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Strik Lievers Lorenzo - 20 giugno 1980
IL NUOVO PATTO RADICALE - LA MOZIONE DEL CONGRESSO DI ROMA
di Lorenzo Strik Lievers

SOMMARIO: L'autore illustra la mozione presentata da Pannella al Congresso di Roma. Essa esprime con forza l'aspirazione a guardare in alto e rinnova la fiducia nel progetto politico radicale.

La mozione pone in primo piano non le elezioni ma i compiti dei radicali, in quanto uomini e cittadini, nella società italiana ed europea, rispetto all'umanità.

Essa attribuisce una posizione centrale nella prospettiva politica radicale alla dimensione politica internazionale; rivendica l'assunzione esplicita nell'orizzonte ideale di una forza radicalmente laica come il PR, di valori propri della più alta religiosità cristiana e pone in rilevanza la ridefinizione della funzione del diritto e del suo rapporto con lo Stato.

(ARGOMENTI RADICALI, BIMESTRALE POLITICO PER L'ALTERNATIVA, Febbraio-Maggio 1980, N. 15)

"Ricordando Walter Tobagi"

Come se niente fosse. Continuiamo a occuparci, ognuno, delle solite cose, del nostro quotidiano; degli interessi, dei piaceri, del lavoro, degli affetti, delle affermazioni di sé. Ma con un disagio che cresce, con un'angoscia a tratti pienamente consapevole e acuta, più spesso sommersa dalle dinamiche, dalle urgenze dell'agire e del vivere; eppure sempre presente al fondo, mai cancellata del tutto.

E' un'angoscia di morte. Altra, seppure dello stesso segno, di quella che ciascuno si porta dietro, più o meno rimossa, relativa al proprio, personale, esser destinato a morire, suprema obiezione alla libertà e alle speranze dei singoli. Si tratta di un'angoscia di morte generale; se non dell'umanità in assoluto, di "una" umanità, di un modo di essere uomini, che è il solo che conosciamo e sappiamo in realtà concepire.

Si torna, dopo decenni, a parlare della guerra come di una delle opzioni possibili; ciò che basta a renderla probabile, e perciò stesso allora, un po' prima, un po' dopo, forse inevitabile. E se nessuno sa davvero immaginarsela, la guerra, si sa comunque che non sarà simile a nulla di conosciuto, che sarà peggiore di ogni realtà immaginabile. Così, rendendosi conto di quanto il pericolo sia reale e riguardi non qualche parte remota della terra, ma noi stessi, il nostro mondo, si è indotti a guardare con altri occhi l'epoca che stiamo vivendo e abbiamo vissuto a partire dal 1945. Si comincia, o si è aiutati, a prendere coscienza davvero, non solo in astratto, che la guerra non è mai scomparsa dal mondo; che il mostro del massacro non è mai morto, che invano ci illudevamo di averlo sepolto, esorcizzato una volta per tutte. Tutto il peggio è possibile oggi e domani: per poco che apriamo gli occhi dobbiamo riconoscerlo. La tragedia indicibile della Cambogia ha appena rinnovato, e se possibile ingigantito, fra la

nostra distrazione colpevole, connivente, complice, l'orrore senza nome dei campi di sterminio nazisti o staliniani, che non possiamo più fingerci, allora, appartenenti a un'umanità altra dalla nostra, fatta di mostri alieni, e comunque consegnata definitivamente a un passato concluso. Del resto, continuiamo pur sempre a convivere, accettandolo di fatto, fondandovi i nostri privilegi, con lo sterminio più immane, quello per fame - noto, previsto, programmato.

Difficile dire quanto di ciò vi sia coscienza chiara; ma certo ne derivano inquietudini, incertezze, ansie che penetrano a fondo in sentimenti e pensieri. Inquietudini che si mescolano con quelle per le minacce che la rivolta preannunciata, possibile, anzi inevitabile, giusta e necessaria del terzo mondo contro l'infame distribuzione delle risorse planetarie, insieme alla prospettiva dell'esaurimento di tante fra quelle risorse, fa gravare sul benessere opulento cui le nostre società si sono assuefatte. Immagini che non possono non incontrarsi con il modo di sentire e vivere le vicende interne del paese; e fan crescere allora il disgusto, l'indignazione, la stanchezza per il degradarsi continuo, cui assistiamo e partecipiamo, della vita pubblica - e insieme, perciò, delle vite private.

Soprattutto, la tragedia del terrorismo, che della guerra reca in sé tutte le stimmate funeste e tutta la logica inumana, acquista in questa luce un senso se possibile ancora più angoscioso, come di segno: sintomo, ammonimento, preannuncio. Ogni singola morte, giorno dopo giorno, ce lo richiama; e quanto più ci coinvolge, ci tocca da vicino, quanto più chi è stroncato e scompare è persona che direttamente o indirettamente sentiamo vicina o conosciamo - un amico, magari - tanto più lo smarrimento e lo strazio che sono in noi, mettendo in discussione tutta la nostra umanità, si fanno anche (mi pare, almeno) lucidità più chiara in questo senso.

Ma poi, il senso di impotenza. E allora, in modo schizofrenico continuiamo a vivere »normalmente , applichiamo la logica solita, perseguiamo gli obiettivi soliti - quasi a rassicurarci; quasi che fossero davvero quelli importanti. E tuttavia non possiamo non sentire al fondo che per i singoli e per i gruppi la necessità vitale è quella di misurarsi con i problemi veri, di assumersi rispetto ad essi le proprie responsabilità culturali, politiche, morali; ed è questa interna tensione a segnare di una sua singolare impronta oggi la vita del paese.

La schizofrenia dei radicali

Considerazioni generalissime, quelle che precedono; tuttavia utili forse per inquadrare anche molte vicende recenti del movimento radicale; e in particolare per cogliere il senso del fatto nuovo che, pur passato in genere sotto silenzio, sommerso dal clamore delle vicende elettorali e referendarie, si prospetta come una svolta di importanza cruciale per le sorti e la funzione del PR: la mozione del congresso straordinario del 7-9 marzo. La schizofrenia, tensione, polarità di cui s'è parlato - fra l'illusione del quotidiano, del »realistico , e l'urgere di quel che davvero conta - infatti marca significativamente oggi anche l'ambiente e il modo di essere dei radicali.

Bisogna pur cominciare a dirlo, fuori dalle miopi carità di partito. Nel PR, nel gruppo parlamentare, abbiamo assistito in questi mesi, e tutti ne siamo stati in qualche misura coinvolti, a fenomeni preoccupanti e deprimenti; quasi riflessi, verrebbe fatto di osservare, non so se per trovare attenuanti o per deprimersi ulteriormente, del clima generale del paese. Rivalità, tensioni, scontri sordi che non riescono ad assurgere alla dignità di fecondi confronti tra linee politiche e culturali diverse; un immiserirsi così della vita interna del partito in un giustapporsi di unanimità ipocrite e distratte, che non nascono da una vera elaborazione comune, prive anche per questo di tensione ideale, a diatribe meschine, talora magari personalmente feroci. Piccoli interessi, piccole questioni che prendono il primo posto e assorbono attenzioni e passioni. Non certo solo questo, il PR oggi; ma anche questo, sì. Con il rischio allora, oltretutto, di disperdere a vanificare quella »diversità che costituisce la sua ragi

on d'essere e la sua forza.

Di contro - ed è la ragione per cui in tanti, credo, rinnoviamo la fiducia nel progetto politico radicale - nell'ambito radicale riemergono con forza l'aspirazione a guardare alto e il senso che questa responsabilità i tempi impongono. Espressione vigorosa e compiuta di ciò, appunto la mozione del congresso di Roma (la si veda riprodotta più oltre in questo fascicolo).

Anche le circostanze in cui a quel documento si è giunti testimoniano delle contraddizioni, vitali contraddizioni, in cui siamo immersi. Il congresso, si ricorderà, era stato convocato per decidere dell'atteggiamento radicale nelle elezioni amministrative. E per due giorni di questo effettivamente vi si è discusso; con un dibattito però che non riusciva a prender quota, tutto legato a problematiche minori - quelle appunto »normali , »solite nella lotta politica quotidiana, comuni un po' a tutte le persone e le forze che gestiscono la politica italiana: le attese dell'elettorato, il futuro e l'interesse del partito, gli schieramenti, gli equilibri, il ruolo possibile delle rappresentanze radicali in quest'ambito... E insieme, non enunciate ma ben avvertibili, tante attese e aspettative - in sé legittime e giuste per larga parte - di affermazioni elettorali personali e di gruppo; e tanti giochi svolti guardando agli equilibri interni di partito. Sensibilmente, si trattava di un congresso subalterno, nel senso

che faticosamente si misurava con una scadenza »esterna , cui si era condotti dalle cose, non per autonoma scelta di priorità; e in cui quel che rischiava di sparire, non per nulla, era il modo di essere specifico e altro dei radicali, era la »cultura radicale.

Una mozione che guarda alto e lontano

In quel contesto è piombato, davvero dall'alto, il documento proposto da Pannella. In nulla, si può dire, esso recepiva il senso del dibattito che si era svolto sin lì; eppure, attingendo alle ragioni profonde per cui si può essere radicali oggi, rispecchiava, rivelava in realtà sentimenti e pensieri che un po' tutti nutrivano ma che, come accade, in quel dibattito dominato da altre dinamiche non trovavano la via per esprimersi.

In effetti la mozione ribaltava l'ordine del giorno del congresso: in primo piano non le elezioni ma i compiti dei radicali, in quanto uomini e cittadini, nella società italiana ed europea, rispetto all'umanità - e solo in ultimo, come corollario contingente e di gran lunga secondario, quel che riguardava le elezioni. I radicali così ritrovavano se stessi e, con l'approvazione del documento, chiamandosi fuori da un campo che oggi non poteva essere il loro, compivano un gesto di grande forza di ampio respiro politico e ideale.

Il valore di quel che nel congresso è accaduto tuttavia va evidentemente molto oltre la contingenza, importante quanto si vuole, del momento elettorale, e della stessa campagna per i referendum. Pervasa com'è di elementi di ripensamento e bilancio dell'esperienza radicale, la mozione guarda avanti e lontano, alla qualità nuova e ai pericoli immani della situazione in cui ci troviamo; e allargando d'un tratto gli orizzonti segna con coraggio e rigore i compiti e le vie nuove della fase che si apre.

In che misura così si innovino ampliandoli i fondamenti dell'azione radicale appare chiaro se si considerano quanto meno tre aspetti che caratterizzano la mozione. Primo, il fatto che essa attribuisce - come mai era stato finora, in realtà - una posizione centrale nella prospettiva politica radicale alla dimensione della politica internazionale; andando ben oltre la generica indicazione antimilitarista tradizionale, collocando nell'ambito di una visione complessiva profondamente coerente la battaglia contro lo sterminio per fame, e ribaltando dalla base tanti criteri ormai invalsi circa la politica estera. Secondo, la rivendicazione e l'assunzione esplicita nell'orizzonte ideale di una forza radicalmente laica come il PR di valori propri della più alta religiosità cristiana (né questo ha mancato di scandalizzare qualcuno). Terzo, la ridefinizione della funzione del diritto, del suo rapporto con lo stato, con la società e con la coscienza individuale, espressa in quello che si è proposto divenga il preambolo

allo statuto del partito.

Dalle nazioni alle ideologie

Il tema dello stato, degli stati: corre lungo tutta la mozione, e può essere forse quello che - come punto di incontro per eccellenza fra le dimensioni della politica estera e di quella interna - consente di avviarne meglio una prima, magari parziale, valutazione.

Lo si consideri in relazione al piano delle relazioni internazionali; nel quale non possiamo non prendere atto dell'affermarsi oggi di una dimensione qualitativamente nuova dei rapporti fra gli stati, o meglio forse dei modi in cui quei rapporti sono sentiti o vissuti dal senso comune collettivo, con quella che potremmo definire un'eclisse dei valori e degli ideali nella sfera della politica internazionale.

Si rifletta, da questo punto di vista, all'evoluzione che ha contrassegnato il nostro secolo. All'aprirsi di esso le nazioni, gli stati costituivano in quanto tali i soggetti politici primi: ed erano essi, i loro interessi, a offrire alle coscienze i punti di riferimento essenziali. Ci si sentiva inglesi, tedeschi o italiani prima e più che democratici, conservatori o socialisti; il dovere verso la patria, intesa come nazione e stato, rappresentava un cardine primario, spesso quello in assoluto prevalente, della morale pubblica e privata; gli »interessi nazionali diventavano metro e criterio, in loro nome ci si sacrificava e si moriva, si opprimeva e si uccideva, sentendosi in pace con la coscienza. La prima guerra mondiale fu ancora in molta parte - ma ormai solo in parte; si pensi a miti come quello della »guerra democratica - espressione e frutto di quel clima; che però ormai rapidamente veniva meno.

Tornano gli »interessi nazionali : la guerra come ipotesi

Della logica che voleva tutto, totalitariamente, subordinare alla ragion di potenza dello stato-nazione i fascismi che dilagarono in Europa negli anni venti e trenta furono l'esasperazione parossistica; ma insieme segnarono l'avvio della dissoluzione dello stato-nazione. Gli stati fascisti infatti in un certo senso non erano più »stati nell'accezione tradizionale del termine, bensì regimi, organi non più della collettività nazionale ma di una sua parte, di un »partito appunto: in Germania la croce uncinata nazista prese il posto della bandiera nazionale. Così, sul fronte opposto, anche l'URSS - persino nel nome - si pose come regime, non come stato. E la seconda guerra mondiale ebbe per molta parte dei paesi e degli individui in essa coinvolti carattere più di guerra civile che di guerra fra stati: al primo posto non tanto gli interessi nazionali, quanto le opposte visioni del mondo, ossia del bene dell'umanità, vissute semmai come coincidenti con l'interesse ultimo della patria. Sicché su ogni versante si

ebbero uomini e gruppi che sentirono il »tradimento come imperativo morale, e in nome di un »principio superiore - la democrazia, il fascismo, il comunismo - si batterono accanto agli stranieri contro gli eserciti del loro paese.

Ancor più ampiamente fu questo il carattere della lotta politica nel mondo nel secondo dopoguerra. Molto dell'antico restava certo ancora; ma il confronto, lo scontro, le solidarietà erano sentiti riguardanti non tanto gli stati come tali quanto diversi sistemi politico-ideologici, ossia progetti complessivi di soluzioni per i problemi della convivenza umana. America, Russia, magari India e Jugoslavia, Cina più tardi, venivano amate o odiate in quanto guide e portatrici o insegne di quei progetti universali; i punti di riferimento si chiamavano mondo libero, mondo socialista, non allineamento in quanto via di emancipazione, rivoluzione »delle campagne ... La lotta politica internazionale si confondeva, in larga misura si identificava senz'altro con la contesa fra modelli di vita e fra ideali etico-politici complessivi, e connessi interessi sociali ed economici; stati, partiti e uomini si schieravano sulla scena internazionale prima di tutto in quest'ottica, solo in subordine alla quale gli »interessi naziona

li trovavano un loro posto.

A poco a poco però quelle ideologie e quei blocchi politici hanno subito un processo di usura e, in vario senso, di disgregazione. Fiduce e speranze si sono consumate. Anche a tanti che vi avevano creduto il »mondo libero rivelava il volto dello sfruttamento infame, della degenerazione consumista; e il »campo socialista quello del gulag e della sovranità limitata.

Le delusioni, le crisi di identità, rendendo sempre più difficile proiettare sulla dimensione internazionale un impegno politico fondato su valori etici, hanno lasciato libero il campo al dilagare di un cinismo al fondo disperato e lugubre. In mancanza d'altro da tutelare e da affermare, da ogni parte è riemersa e ha ripreso incontrastata il sopravvento la logica degli interessi nazionali, degli egoismi nazionali; che, vuoti di carica ideale e morale, non sanno neppure più diventare »sacri egoismi, come quelli di un tempo. Sulla scena mondiale ormai agiscono solo gli interessi di potenza e di equilibrio degli stati, senza altri punti di riferimento: la politica estera della Cina è il segno emblematico di una condizione comune. E il dato più inquietante, qualitativamente nuovo, forse proprio di quest'ultimo anno, è che le opinioni pubbliche accettano tranquillamente come motivazione ovvia dei comportamenti degli stati la semplice e bruta difesa degli »interessi , senza neppure più sentire il bisogno che essi

siano mascherati con ragioni di giustizia.

E' questo, non per nulla, il clima in cui si torna, come da decenni non accadeva, a considerare e ad accettare come normale, subordinato solo a criteri di opportunità, il ricorso alla forza militare per far valere i propri interessi: la resurrezione del primato degli stati e degli interessi nazionali fa tutt'uno con il ritorno della guerra come ipotesi possibile.

Una politica estera fondata sui valori: contro lo sterminio

A questa logica del »realismo , che è la logica del suicidio, la mozione di Pannella oppone il rifiuto più drastico. Denuncia e condanna le politiche estere »di ricerca di continuo compromesso e complicità con la politica dei campi di sterminio e degli sfruttamenti colonialistici, dei gulag e delle leggi d'eccezione, delle aggressioni e delle annessioni, per realizzare spartizioni del mondo ed equilibri di potenze e di potere ; contrappone cioè al criterio della politica estera degli interessi, dilagante ovunque, quello di una politica estera »di principi . Il richiamo è dunque alla sfera dei valori; che occorre, è tragicamente urgente riaffermare, in tanta parte su basi nuove, se le vecchie sono consunte: sola via possibile per ritrovare speranza, per arrestare la corsa verso il baratro.

In questo quadro si intende appieno, allora, il dato politico fondamentale della mozione: il fatto cioè che, rovesciando tutte le priorità cui da sempre ci hanno abituato i criteri delle politiche di stato e di partito - di tutti gli stati, di tutti i partiti, compreso il nostro fino a ieri - essa mette al primo posto assoluto nelle preoccupazioni e nella prospettiva politica dei radicali la questione tremenda dello sterminio per fame.

Si tratta della questione che più di ogni altra - per le sue dimensioni mostruose, per le responsabilità che comporta, collettive e perciò anche personali di ognuno - non può essere »scoperta senza divenire tormentoso problema di coscienza. Con Pannella, grazie, bisogna dirlo, a Pannella, i radicali la vengono scoprendo, faticosamente magari, come quella che rende insostenibile moralmente rinchiudersi nei »nostri interessi, di società italiana ed europea; come quella che, mettendo alla prova la dignità di ogni condizione umana, impone di rifarsi all'ambito che in definitiva è l'unico vero, soprattutto in un'epoca come la nostra: quello della comune umanità.

A questa stregua, il discorso è tutt'uno con quello sulla politica estera. La priorità al problema della fame si prospetta come il fondamento di una possibile diversa politica estera - o meglio, internazionale - volta a instaurare una qualità altra delle relazioni internazionali, una politica costruita, appunto, con riferimento a valori, affermando valori, quelli universali della persona umana. Ché se poi si pensa a quel che significano, rispetto agli equilibri del mondo, rispetto ai rischi di guerra, i nodi delle relazioni nord-sud e della tensione tra opulenza e fame, ci si rende conto di quanto un simile indirizzo sia anche quello del realismo autentico, che tutela gli interessi primari di tutti e di ognuno, contro la stupidità cieca delle politiche »realistiche di interessi e di potenza che portano alla guerra come sbocco naturale.

Per il diritto, contro ogni guerra

La linea è dunque quella di una contestazione dello stato come strumento di potenza; ma non certo dello stato in quanto tale. Rispetto alla dimensione della politica interna (ma poi non solo di essa, in una prospettiva che non può non negare la scissione e la diversità qualitativa fra politica interna e politica estera), la mozione »proclama il diritto e la legge, diritto e legge anche politici del partito radicale; proclama nel loro rispetto fonte insuperabile di legittimità delle istituzioni . Il PR ne esce definito come partito per eccellenza del diritto, della legge, dell'osservanza all'estremo della legge voluta con scelta consapevole, quale scelta di civiltà. E non c'è diritto, sistema di norme codificato, senza stato.

Nulla di più lontano dall'ottica radicale, in questo senso, di parole d'ordine come quella »né con lo stato, né con le BR . L'obiettivo del partito armato, quello che nutre l'illusione atroce dei suoi combattenti, è di giungere alla rivoluzione attraverso la disarticolazione e disintegrazione dello stato come effetto del terrorismo. La via scelta, non solo tatticamente (l'uso delle armi), ma anche strategicamente (la disintegrazione dello stato, garante di ogni diritto), è quella che passa attraverso lo stravolgimento dei modi della convivenza sociale: alla regola del diritto vuol sostituire quella barbara della guerra. Anche la guerra, certo, è cosa per eccellenza dello stato, degli stati: anzi, ne siamo ben consapevoli, la sola vittoria cui il partito armato può giungere è quella non del rovesciamento dello stato bensì, con il trionfo di una logica di guerra, quella di una trasformazione di esso che, facendone venir meno la dimensione del diritto, lo muti appunto in mero organo di guerra.

Qui in effetti sta il nodo. Se è vero che lo stato reca in sé due momenti, irriducibilmente contraddittori fra loro, quello del diritto e quello del potere e del dominio, la guerra esalta il secondo, comprimere fino ad annullarlo il primo: negando alla radice il diritto alla vita è, in sé, la negazione radicale di ogni diritto. La direttiva dei radicali sta all'estremo opposto, allora, di quella del partito armato - qui sì, davvero, opposti estremismi: fino in fondo per lo stato come sede e momento del diritto, per limitarne al possibile il momento del potere e del dominio.

Diritto naturale, primato della coscienza

Partito della legalità, il PR è anche il partito della disobbedienza, dell'obiezione di coscienza. Eppure, è proprio della legge essere uguale per tutti: come chiederne il rispetto nel momento in cui la si viola? Contraddizione solo apparente; ma cui occorre riflettere se non si vuole che possa diventare reale.

La disobbedienza cui i radicali si chiamano e chiamano è quella contro lo stato-potenza; ossia, anche, contro lo stato che, in virtù della propria forza, stabilisce una legge che violi un diritto superiore. Non solo, si badi, contro le violazioni della legge fondamentale dello stato, la costituzione: molte volte l'obiezione di coscienza radicale si è levata contro leggi costituzionalmente valide - per tutte, quella sull'obbligo militare. Non c'è dubbio: il riferimento ultimo è al diritto naturale, quale la libera coscienza, nella sua responsabilità, lo sente e lo stabilisce.

Il congresso ha proclamato »il dovere alla disobbedienza, alla non collaborazione, alla obiezione di coscienza, alle supreme forme di lotta non violenta per la difesa, con la vita, della vita, del diritto, della legge . Riprendendo i termini di un dilemma che ha corso i secoli e i millenni, i radicali rifiutano di riconoscere nello stato e nel suo potere la sola, o comunque la preminente, fonte di norma. Alla legge positiva, dello stato, arrivano così a contrapporre - con espressione certo »scandalosa rispetto a tanta cultura storicista - una »legge storicamente assoluta .

Non uccidere, mai. Perché non possiamo non dirci cristiani

Diritto naturale, primato della coscienza: temi e valori che, nella cultura europea almeno, sono connessi indissolubilmente al patrimonio più alto della religiosità cristiana. Se vogliamo, come radicali, far davvero i conti con noi stessi, con quello che siamo, dobbiamo prenderne consapevolezza piena. Non opportunismo strumentale dunque, ma autentica scoperta di sé il laico richiamo a valori cristiani sempre più esplicito e frequente nell'azione del partito anticlericale che vanta Ernesto Rossi tra i suoi maestri (e che, significativamente, per primo credo nella storia dei partiti italiani, »partiti cristiani compresi, usa in un proprio documento congressuale il termine »pietà ).

A questa coscienza di sé e dei tempi si ispira, nella sua meditata formulazione, l'impegno solenne e sconvolgente con cui il nuovo patto radicale »dichiara di conferire all'imperativo cristiano e umanistico del "non uccidere" valore di legge storicamente assoluta, senza eccezioni, nemmeno quella della legittima difesa . Il valore supremo è la persona umana in sé, la sua vita, non lo stato e il potere. Ne discende la scelta della non violenza assoluta: terribile, drammatica, ma la sola forse adeguata a contrastare la violenza, che da ogni parte avanza tra noi.

Tutto si tiene, così. Il congresso segna, vuole segnare un passo capitale nella storia dei radicali: l'acquisita consapevolezza che, se mai lo si è potuto, oggi non ci si può più limitare a un ambito nazionale; che il PR non può più essere solo, come è stato, forza »di governo in Italia. Oggi a ognuno compete contribuire, come sa e può, al governo del mondo; in questa direzione, misurando l'esiguità risibile delle proprie forze, ma anche le possibilità che si aprono, il PR ha deciso di rivolgere il proprio impegno. Né poi è questione di calcolare le forze di un partito: negando la distinzione insuperabile fra le sfere della politica interna e della politica internazionale, il messaggio, l'appello a intervenire al livello anche delle relazioni internazionali, del governo complessivo dell'umanità, non è rivolto a gruppi, a »forze , a interessi - di stato, di classe, di partito. Come con i referendum all'interno, si investono direttamente i singoli del diritto e dovere di decidere anche su questo piano più amp

io il richiamo è alla coscienza e alle responsabilità personali di ognuno in quanto cittadino del mondo, in quanto persona.

 
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