un più generale contesto di crisi che vede protagoniste anche la giustizia l'economia, tutte le istituzioni. La terapia messa in atto per risolvere la crisi è stata di segno nettamente opposto a quella che il momento richiede da parte di uno stato democratico. Viene presa ad esempio la pena per un attentato alla vita della persona per fine di terrorismo che è maggiore di quella che il sistema prevede per l'omicidio d'onore o per l'omicidio preterintenzionale. C'è poi il fermo di polizia che falsando la lettera e lo spirito della Costituzione si vuole addirittura previsto da essa.
(ARGOMENTI RADICALI, BIMESTRALE POLITICO PER L'ALTERNATIVA, Novembre 1979 - Gennaio 1980, N. 14)
Non può davvero negarsi che l'ordine pubblico sia in crisi; bisogna anzi riconoscere che essa sta giungendo al limite del parossismo.
Dobbiamo aggiungere che la constatazione non desta meraviglia quando si tenga presente - sia pure con molta amarezza - che nel nostro Paese tutto è in crisi: è in crisi la giustizia, è in crisi l'economia e - quello che è ancora peggio - sono in crisi tutte le istituzioni che non riescono a svolgere il loro compito. La crisi dell'ordine pubblico, quindi, fa parte di un generale contesto, cui è strettamente e - purtroppo indissolubilmente - legata. Questa verità lapalissiana è completamente sfuggita ai signori del Palazzo che, in tutti i campi, hanno tentato terapie miopi e, di conseguenza, completamente inadeguate, per cui le istituzioni non hanno la meritata dignità e la necessaria efficienza, l'economia un minimo di programmazione e di effettivo e concreto orientamento, la giustizia l'indispensabile credibilità e l'ordine pubblico un contenuto di autentica forza democratica, capace di garantire una pacifica convivenza in un contesto favorevole allo "sviluppo della persona umana" ed alla "effettiva partecip
azione di tutti i lavoratori alla organizzazione politica, economica e sociale del paese" (art. 3 cpv. Costituzione).
Per rimanere all'ordine pubblico - che è il nostro tema - diremo che la terapia messa in atto per risolvere la crisi è stata ed è di segno nettamente opposto a quella che il momento richiede da parte di uno Stato che ha l'ambizione di volere essere democratico in ogni stagione e non soltanto quando il barometro punta sul sereno. Da ciò l'insuccesso, purtroppo clamoroso, ormai da tutti riconosciuto, ma a suo tempo inutilmente previsto da parte di chi invano cercò di mettere sull'avviso Parlamento e Governo. L'errore macroscopico è stato quello di aver voluto affidare la soluzione di un problema complesso e delicato (anche perché concernente diritti fondamentali del cittadino) come è quello dell'ordine pubblico, ad una legislazione incolta, rozza, grossolana, che tutto riduce ad un uso sempre più pesante dello strumento della repressione. Le conseguenze negative sono soprattutto giunte senza ritardo con il peggioramento della situazione. A questo punto - sul piano del buon senso - c'era da aspettarsi un ravved
imento; ma non è stato così. Neppure la realtà è servita ad aprire gli occhi ai nostri improvvidi governanti che imperterriti continuano per la loro strada, come dimostrano i recenti provvedimenti legislativi. Questa volta, quindi, la profezia dell'insuccesso - data l'esperienza tristemente vissuta - è ancora più facile. Ciò che rimane oscuro è la ragione per cui si vuole proseguire su una strada sicuramente sbagliata.
Perché tanta cocciuta ostinazione?
Il quesito non è di facile soluzione, anche perché manca ogni dialettica a questo proposito. La pesante maggioranza (della quale costituiscono il perno la DC e il PCI) non ama dialogare; sorda ad ogni intervento che non sia di approvazione, esprime la sua intolleranza addirittura affermando che chi non approva i provvedimenti proposti favorisce - se non altro obiettivamente - il terrorismo. L'accusa è troppo demagogicamente strutturale per poter essere presa in seria considerazione; comunque sicuramente non tocca i radicali che poggiano la loro ideologia propria sulla non - violenza. Nessuno più di noi è contrario a qualsiasi strumento che non si richiami alla forza della ragione; pertanto certe accuse o espresse o velate non ci toccano. La verità è che il terrorismo, non diciamo si combatte, ma neppure si lambisce aumentando le già pesanti pene, istituendo il fermo di polizia, creando ipotesi delittuose dai confini incerti, che finiscono per criminalizzare il dissenso, dilatando i termini di carcerazione pr
eventiva fino a ridurli ad una beffa, perseguitando la vittima del delitto ed i suoi familiari.
E valga il vero.
Chi sfida lo Stato, chi si dà alla clandestinità, chi riduce la sua esistenza al delitto, chi ogni giorno rischia la vita, può avere la folle speranza di riuscire ad abbattere l'attuale organizzazione statuale, può anche augurarsi - data la scarsa efficienza della polizia e della magistratura - l'impunità, ma certamente non punta (addirittura non gli interessa puntare) su qualche anno in più o in meno di reclusione. Questi aumenti, per di più solo per alcuni delitti, servono esclusivamente a creare una insopportabile disarmonia nel sistema delle pene che bolla la nostra legislazione di iniquità, oltreché di offese alla logica giuridica.
Un esempio?
Che senso ha infliggere per un "attentato" (espressione pericolosamente vaga, in cui può ben farsi rientrare un comportamento che non raggiunge neppure gli elementi tipici del tentativo) alla vita della persona per fine di terrorismo o di eversione dell'ordine democratico, una pena maggiore di quella che il sistema prevede, non solo per l'omicidio a causa d'onore, ma anche per l'omicidio preterintenzionale? Sono aberrazioni che offendono e fanno perdere di credibilità le istituzioni, senza dare alcun apporto alla sacrosanta lotta al terrorismo.
E cosa mai si crede di realizzare con il famigerato fermo di polizia?
Falsando la lettera e lo spirito della Costituzione si vuole (speriamo per sola ignoranza) che questa specie di fermo sia addirittura previsto dalla Carta costituzionale, fingendo di non accorgersi che i "provvedimenti provvisori" di cui all'art. 13 della Costituzione si riferiscono ai casi in cui l'autorità giudiziaria può ("per atto motivato", "e nei soli casi e modi previsti dalla legge") provvedere alla "restrizione della libertà personale". In queste ipotesi, e solo in queste ipotesi, se ricorrono circostanze di eccezionale necessità e urgenza "tassativamente" indicate "dalla legge" l'autorità di pubblica sicurezza può intervenire e provvedere. Evidentemente si tratta dei casi in cui l'autorità giudiziaria potrebbe assumere provvedimenti circa la libertà della persona ma non le è possibile farlo nella immediatezza. Allora - nei casi "tassativamente" previsti dalla legge - può soccorrere l'opera dell'autorità di pubblica sicurezza.
Il riferimento, dunque, è non al fermo di polizia ma a quello giudiziario, che è già nel nostro sistema (art. 238 c.p.p.) per cui - contrariamente a quanto si sostiene - la Costituzione non solo non prevede, ma piuttosto esclude il fermo di polizia, giacché l'eccezione al principio solennemente proclamato dallo stesso art. 13 ("la libertà personale è inviolabile" riguarda il fermo giudiziario e non è consentito all'interprete applicare le leggi "che fanno eccezione a regole generali" "oltre i casi e i tempi in esse considerati" (art. 14 disposizioni sulla legge in generale).
Ma, a parte la pur decisiva questione costituzionale, l'art. 6 del decreto che prevede il fermo di polizia, anche secondo le modificazioni - d'altronde peggiorative apportate dal Senato - non specifica affatto (altro che "tassativamente"!) i casi in cui si può procedere al fermo stesso, affidandosi invece, e con estrema imprudenza, a frasi generiche, imprecise, vaghe, capaci solo di aprire la strada del peggiore arbitrio. E valga il vero. Secondo il citato art. 6 "gli ufficiali e gli agenti di pubblica sicurezza possono procedere al fermo di persone nei cui confronti, per il loro atteggiamento e in relazione alle circostanze di tempo e di luogo si imponga la verifica della sussistenza di comportamenti ed atti che, pur non integrando gli estremi del delitto tentato, possono essere tuttavia rivolti alla commissione dei delitti indicati nell'art. 165 per il codice di procedura penale o previsti negli artt. 305 e 416 del codice penale". Pertanto per la legittimità del fermo basta un "atteggiamento" e cioè l'assu
nzione da parte dell'individuo di una posizione o di una espressione che desti sospetto. Basterà quindi il modo di camminare, di guardare, di gestirsi, di sorridere; il che significa che basterà tutto e niente. Né si dica che la norma lega l'atteggiamento ad un comportamento, perché così non è; anzi il comportamento è escluso in quanto in relazione alla persona fermata per l'atteggiamento si condurrà "la verifica della sussistenza di comportamenti ed atti". Evidentemente se si deve compiere una verifica, all'atto del fermo non esiste né un comportamento né un atto capace di destare sospetto. E' vero che la norma lega l'atteggiamento a "circostanze di tempo e di luogo"; ma la genericità anche di questa espressione non offre alcuna garanzia. Basterà la notte e la vicinanza (anche questa relativa) di una scuola, di una caserma, di un Ministero, di un edificio pubblico, dell'abitazione di un uomo importante perché si realizzi la possibilità del fermo. Il decreto parlava di indizi di atti preparatori; era una for
mula che non offriva garanzie per la sua genericità e per la incertezza del concetto di atto preparatorio. Occorre riconoscere, però, che la formula inventata dal Senato è ancora più evanescente e pericolosa, capace di esporre qualsiasi cittadino ai più odiosi abusi da parte della polizia. Sappiamo bene che con questa formula s'intende porre il cittadino - così ridotto al ruolo di suddito - ad essere alla mercé della polizia; almeno, però, si sarebbe potuto avere il coraggio di dirlo, senza ricorrere ancora una volta alla ipocrisia che è la costante dei nostri governanti. Non meraviglia che su questa strada cammini la democrazia cristiana; non è da ora. Desta invece invincibile stupore che essa abbia come compagni di strada il partito comunista italiano ed il partito socialista italiano. A questi disinvolti partiti di sinistra va detto che purtroppo - proprio per il loro comportamento - si profila all'orizzonte il triste giorno in cui dovranno riconoscere (ahimè troppo tardi) di avere costruito con le loro m
ani la frusta anche per il loro sedere. Lo spazio tiranno ci proibisce un esame approfondito ed accurato dell'intera normativa.
Tuttavia non si può non accennare come il decreto conferisca alla polizia pure il delicato potere di procedere a perquisizioni domiciliari di qualsiasi persona, morigerata che sia, solo perché la sua abitazione si trova in un edificio o in un blocco di edifici dove si abbia il "fondato motivo di ritenere che si sia rifugiata la persona ricercata o che si trovino cose da sottoporre a sequestro o tracce che possono essere cancellate o disperse (art. 9 decreto). Né si dica che il Senato ha modificato il decreto nel senso che di regola occorre l'autorizzazione - sia pure solo telefonica - del Procuratore della Repubblica. Infatti, a parte l'estrema difficoltà di valutare la situazione attraverso una conversazione telefonica, il principio è praticamente annullato dal capoverso della stessa norma, allorché si afferma che l'autorizzazione non occorre "quando ricorrano motivi di particolare necessità e urgenza che non consentono di richiedere il decreto di perquisizione". Quindi non basta più essere la quintessenza
della persona ligia alle leggi, ai regolamenti, agli ordini; non basta più poter garantire dei propri familiari, dei propri conviventi, degli amici che frequentano la casa. Se c'è il "motivo" sia pure "fondato", che nelle vicinanze ("edifici", o "blocchi di edifici") vi sia una persona da fermare o qualcosa da sequestrare o qualche traccia, non si sa bene di che, la casa della persona, anche di costumi i più eccellenti, può essere messa a soqquadro, quando addirittura non gli sia inibito di rientrarvi, giacché "nel corso di tali operazioni e fino alla loro conclusione può essere, altresì, sospesa la circolazione di persone o di veicoli nelle aree interessate". Così vengono rispettati i principi costituzionalmente garantiti e della inviolabilità del domicilio (art. 14 Costituzione) e della libera circolazione (art. 16 Costituzione).
Ma ciò che sconvolge ancora di più è l'improntitudine che si manifesta nel sostenere che una normativa del genere è rispettosa della Costituzione; non si pretende che ad uomini capaci di affermazioni del genere il popolo possa dare alcun credito.
Si esalta tanto la certezza del diritto; un indubbio valore da difendersi, sia pure entro certi limiti, nel senso che esso non deve inibire alla giurisprudenza di correggere interpretazioni errate e di evolvere con i tempi, sia pure nei limiti rigorosi ed insuperabili della legge, tuttavia soggetta a interpretazioni ben diverse a seconda che lo Stato sia retto da un regime fascista o da un regime democratico, abbia o non abbia a suo fondamento una Costituzione garantista, socialmente progredita, aperta ad ampie riforme sociali. Ma come si osa parlare di certezza del diritto quando il legislatore si diletta di sfornare norme dai confini incerti, per non dire indecifrabili? Molte disposizioni della nuova normativa (esempi: artt. 2, 3, 4, 9 del decreto; artt. 2, 9, 16 del disegno di legge) pongono come elemento caratterizzante la "finalità" "di eversione dell'ordine democratico". E' una formula evanescente nella quale si può fare rientrare tutto o nulla, a piacimento (ma è proprio questo che si vuole!) aprendo
così la porta all'arbitrio.
Dire male del generale Dalla Chiesa, costituisce eversione dell'ordine democratico? Affermare che il generale Corsini, comandante dei carabinieri, avrebbe fatto bene ad astenersi dallo svolgere la funzione di consigliere del Parlamento e del Governo, funzione che non gli spetta, costituisce eversione dell'ordine democratico? Assumere che sarebbe l'ora di rispettare la Costituzione e di attuarla nella parte sociale, rappresenta anche questo un esempio di eversione dell'ordine democratico? Ed invocare una riforma fiscale che faccia pagare le tasse a tutti e non solo a chi ha un reddito fisso, che significato mai può avere? E se a qualcuno venisse in mente di dire o magari anche di scrivere che dobbiamo lottare (naturalmente con mezzi leciti e, quindi, non violenti) per raggiungere una società socialista cadremmo nella eversione dell'ordine democratico? Specialmente in momenti gravi, quali quelli che attraversiamo, la chiarezza della norma appare essenziale; proprio quello che la normativa in esame non fa, fors
e non vuole fare. Questa è la via attraverso la quale si giunge a criminalizzare il dissenso, così come fa, ad esempio, l'art. 2 del disegno di legge di iniziativa governativa - modificato dal Senato - che ha come elemento materiale la detenzione "di documenti o cose obiettivamente rilevanti", "al fine di commettere un delitto per finalità di terrorismo o di eversione dell'ordine democratico". Si domanda: di fronte al rinvenimento di libri, di giornali, di volantini che inneggiano alla rivoluzione, che esaltano le stesse brigate rosse, materiale che una persona qualsiasi può avere presso di sé per ragioni di studio, di curiosità o per mille altre ragioni, come si potrà stabilire che questo materiale è tenuto ai fini sopra indicati? Come si scopre l'interno proposito? Evidentemente ci si affida alla polizia; all'assunzione delle sommarie informazioni che essa può effettuare. E' in questo modo che fatalmente si arriva a creare prima il colpevole e poi la prova. Né è lecito, in un'organizzazione statuale che no
n voglia beffarsi, in un modo clamoroso, dei diritti fondamentali del cittadino, varare una norma ignorabile con la quale si codifica che una persona, penalmente perseguita, può essere trattenuta in galera, se indiziata o imputata di grave delitto, per 12 anni (ed oltre, per le inventate sospensioni delle decorrenze del termine) prima di sapere se è innocente o colpevole. E ciò in un sistema che, dopo avere affermato nella Costituzione l'elementare principio che "i funzionari ed i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione dei diritti" (art. 28 Costituzione) e dopo avere compreso tra "i pubblici impiegati" i magistrati (art. 98 Costituzione), sopporta che i componenti l'ordine giudiziario, in pratica, non rispondano mai degli abusi che compiono neppure nei casi terrificanti di dolo o colpa grave. In questo Paese, dunque, il cittadino sa che la inviolabilità della libertà consente che egli - a
nche se vittima di un abuso o di un errore - può sostare - innocente - 12 anni ed oltre nelle patrie galere, senza che chi l'ha perseguito e perseguitato risponda di nulla. Non è questa l'organizzazione statuale che può trovare consenso.
Per la nuova normativa non vale neppure vestire la casacca della vittima del delitto. Chi subisce la triste sorte di essere sequestrato a scopo di estorsione, non si aspetti l'aiuto, il sostegno, la solidarietà delle istituzioni; a togliergli ogni illusione a questo proposito provvede l'art. 15 del disegno di legge ricordato che suona così: "l'autorità giudiziaria può disporre la sospensione della disponibilità dei beni personali, esclusi quelli strettamente necessari ad esigenze familiari e ad attività professionali o produttive". Ecco: il colmo è raggiunto. Lo Stato si è tolta la maschera; evidentemente è il comportamento tipico di una organizzazione statuale velleitaria, forte con i deboli e debole con i forti. C'è chi ha un patrimonio legittimo, lo vuole usare per salvare la vita sua o di un suo familiare, considerato che la società non è riuscita a difenderlo dai delinquenti che lo hanno sequestrato e lo minacciano di morte. Non può farlo; lo Stato preferisce che sia ucciso piuttosto che usi del suo den
aro per salvarsi. Veramente ogni limite di decenza è superato. Si tratta di una operazione che alcune autorità giudiziarie già hanno compiuto, ponendo in atto un ennesimo abuso di potere; ora si vuole normalizzare la situazione, nonostante che l'esperienza ci abbia insegnato l'inutilità del provvedimento.
Può concludersi, dunque, che si vuole continuare a battere una strada che offende i diritti fondamentali del cittadino, che umilia le istituzioni, dimostrandone l'impotenza, che crea maggiore sfiducia; non c'è nessuna intenzione di cambiare strada. L'ottusa cocciutaggine di chi esercita il potere è tale da farci ritenere inutile ogni intervento (come del resto la discussione di questa normativa di fronte alle Camere ha dimostrato) pur animato dal solo desiderio di combattere efficacemente il terrorismo, senza tuttavia cadere in leggi liberticide. Eppure neanche questa amara constatazione ci dissuade dal compiere fino in fondo il nostro dovere.
La speranza si volge ai cittadini in particolare all'elettorato. Speriamo ancora che finalmente apra gli occhi e non perda occasioni propizie per dare un potente scrollone e mutare la faccia e quindi la politica del Paese, i partiti tradizionali hanno fatto il loro tempo; anche quelli che in passato hanno meglio rappresentato gli interessi popolari, hanno ormai ampiamente dimostrato che la libidine del potere fa dimenticare ogni valore e ogni principio; non ci rimane dunque che trarne le opportune conseguenze prima che sia troppo tardi.