di Leonardo SciasciaSOMMARIO: Due libri, uno dell'ex sen. V. Cervone e l'altro dell'on. G. Andreotti, lo riportano ai giorni del dramma Moro. Ironizza sull'espressione ("solidarietà fucina") usata da Andreotti nel raccontare del comportamento di papa Paolo VI durante la vicenda e del suo interessamento per la liberazione dello statista. Andreotti usa espressioni che, tradotte "brutalmente", servono solo ad esortare il papa perché continui a non creare problemi a lui, Andreotti, e allo Stato. Cervone, che ha agito altrimenti, "ha perso il seggio in Senato".
(CORRIERE DELLA SERA, 9 maggio 1980)
Oltre alla data anniversaria e alle rivelazioni del brigatista - non si sa in pentimento o calcolo - di cui i giornali fioriscono, due libri mi riportano in questi giorni all'affaire Moro. Uno direttamente, ed è quello che s'intitola »Ho fatto di tutto per salvare la vita di Moro e di cui è autore l'ex senatore democristiano Vittorio Cervone, l'altro indirettamente, per le quattro pagine in cui, parlando di Paolo VI, viene ricordata l'accorata partecipazione del pontefice all'affaire, ed è quello di Giulio Andreotti il cui titolo assume un modo proverbiale che, nella considerazione che le morti dei papi si sono in questi ultimi anni infittite, ha un tono di umor nero: "A ogni morte di Papa".
Le quattro pagine di Andreotti in effetti si collegano (è possibile, cioè, a noi vederle in un rapporto di causa ed effetto) a quella del senatore Cervone. Ma andiamo per ordine.
Andreotti, dunque, parla di Paolo VI e di come si è trovato, questo Papa vecchio e stanco, ma di mente lucidissima, a scrivere di fronte al caso Moro »una pagina storica di solidarietà e di amicizia fucina .
Non so in che consista la solidarietà ed amicizia fucina (non so nemmeno come si sciolga la sigla FUCI). Posso soltanto immaginare. Mi pare, comunque, dalla lettera scritta al Papa da Andreotti, e che nel libro è riportata, che il Papa volesse andare un po' più in là dei sentimenti e dei modi fucini e che sia stato proprio Andreotti a fucinamente trattenerlo.
Il fatto è questo: il Papa ha ricevuto una lettera di Moro, sente di dover fare qualcosa. Scrive il messaggio ai brigatisti, implorando la salvezza di Moro. Ma evidentemente sente che ciò non basta e, il giorno precedente alla diffusione del messaggio, manda monsignor Casaroli da Andreotti; e non soltanto, a quanto ci è dato di capire, per fargli leggere il messaggio. E' facile arguire che desidera che lo Stato italiano faccia qualcosa, che mostri di voler accedere a una trattativa o che addirittura tratti. La lettera di risposta che Andreotti manda il 25 aprile, in un certo senso sollecitata dall'invio di monsignor Casaroli della fotocopia della lettera di Moro al Papa, dice chiaramente che il Papa qualcosa aveva chiesto al governo italiano. Andreotti, infatti, riepiloga tutte le ragioni per cui lo Stato italiano non può permettersi di trattare. Se il Papa non avesse chiesto che si facesse qualcosa, sarebbe stato indelicato da parte di Andreotti fargli il riepilogo di principii e situazioni ormai sbandierat
i da quasi tutti i giornali.
Ho usato la parola indelicato proprio perché Andreotti usa la parola delicatezza a giudicare l'azione svolta fino a quel momento dal Papa: »Il Santo Padre ha fatto per la liberazione di Moro più dell'immaginabile, con una forza ed insieme con una delicatezza che hanno riportato molti di noi agli anni felici dell'Azione cattolica universitaria . Vogliamo tentare di tradurre questo passo brutalmente? Ecco "Il Papa è stato finora molto delicato nei miei riguardi e nei riguardi dello Stato italiano, continui a comportarsi così". E' il caso di dire che hanno capito l'antifona: il Papa e monsignor Casaroli. Il senatore Cervone non è stato invece così delicato: e, come chiaramente si intravede nelle sue pagine, ha perso il seggio in Senato.
(»Corriere della Sera 9 maggio 1980