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Bandinelli Angiolo - 30 gennaio 1980
A PROPOSITO DI DAHRENDORF: COME ESSERE LIBERALI, OGGI
di Angiolo Bandinelli

SOMMARIO: Commento all'intervista di Vincenzo Ferrari a Dahrendorf. Bandinelli trova che molte delle idee dell'eminente studioso tedesco, persuaso dell'attualità della funzione di un partito che si dichiara prettamente liberale, hanno il segno di una mordente attualità. Il liberalismo -secondo Dahrendorf - deve confrontarsi essenzialmente nella gestione dello Stato, non con i conservatori o magari democristiani, ma con il pensiero marxiano e le grandi socialdemocrazie con le quali condivide la matrice culturale del progressismo storico europeo. Egli inoltre indica nei movimenti "verdi" le forze emergenti che meglio avvertono i limiti della "democrazia consensuale".

(ARGOMENTI RADICALI, BIMESTRALE POLITICO PER L'ALTERNATIVA, Novembre 1979 - Gennaio 1980, N. 14)

Non sono tra i nostalgici di una possibile rinascita del Partito Liberale, di un partito che pretenda di rinnovare i fasti di questa grande, storica forza politica. Confesso quindi di aver accettato con un po' di ipocrisia, oltreché con esitazione, l'invito a leggere, per "Argomenti Radicali", l'intervista di Vincenzo Ferrari a Ralf Dahrendorf (1), l'eminente studioso tedesco attualmente direttore della "London School of Economics" che è oggi l'esponente più aggiornato e duttile della cultura liberale europea; e non solo della cultura, ma proprio della politica liberale, avendo militato, seppur saltuariamente, nella FDP di Hans Friederichs e di Walter Scheel.

Non vi è dubbio che l'attesa della rinascita sia diffusa. Il pubblico, accogliendola con benevolenza e fiducia, si offre come un davvero paziente creditore, perché il saldo, sempre promesso'non mostra di arrivare mai. Vuol dire comunque che l'aspettativa si innalza sopra fondamenta solide, profonde e serie, e oseremmo che essa sola meriterebbe una ricerca capillare; lo dimostrano le grida di gioia uditesi un po' da ogni parte alla notizia che in qualche luogo, in Francia nella fattispecie, erano apparsi tempo fa nuovi filosofi sotto le cui manipolazioni, pur se un po' sconciata e distorta, una parvenza di liberalismo si era rimessa in moto.

Dahrendorf è invece persuaso della attualità della funzione di un partito che si dichiari apertamente liberale. Quello di Dahrendorf, pur se molto attento ai moti reali della storia e non chiuso in una difesa nominalistica di formule di scuola, è il liberalismo classico. Alcune sue indicazioni ci riecheggiano l'insegnamento familiare di un Einaudi e persino di un Rossi: "A me pare che una delle condizioni di una società libera sia che lo status economico, sociale e politico di ciascuno sia il più alto possibile. Deve essere il più alto possibile, in altre parole, il livello di vita, la misura del godimento dei diritti civili. Ma in una visione liberale della società mi pare altrettanto evidente che, al di sopra di questo standard di vita... non si devono limitare le possibilità di differenziarsi...". Nessuna soggezione nei confronti di "nouveaux philosophes" o di quel neoliberismo economico che oggi cerca nuovi e non sempre chiari spazi. Ancora oggi, il liberalismo - secondo Dahrendorf - deve confrontarsi es

senzialmente, nella gestione dello Stato, non con i conservatori o magari i democristiani, ma con il pensiero marxiano e le grandi socialdemocrazie con le quali condivide la matrice culturale del progressismo storico europeo: persino, magari, con la Luxembourg. Può, o deve, tuttavia, avere la sensibilità di avvertire che forse i nuovi movimenti "verdi" e della qualità della vita sono i portatori possibili di una terza via che si collochi tra il conservatorismo della "law and order" e l'illusione socialdemocratica (propria a un Brandt e a un Palme) di un progresso ottenibile attraverso ulteriori "modernizzazioni" delle istituzioni e degli Stati nazionali.

Altre sue idee hanno il segno di una attualità mordente. Che cosa deve distinguere il nuovo liberalismo, i nuovi partiti liberali da quelle socialdemocrazie che sono in Europa i gestori adeguati dell'evoluzione ultima dello Stato? Fondamentalmente un giudizio di crisi del modello keynesiano. Le ipotesi keynesiane che i problemi sociali possano essere risolti attraverso l'espansione indefinita della produzione (e la redistribuzione dei redditi) è forse entrata in agonia. Anzi, l'espansione indefinita può al limite creare "più problemi di quanti non ne risolva". I trenta anni del dopo guerra "hanno visto giungere al suo culmine - a un culmine assolutamente imprevedibile - questo lungo processo di espansione economica", ultima fase, a sua volta, di una storia che abbraccia gli ultimi due o tre secoli. Tra l'altro, la corsa al progresso e allo sviluppo tecnologico ha raggiunto la fase della "postautomazione", ha raggiunto un punto in cui, nelle società moderne, è possibile mantenere lo stesso livello di produzio

ne con il cinquanta per cento dell'attuale forza lavoro". La crisi di sviluppo ha conseguenze più gravi, paradossalmente, nei paesi dell'Est, in quanto proprio qui la massimizzazione della produzione e del profitto (di Stato) è, in assenza di altri parametri anche di controllo, l'unico motore economico e sociale concepibile. Però, in occidente, i partiti socialisti e socialdemocratici perseguono anche essi obiettivi non dissimili, e non avvertono la necessità di un mutamento di rotta. Così la Germania dovrà fare uno sforzo per stimolare lo sviluppo. Il Giappone dovrà fare qualcosa per aprire i suoi mercati e facilitare il commercio...".

Ciò che manca, insomma, è "l'immaginazione istituzionale per uscire da questo circolo vizioso". Le società contemporanee, organizzate sui modelli "strutturalfunzionalisti" e in definitiva hegeliani, vale a dire "utopici" ("non nel senso della proiezione verso il futuro, ma nel senso che la struttura sociale è vista come un tutto, come totalità"), sono paralizzate dal mito dell'eguaglianza.

Il sovrasviluppo che perseguono è minuziosamente regolato dai governi e dai partiti, una ossessione responsabile, in ultima analisi, della ricerca di un consenso politico "dominante e generalizzato" (che Dahrendorf chiama il "consenso socialdemocratico"). Esso presenta rischi enormi, e comunque sempre un volto conservatore ("i veri conservatori sono i socialdemocratici di destra"!), e contro di esso lo studioso vorrebbe attizzare la rinascenza liberale (ecco il senso di quell'"uscire dall'utopia" che è fortunato titolo di un suo libro del 1971).

Neoliberismo economico, allora? Le premesse vi sono, partendo dalla critica a Keynes: ma nessuna risposta dogmatica. Le grandi multinazionali hanno una funzione positiva, ma bisogna respingere l'esasperata crescita, comunque perseguita, delle strutture produttive. Per molti settori le soluzioni migliori sono quelle ottenibili su piccole unità, a scala regionale e persino locale. Il punto di partenza della costruzione di una economia libera sia dunque la ricerca di una nuova "qualità della vita". Per questo, Dahrendorf non esita a indicare nei movimenti "verdi" (gruppi ecologici, movimenti per la "qualità della vita") le forze emergenti che meglio avvertono i limiti della "democrazia consensuale". E' persino facile, anche se non sempre scontato - ma questa è osservazione nostra - enumerare gli elementi che nei fatti, su motivazioni ideali fortemente caratterizzanti, contrappongono i movimenti "verdi" allo Stato nazionale e alla sua logica accentratrice e livellatrice; basti qui ricordare il rifiuto opposto al

monopolio della produzione e del controllo dell'energia, dato costituente di fondo dello Stato moderno.

Non possiamo, fin qui, non essere d'accordo con Dahrendorf. Dove lo siamo meno è laddove egli indica in partiti "liberali" i protagonisti, possibili e forse necessari, di una svolta lungo le direttrici che egli ci indica. Non è un caso che questo non sia accaduto in nessun paese; né nella Germania Federale dove la FDP di Scheel ha avuto, dopo il 1969, un ruolo di governo non disprezzabile, rendendo possibile l'alternativa alla democrazia cristiana; né in Gran Bretagna, dove il revival liberale assunse negli anni '60 proporzioni ideali di tutto rispetto. In nessuno dei due casi quei partiti hanno saputo superare soglie di consenso significative. In nessun caso, soprattutto, i partiti liberali - e non solo in Germania Federale, come Dahrendorf lamenta - sono riusciti a scrollarsi di dosso la vecchia pelle che li faceva i partiti della difesa degli interessi di "imprenditori e professionisti", così come di un "nazionalismo vecchio ed obsoleto" (in Germania la FDP fu persino "antieuropeista"), cioè in definitiva

partiti "illiberali".

Sia che, come in Germania, partecipino al governo adattandosi alla "vita felice di un partito di potere", sia che bordeggino all'opposizione, ovunque i partiti liberali sono tutt'al più partecipi di quella "gestione del consenso socialdemocratico" che invece dovrebbero aspramente e originalmente combattere. E il fatto che cerchino di insinuarvi "un certo grado di individualismo" non li salva, non prelude a nessuna importante loro rinascita. Non vi è dubbio che in alcuni paesi il tentativo sia stato fatto con coraggio e notevoli sforzi intellettuali: il "Liberal Party" inglese ha fornito più di una idea persino alle "new lefts" e non solo del suo paese; resta che i risultati politici non sono seguiti. Per non parlare dell'Italia, dove piuttosto sarebbe oggi possibile e forse utile fare, ormai, una storia delle diverse "sinistre liberali", dei tentativi da esse fatti per modernizzare il PLI, e infine delle diaspore e delle scissioni che invariabilmente sono scaturite dal fallimento dei loro sforzi.

Dunque, la convinzione di Dahrendorf non pare abbia solide basi e nemmeno offra prospettive appetibili. Perché, in definitiva? Perché l'eredità più importante della storia liberale è solamente - e non nel senso riduttivo - il propagarsi, nei diversi paesi, di idee, atteggiamenti, convinzioni e persino teorizzazioni liberali (o, come meglio si dice, "liberal") che informano di sé le azioni, i pensieri e le istituzioni di persone e di società, una intera cultura che nessuno di fatto osa rinnegare, nemmeno quando la straccia e la calpesta? Vi è infatti una "koiné" liberale molto diffusa che è piattaforma e patrimonio comune, madre di idee e principi divenuti indiscutibili, tra i quali primeggia certamente "la difesa - con parole di Dahrendorf - dei diritti individuali nel quadro dello Stato di diritto, qualunque cosa accada".

Tanta e preziosa eredità non basta però a dare nuovo slancio ai "partiti liberali". I cammini della libertà percorrono oggi - altre strade. Dahrendorf ci ricorda che a uno dei poli della tradizione liberale vi è quel "libero pensiero" che sconfina nell'anarchismo. Se l'attaccamento e la stessa promozione di modelli liberali (proprio nell'accezione della modellistica sociale) può essere ed è prezioso patrimonio di élites culturali internazionali, comunicanti tra di loro con costituzioni, analisi e progetti intellettuali sovente raffinati (Dahrendorf, con il suo insegnamento alla "London School of Economics", ne è un esempio di rilievo eccezionale), persino in una certa azione di governo, non vi è pure dubbio che le spinte operative che o mantengono o promuovono spazi di libertà nel mondo moderno trovano altrove, in altre zone culturali e sociali, la loro più solida, promettente e fruttifera sede. Se il liberalismo deve superare e infrangere barriere e confini, il cosmopolitismo "liberal" non appare sufficient

e al compito di sostituire il dato dell'"internazionalismo", che è uno dei valori più degradati e derelitti dell'intero movimento progressista mondiale. E non è allora strano se il sottile e provocante intervistatore, Vincenzo Ferrari, nel momento in cui deve proporre un modello di iniziativa politica italiana in qualche modo liberale, suggerisce niente di meno che "Lotta Continua" (o almeno il suo giornale) e, in generale, alcuni settori del "movimento del '68" (e la cosa provoca lo stupore di Dahrendorf).

A nostro avviso (e diamo questo giudizio con molta cautela e umiltà) l'analisi di Dahrendorf è carente proprio nel giudizio sul significato delle istituzioni-Stato contemporanee. Se qualcosa liberali e marxisti hanno in comune è la storia della crescita dello Stato come funzione liberatoria e liberante, anche dell'individuo. E' attraverso lo Stato e il suo secolare sviluppo, essi ci ricordano congiuntamente, che l'individuo e le società si sono progressivamente liberati dei particolarismi feudali e corporativi. Nonostante tutto, anche Dahrendorf, pur richiedendo uno Stato dalle competenze "minimaliste", non va al di là di questa prospettiva. Anche con oscillazioni, che sono conseguenza indubbiamente - forse della complessità delle questioni dibattute, dall'impossibilità - di dare ad esse risposte e soluzioni esaurienti. Si guardi quanto egli scrive (o detta) a proposito della questione Europa, il secondo grande tema dell'intervista. E' evidente che Ferrari con esso ha voluto affrontare una questione cara ad

un liberale di scuola, ad es., einaudiana. Ma è proprio qui che emergono più evidenti, e negativi, i limiti del "minimalismo" e insieme del nazionalismo di Dahrendorf. Il quale si professa contrario ad una Europa "unita", un'idea a suo avviso troppo "cartesiana", inventata da astratti cultori di idee prefabbricate, il "funzionalismo" e il "federalismo" esplicitamente evocati. Dahrendorf è coerente con se stesso. Preferisce tenersi ad un progetto europeo che veda soprattutto svilupparsi una "abitudine alla cooperazione", non necessariamente ristretta ai sei o dieci partners attuali. Niente, quindi, sovranazionalismo, ma una Europa "à la carte" (dice proprio così) modellata di volta in volta sui problemi che vengano sul tappeto, aperta agli interessi esterni al perimetro istituzionale. "Lo sviluppo di una esperienza di cooperazione in Europa - egli così afferma - si misurerà in termini di sostanza e non di istituzioni formalmente intese", poiché "le istituzioni vengono dopo". Con il risultato che il "minimalis

mo" lascia intatti gli Stati nazionali e le loro prepotenze e prevaricazioni.

La caduta di tono, in chi solo poche pagine prima aveva, e giustamente, messo in guardia nei confronti di quelle esperienze politiche che siano incapaci di misurarsi a livello di istituzioni, è patente. Il pensiero federalista, anche quello italiano, aveva da tempo avvisato, con acutezza "machiavellica", del rischio costituito dalle illusioni contenutistiche, di chi cioè pensava di procedere nell'identificazione dell'Europa a piccoli passi, sommando funzione a funzione, progetto a progetto: senza crescita istituzionale, nessuna cooperazione è duratura; le alleanze tra Stati sono dettate solo dalla convenienza. E se istituzioni non messe alla frusta da una volontà politica non bastano, noi siamo d'accordo però che siano indispensabili.

La rivincita, anche se tardiva, i federalisti se la sono presa con la nascita del Parlamento europeo a suffragio diretto (verso il quale Dahrendorf è troppo tiepido) e la sua polemica contro la presidenza Veil, i tagli ai bilanci, e così via. L'intuizione felice e insostituibile dei federalisti risiede nel fatto che essi assegnano il primato alla politica, alla volontà politica, ben sopra al determinismo strutturale, sociologico ed economicistico. In definitiva, posto al vaglio di un nodo così importante, Dahrendorf mostra i limiti di un modello operativo, e soprattutto di una analisi del fenomeno politico che finiscono col restare indietro - almeno in questa intervista - persino ad altri, oggi misconosciuti, settori del pensiero liberale: e indichiamo con tutta franchezza la concezione etico-politica di un Croce.

Vediamo altre facce dell'analisi di Dahrendorf sul moderno liberalismo e le sue possibilità di rinascenza. Dahrendorf si richiama spesso, e fondamentalmente, ai valori dell'individuo, che sono visti come non identificabili con quelli dello Stato. E' possibile - non saremo noi a negarlo - che il vero problema di libertà del mondo moderno sia nella libertà "dal" potere (anche qui non vi è dubbio che lo scontro è con certo pensiero marxiano - neo-marxiano? - che intende invece ribadire e rifondare una separatezza del politico che è garantita dal primato dello Stato). Certamente, questa è posizione ancora non priva di aporie e di difficoltà Non è impresa facile risolvere il vecchio "diritto di resistenza", di troppo antica memoria, superare le difficoltà che si frappongono alla sua formulazione teorica e alla sua agibilità politica. L'obiezione di coscienza, la resistenza passiva, il digiuno non sono esenti da malcomprensioni, non sempre sono usati con corretta analisi del processo che li fonda e li rende indisp

ensabili. Troppo spesso, i "diritti dell'uomo" coprono interessi reazionari; i "diritti civili" rinviano - nello stesso aggettivo della formula - ad un sostanziale ancoraggio al diritto positivo, storico. Ma appare strano che Dahrendorf sia, rispetto a tutti questi argomenti, che Ferrari con ostinatezza e fiducia gli sottopone, negativo. Anche sull'uso dello strumento referendario, a proposito del quale non basta ricordarci la Svizzera quale modello di Stato dove i referendum ci sono ma che non è per questo liberale. Tutto ciò riconosciuto, non vi è infatti dubbio che una posizione che riesce a promuovere tali strumenti di lotta - e quindi di confronto positivo con lo Stato e le istituzioni - è l'unica che possa riproporre l'individuo quale loro storico interlocutore.

Vi è, nello stesso perimetro di pensiero liberale di Dahrendorf - meglio, liberaldemocratico - la possibilità di avanzare un po'più sulla via della fondazione di un simile nuovo rapporto. In un recente volume che non è fuori luogo segnalare qui, accanto all'intervista a Dahrendorf ("Il problema della guerra e le vie della pace", Il Mulino, Bologna, 1979, lire 3.500), Norberto Bobbio ci ammonisce che pretendere di "fondare" i cosiddetti "diritti dell'uomo" è impresa disperata e probabilmente inutile, e che d'altra parte quei diritti - siano diritti positivi"universali, "diritti cioè del cittadino di quella città che non conosce confini, perché comprende tutta l'umanità"; in altre parole essi saranno "diritti dell'uomo" solo in quanto diverranno diritti del "cittadino del mondo". Anche questa è utopia, una di quelle utopie totalizzanti di cui Dahrendorf ci avverte dobbiamo diffidare? Eppure ha un senso reale e storico: in fondo, i diritti dell'uomo contemplati nei documenti dell'ONU sono la conquista di una ci

viltà e società che si sono espanse a tutta l'umanità, e sono divenuti ormai prospettiva inalienabile di pressoché ogni individuo che abiti sulla Terra. Come negare che sul fondamento storico di una simile conquista si può oggi ipotizzare un nuovo "diritto di resistenza" rispetto a Stati dai contenuti sempre più precari ed evanescenti? Non potrebbe essere questa la nuova frontiera di un moderno, diverso liberalismo, restituito ad un internazionalismo in cui l'intelligenza cosmopolita possa pienamente riconoscersi e trovare patria?

 
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