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Flores d'Arcais Paolo - 17 novembre 1980
Quanto vale il nuovo Marco?
di Paolo Flores d'Arcais

SOMMARIO: I radicali annunciano per la primavera del 1982 la "rifondazione", la nascita di un nuovo partito, "quello radicale appunto"... Fino ad ora i radicali hanno privilegiato le singole battaglie, dentro una strategia concepita in termini di "grandi opposizioni morali" e di un modo di essere sostitutivo dell'"ideologia": questo modo di essere è la "democrazia riformatrice", quello che altrove è stato chiamato "costituzionalismo quale sinonimo di rivoluzione civile". Per queste ragioni, pur essendo un partito non tradizionale, il Pr è stato fuori dal '68, un movimentismo che non sapeva rinunciare "ai miti autoritari del leninismo e del maoismo". E tuttavia, proprio il Pr ha saputo trarre "alimento" dal movimentismo: tutti i "partitini" della nuova sinistra sono scomparsi, il Pr invece "ha aggregato" dimostrando anche, con i referendum, che "divisione non vuol dire sfascio". Purtroppo, esso appare essere il partito del "no". Adesso, pone "un'ipoteca sull'area socialista": "far sì che area socialista non d

iventi sinonimo di governabilità moderata ma di opposizione riformatrice oggi e di governo riformatore domani: il '68 antiautoritario più la concretezza tecnocratica".

(»L'Europeo 17 novembre 1980 - ripubblicato in "I RADICALI: COMPAGNI, QUALUNQUISTI, DESTABILIZZATORI?", a cura di Valter Vecellio, Edizioni Quaderni Radicali/5, 1981)

Rifondazione è parola troppo spesso ascoltata nella sinistra e non possiede dunque più la magia di sollevare gli entusiasmi. Pure i radicali, quando annunciano per la primavera del 1982 la nascita di un nuovo partito, quello radicale appunto, meritano un credito speciale. Molti loro comportamenti possono suscitare fastidio ma è difficile rimproverare loro incoerenze. Quello che promettono mantengono, per quanto dal loro impegno dipende. Si tratta, piuttosto, di capire quale possa essere il significato di questa ventilata »rifondazione . Il bisogno di rifondarsi, di ricominciare da capo o almeno di aprire un capitolo nuovo nasce, solitamente, da crisi o da sviluppo. In questo caso, diranno i radicali, dalle due cose insieme: da crisi di sviluppo. Per decifrare i contorni della rifondazione promessa, perciò, è necessario uno sguardo retrospettivo.

Il Partito radicale è nato anomalo nel panorama politico italiano. Con tratti anglosassoni. Alieno dalle piattaforme ideologiche e dai programmi generali e onnicomprensivi, si è caratterizzato come partito di obiettivi. Obiettivi singoli e definiti. Per ciascuno di essi una campagna, una mobilitazione, uno strumento. Facile, a conclusione, la verifica del successo o del fallimento. Ogni volta una scommessa. Le sfide radicali sembravano, infatti, un affronto al buon senso e a una ragionevole valutazione dei rapporti di forze. E invece, fin qui, tutte le scommesse sono state vinte.

Il Partito radicale, insomma, si è fatto interprete di domande politiche e che i partiti tradizionali (soprattutto di sinistra) avevano riposto in archivio. Per paura di sconfitta, per timore di rompere equilibri parlamentari, per paralizzanti abitudini alla logica di schieramento e anche, infine, per semplice inettitudine. Dietro questi obiettivi singoli, tuttavia, non una mancanza di strategia più generale. Un modo nuovo, invece, di concepirla. In termini di grandi opposizioni morali e di un modo essere sostitutivo di quello che in altri partiti è l'ideologia.

Questo modo di essere, questa moralità, erano (e sono) la democrazia riformatrice, il metodo non violento, l'istanza libertaria, la passione per le procedure. Quello che, altrove e in altri tempi, si è chiamato costituzionalismo quale sinonimo di rivoluzione civile.

Proprio per queste caratteristiche il Partito radicale, malgrado fosse l'unico partito non tradizionale, si è trovato tagliato fuori dal fenomeno '68. Un movimento antiautoritario che, contro l'autoritarismo, non ha saputo rinunciare ai miti autoritari del leninismo e del maoismo, alla versione »dura della tradizione comunista. Non è un caso, però, che proprio il Partito radicale sia l'unico a trarre alimento dalla sconvolgimento prodotto dal '68. Le filiazioni dirette di quel movimento, i partitini, sono in coma (come Democrazia proletaria) o sono divenuti satelliti del Pci (come il Pdup di Lucio Magri). Il Partito radicale, invece, ha aggregato. Non gruppi definiti ma aree, in particolare quella di Lotta continua. E' riuscito, insomma, a proporsi come partito della gente. Con i prossimi referendum tenta trasformazioni riformatrici rilevantissime e intende soprattutto dimostrare che non c'è riforma senza divisione del paese ma, insieme, che divisione non vuol dire sfascio. Anzi, che lo sfascio nasce propri

o dalla paralisi.

Perché allora crisi? Perché il Partito radicale è ancora, troppo spesso il partito dei no. Con la sua azione ha accentuato la spaccatura fra paese parlamentare (l'oligarchia partitocratica) e paese reale. Ma è anch'esso paralizzato, ad esempio, di fronte alla necessità di dare soluzione istituzionale a questo distacco crescente. Si appresta, magari, a dire altri no a proposte di riforme elettorali in chiave semplicemente efficientista ma è timoroso di avanzare proposte alternative, efficientissime e antipartitocratiche al contempo.

Con la diversità delle sue strutture ha evidenziato, e reso popolare, i guasti del centralismo democratico del Pci o del centralismo di corrente o di clientela delle altre forze. Ma non ha saputo evitare una sua forma originale di centralismo, quello tribunizio e carismatico. E deve ancora affrontare la prova del fuoco. Quella del governo di una grande città, la prova che una diversa qualità della vita (abitazioni, traffico, inquinamento, ospedali, cultura) non è utopia ma problema di capacità tecniche e pulizia morale. Quanto troppo spesso fa difetto, cioè, agli altri partiti.

Oggi il Partito radicale, col suo congresso vinto da Pannella, pone un'ipoteca sull'area socialista. Sceglie una collocazione e avanza una nuova scommessa: far sì che area socialista non diventi sinonimo di governabilità moderata ma di opposizione riformatrice oggi e di governo riformatore domani. Il '68 antiautoritario più la concretezza tecnocratica. La scommessa più difficile, ma anche la più affascinante.

 
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