di Angiolo BandinelliSOMMARIO. Il radicalismo non è compatibile col marxismo, ma il suo punto di partenza "è diverso anche rispetto al liberaldemocratico": egli non condivide la fiducia nella "bontà" o nella "neutralità delle istituzioni"; obbedisce alla legge dello Stato "ma il suo primo e vero compito e obiettivo è quello di sottoporla a un processo di verificazione/falsificazione"; egli, ancora, diffida nella "Razionalità della Storia", nella "Classe", e non è "apostolo della Gestione del Reale".
Il radicale, infine, avverte che il fare della politica è un fare "superficiale": le proposte della politica si situano "alla superficie dell'evento, là dove l'evento è visibile, intelligibile e comunicabile". Per tutto questo egli sa che "il narrativo è l'unico stile laico", quello adatto all'"agire empirico, sperimentale, tra e con gli uomini". In definitiva, il radicale sa che la "politica è un fare di relazione" (e a questa legge è mirato il preambolo allo Statuto del partito radicale).
(QUADERNI RADICALI, ottobre-dicembre 1980 - Ripubblicato in "IL RADICALE IMPUNITO - Diritti civili, Nonviolenza, Europa", Stampa Alternativa, 1990)
Difficile, la posizione di chi fa politica partendo da una ipotesi radicale. La non compatibilità col marxista è evidente, ma il punto di partenza è diverso anche rispetto al liberaldemocratico. Il radicale infatti non condivide troppo la fiducia liberale nella bontà, o anche nella neutralità delle istituzioni, paludato e progressivo epifenomeno dello sviluppo storico, quindi rispettabili e magari dotate di un profumo etico superiore. Lo Stato non è né un bene in sé, né tantomeno un prius logico e metafisico. Il radicale è disposto a obbedire alla legge dello Stato; ma il suo primo e vero compito e obiettivo è quello di sottoporla a un processo di verificazione/falsificazione. Egli è sempre in una posizione conflittuale rispetto alla legislazione condita, il suo assillo è quello della legislazione condenda. Il suo bene risiede in un rapporto da eccitare e rinnovare continuamente.
Escluso dunque che sia un vero liberale, non si fa assimilare - ripetiamo - in nessun ordine di esegeti. Diffida della Storia e non riesce a vedersi nei panni di un portatore di valori scientifici. Non crede alla possibilità di separare la struttura dalla sovrastruttura.
Non ci crede in termini teorici né in termini morali, perché gli repugna il fatto che in nome di siffatte certezze si siano compiuti solenni e imperscrutabili delitti. Dimenticavo: sostanzialmente, egli non crede nello Spirito o nella Razionalità della Storia, o della Classe.
Non può essere dunque neanche un apostolo della Gestione del Reale. In questo senso, è davvero quello che viene accusato di essere, cioè un Irresponsabile. Il suo libertarismo lo mette in guardia (innanzitutto, sul piano teorico) dalle trappole della Responsabilità oggettiva e da quelle - parallele - della Dialettica. Se vi è una posizione da assumere la assume, e vi resta aderente fin che non si sia prodotto qualcosa che da quella posizione e situazione prenda le mosse per combinarsi in molteplici, varie, non sempre immediatamente identificabili risultanze. Ma allora, il radicale è un adepto dell'irrazionale, la vera incarnazione del Nuovo Filosofo di questi tempi?
Direi di no. Certo è però che il radicale avverte che il fare politica, nel suo massimo dato di serietà e di concepibilità teorica, è un fare superficiale. Le sue sono risposte che si situano alla superficie dell'evento, là dove l'evento è visibile, intelligibile e comunicabile. Non bisogna presumere ogni volta di mettersi a porre steccati tra sovrastruttura e struttura. Il metodo giusto di comprensione delle cose, degli eventi, è così quello narrativo. Il narrativo è l'unico stile laico. I fatti si descrivono, si scrivono (meglio ancora: si parlano, la parola e non la scrittura essendo al centro del comunicare, del vero, reale, quotidiano e colloquiale comunicare). La descrizione, la narrazione (persino l'affabulazione) sono fatte per e tra gli uomini, gli uomini come li si incontra e li si vede per la strada e nelle piazze. Una descrizione (una narrazione) che delinei sullo sfondo del continuum reale una silhouette, cioè un fatto, è di per sé intelligibile, sperimentabile, dialogica: è sufficiente e adegua
ta a promuovere azione politica. Anzi, politico è solo questo agire; agire empirico, sperimentale, tra e con gli altri uomini, per raggiungere insieme obiettivi narrabili, intelligibili, "con-cordati". Al di là di queste condizioni ci sono molte altre cose, come ci ricorda Shakespeare; che servono magari a fare e a far fare politica, a creare e consolidare il Politico, il chiuso diamante del Politico, che è il suo vero avversario. Ma appunto per questo egli diffida di tutte queste cose, e si preoccupa di sminuirne, di scemarne la portata, il peso, la pericolosità, persino la possibilità.
La politica è un fare di relazione; questa l'ipotesi sottesa alle logiche radicali, dallo Statuto del partito fino alla mozione del congresso straordinario di Roma, nonostante apparenze e passaggi faticosi. Quella "legge", suprema e rigorosa, alla quale la mozione intende legare l'agire del partito e dei suoi iscritti e militanti non è infatti legge universale, "naturale" e quindi irrelata e astratta; è quel tanto di legge legiferata e scritta che già oggi incrina e supera i valori etico-politici dello Stato e li scioglie nella relazionalità storica e attuale degli uomini (o di uomini) che vivono un concreto internazionalismo. E' la legge, convenzione ma reale, del processo di Norimberga. Certo non è una legge che si identifichi con la legge dello Stato, della statualità eretta a sistema, interprete o epifania della Storia.