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Spadaccia Gianfranco - 28 febbraio 1980
IL PANE E LA MATITA
Gianfranco spadaccia

SOMMARIO: Il partito radicale ha aperto la campagna per la raccolta delle firme per indire referendum contro le centrali nucleari, per l'abolizione della caccia, del porto d'armi per i civili, dell'ergastolo, dei reati d'opinione e delle nuove leggi di polizia, per la smilitarizzazione della Guardia di Finanza, per la completa depenalizzazione dell'aborto, per l'abolizione dei tribunali militari e per la depenalizzazione dell'uso dell'hascisch. Contemporaneamente ha lanciato l'iniziativa internazionale contro lo sterminio per fame nel paesi del sud del mondo, per "milioni di vivi subito". In questo articolo Gianfranco Spadaccia afferma che vi è identità di strategia tra le due lotte intraprese dal Partito radicale, quella per la rivendicazione dei diritti civili e quella per la difesa del diritto alla vita.

(Notizie Radicali n. 29 del 28 febbraio 1980)

"Pane e referendum" fu uno dei felici slogan che impostarono la campagna referendaria del 1977. Era la più sintetica ma anche la più efficace risposta a quanti da sinistra continuavano a contrapporre la politica dei diritti e delle rivendicazioni economiche a quelle delle libertà e dei diritti civili.

Oggi lo stesso slogan segna con drammatica attualità la coincidenza, non soltanto temporale della lotta ingaggiata dal PR contro lo stermino per fame nel mondo e di quella contro la distruzione sistematica della Costituzione e della democrazia perseguita con accanimento dai terroristi e realizzata quotidianamente da uno schieramento politico capace di produrre soltanto unanimismo corporativo.

In queste due lotte c'è coincidenza assoluta non solo di tempi, ma anche di protagonisti, di avversari, di strategie, di valori. E c'è coincidenza e chiarezza assoluta delle alternative in gioco. Su entrambi i fronti quella che proponiamo è una alternativa di civiltà contro forme generalizzate di imbarbarimento di una società in cui il potere, il sapere, la ricchezza e il benessere asserviti alle uniche logiche della potenza e del profitto sono costrette a produrre in misura crescente caos, violenza, disperazione e terrore, devono abituarsi a convivere con essi, e devono difendersene con ulteriore violenza e terrore. Se i terroristi pensano di essere gli antagonisti di questo sistema, sbagliano. Ne sono soltanto il prodotto.

Il "caso Italia" non è un caso isolato, spiegabile soltanto con le malattie interne, endemiche, storiche della nostra società. E' soltanto uno dei punti più delicati e sensibili, uno dei momenti affioranti, di questa crisi generale. E' crisi degli equilibri mondiali del capitalismo internazionale, di quello occidentale come di quello di stato di quell'altra parte del mondo ricco e industrializzato che è costituita dai paesi del cosiddetto socialismo reale. Proprio per questo, proprio per la singolarità e drammaticità del momento che viviamo, la capacità di risolvere il "caso italiano", di governare verso sbocchi positivi la nostra crisi, di risolvere i nostri problemi potrebbe avere eccezionale importanza e costituire una risposta, suggerire ipotesi, aprire prospettive di soluzione a problemi che vanno ben oltre i confini del nostro Paese. Per far questo bisogna avere il coraggio di non fermarsi ai sintomi, alle conseguenze, ai fenomeni più superficiali di questa crisi. Bisogna avere la capacità e l'ambizion

e di guardare alle cause reali, quelle più vicine ma anche quelle più lontane, non avere paura di confrontarsi con esse.

Ci si dirà: e che c'entrano i referendum? A che possono servire le firme di tanti cittadini in questa primavera per risolvere questi problemi? A che può servire il voto del Paese fra un anno su dieci richieste di referendum? Rispondiamo: e come, se non con i referendum? E come, se non appellandoci alla gente, se non chiamando - come prevede e vuole la Costituzione - l'intero elettorato ad essere protagonista di scelte che riguardano l'avvenire e il destino stesso della società? Il sistema politico è più che mai in una situazione di stallo, bloccato dalla mancanza di alternative. La sinistra è più che mai paralizzata dalla strategia comunista che la conduce al compromesso istituzionale. Se si guarda con distacco alla situazione, l'impressione è allucinante. L'unica unità che si realizza è quella che si fonda sui funerali e che si raccoglie intorno alle bare. L'unità nazionale, quella strisciante e sottintesa di oggi, non meno di quella formale e ufficiale di ieri, ha bisogno dell'emergenza, e l'emergenza ha b

isogno di morti. Non fantastichiamo, per carità, di "intelligenze" misteriose e segrete, né di complotti. Siamo ben consapevoli della disperata identità "comunista" di questi "rivoluzionari" che hanno scelto la morte e il terrore. Prendiamo solo atto di questa macabra realtà: che le brigate rosse sono funzionali a questo regime, che la politica è stretta fra macellai e avvoltoi, e gli uni sono necessari agli altri. Credo che le rappresentanze parlamentari radicali, risultato del grande successo elettorale del giugno scorso, abbiano fatto in questi mesi - alla Camera, al Senato, al Parlamento Europeo - tutto il loro dovere, il dovere dei rappresentanti di una forza politica che si batte senza esitazioni contro gli equilibri compromissori e le prassi anticostituzionali del regime, e pretende di prepararne l'alternativa: l'alternativa - come affermava un altro felice slogan del 1975 - di una Repubblica autenticamente costituzionale. Come sempre dopo ogni successo (è stato così dopo le elezioni del '76, è stato

così lo scorso anno) tentano, dopo aver inutilmente cercato di ammazzarci, di riassorbirci e di normalizzarci, di cooptarci alla prassi della loro lottizzazione del potere, di piegarci all'osservanza delle loro truffaldine regole del gioco. E quando non ci riescono, tentano di nuovo di ammazzarci, cercando di dividerci (nella ricerca affannosa di falchi e colombe fra i deputati radicali quando c'è l'ostruzionismo contro gli anticostituzionali decreti anti-terrorismo, o chiedendo a Boato cosa ha che fare con Pannella, come chiede Luciano della Mea in prima pagina sul 'Paese Sera'), o criminalizzandoci di volta in volta come amici dei terroristi, come sabotatori delle istituzioni, o addirittura come assassini del Parlamento. Ma coloro che ci rivolgono queste accuse ridicole, sono gli stessi che non hanno neppure preso in considerazione la nostra proposta di un patto costituzionale fra i governi e le opposizioni. Non potevano raccogliere quella proposta, non potevano neanche discuterla perché sono ormai da anni

abituati a governare (e ha fare l'opposizione di regime) calpestando la costituzione. Non c'è dunque spazio per la ricerca di un'alternativa negli schieramenti parlamentari; non c'è spazio per questa ricerca all'interno della sinistra, non nel PCI che dopo lo scossone elettorale si è rinchiuso a riccio intorno alla fallimentare strategia berlingueriana e che conta oggi più di ieri, non nel PSI lacerato fra partito pro-Mazzanti e partito anti-Mazzanti e sempre di più affogato nelle tangenti e nel petrolio, non nel PDUP e nella sinistra indipendente rassegnati al loro ruolo di oppositori di sua maestà. Lo spazio per una alternativa al regime lo si deve dunque ricercare fra la gente, nel paese.

L'unico strumento per ricercare e promuovere le forze potenzialmente maggioritarie, e in alcuni casi maggioritarie, dell'alternativa è l'istituto costituzionale del referendum. Come nel '74, nel '75, nel '77. Ed oggi forse ancora di più che in quegli anni. Perché oggi è ancora più necessario di ieri rompere le gabbie corporative e rivolgersi alla generalità perché possa esprimersi su precise alternative senza mediazioni senza deleghe, senza il filtro delle classi dirigenti dei partiti, senza le interpretazioni interclassiste, corporative anch'esse, dei sindacati della triplice, vietarono una situazione nella quale c'è un assoluto compattamento (che brutta parola!) dell'intera classe politica, esclusi i radicali, sulle questioni fondamentali (basta guardare a ciò che è avvenuto sui dibattiti di politica estera, per evitarli, nonostante l'Afganistan; a ciò che è avvenuto sull'ostruzionismo radicale e sui colpi di mano antiregolamentari; sui decreti antiterrorismo sulla vicenda delle tangenti e sul caso Crivell

ini). Esiste questa unità mafiosa, o se la parola si ritiene troppo forte, questa unità corporativa di regime fra tutti i partiti, indipendentemente dal gioco degli schieramenti formali (comunisti nella maggioranza o comunisti alla opposizione). L'unico modo per rompere questa unità non consiste nell'inutile speranza di dividere i vertici degli altri partiti gli uni dagli altri, ma nel mettere a confronto, su problemi fondamentali, gli altri partiti con il loro elettorato: nel sottrarre questi problemi ai mercanteggiamenti dell'unanimismo corporativo di regime, per restituirli alla deliberazione della sovranità popolare.

I comunisti hanno perfettamente intuito da tempo la potenzialità sconvolgente di questo istituto costituzionale. Non è pensabile che rinuncino ad affossarlo definitivamente. E intanto ci accusano di volerci ispirare, scavalcando i partiti e gli alvei della democrazia delegata, a modelli carismatici, presidenziali, americani; ci accusano di voler produrre una spoliticizzazione della società italiana (come se la politica fosse riducibile agli esercizi ideologici delle classi dominanti e agli imbonimenti propagandistici per imporla alle "masse"); ci accusano di voler produrre una atomizzazione, per imporla, che infrangerebbe e spezzerebbe i grandi disegni programmatici di riforma della società e dello Stato e ogni unificante politica democratica di classe.

Le prime accuse nascono da un tabù della sinistra e in particolare di quella comunista: dalla paura inconscia di sperimentare fino in fondo in Italia gli istituti e i principi di democrazia che si sono affermati nel corso di due secoli in Europa e in America. C'è ancora il rifiuto del liberalismo considerato come sola sovrastruttura borghese. Quanto al resto è esattamente il contrario. E' la gabbia del grande corporativismo di Stato di questo regime a produrre la diffusione e la disgregazione del piccolo corporativismo dei piccoli interessi, a produrre spoliticizzazione, a produrre rivolta, a produrre, anche, in assenza di alternative, disperazione e terrorismo. Al contrario i referendum favoriscono la contrapposizione di programmi di carattere generale, impongono la scelta fra grandi opzioni ideali, costituiscono un progetto unificante. I referendum dell'11 giugno 1978, ad esempio, dimostrano che esiste già nel Paese quel grande partito Socialista dell'alternativa che non esiste in Parlamento.

Ciascuno dei referendum rappresenta un contenuto programmatico alternativo, un segmento di opzione di civiltà alternativa, basata sul rifiuto della violenza, sulla costruzione positiva di una società nonviolenta (non debole ma forte), non sul rifiuto del diritto ma al contrario su un rigoroso e severo diritto di libertà, sul rifiuto del centralismo, del gigantismo, della morte nucleare. Non ho bisogno di spiegarli. Essi di spiegheranno da sé.

Non ci sarà invece un referendum sulla fame nel mondo, su questa nuova forma di nazismo non proclamato e rimosso con cui ci stiamo abituando a convivere. Dovremo farlo diventare il filo rosso che unifica tutti e dieci i referendum. Dovremo farlo diventare, attraverso gli altri dieci, un unico grande referendum. E' la risposta del nostro socialismo di pace al socialismo di guerra di Breznev e delle Brigate Rosse; del nostro internazionalismo alle politiche diplomatiche di Berlinguer e di Brandt; del nostro pacifismo e antimilitarismo all'equilibrio del terrore e all'equilibrio degli imperialismi di cui quello sovietico è diventato oggi, di nuovo, il più minaccioso della nostra determinazione politica ai piagnistei di Pertini e di Wojtila e alle omissioni dei partiti di sinistra e dei sindacati. E questo sarà compito del Partito.

 
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