Caso D'Urso. L'intervento di Spadaccia al SenatoSOMMARIO: La vicenda del rapimento del giudice Giovanni D'Urso da parte delle Brigate rosse è un passaggio cruciale della storia del regime partitocratico, nel pieno del "governo di unità nazionale". Il Partito radicale, fin dalle prime ore del rapimento, è parte in causa, e in particolare attraverso "Radio radicale", seguendo passo per passo la cronaca allucinante di quei giorni, persegue come primo e fondamentale obiettivo quello della salvezza del giudice D'Urso, che il cosiddetto "partito della fermezza" ha già invece abbandonato al suo destino, prevedendo che, dopo quello di Moro, il cadavere di D'Urso è quanto mai utile per mettere in mora le istituzioni democratiche e sostituirle con il "governo dei tecnici" a gran voce reclamato dai grandi gruppi industriali. Nell'intervento che segue, svolto da Gianfranco Spadaccia al Senato nel corso dibattito che seguì alla liberazione da parte delle Br del giudice D'Urso, si ripercorrono le tappe delle iniziative dei parlamentari radicali sul fronte delle carceri
e per impedire il "black out" dell'informazione, condizione necessaria per imporre alle Br la soluzione omicida. Secondo Spadaccia, nei giorni del caso D'Urso è stato posto in essere un torbido tentativo di accelerare una crisi di governo, un tentativo che accomuna coloro che devono farsi perdonare le collaborazioni giornalistiche di Senzani; gli stalinisti di ritorno che devono superare di forza il dibattito interno al loro partito sul centralismo democratico e sulla cosiddetta svolta di Salerno; gli editori sindoniani, come Rizzoli; il partito della grande finanza, massonica e laica. Punto di riferimento di costoro è la proposta di "Governo dei tecnici" avanzata di Visentini. Ma questo partito è stato sconfitto dalla salvezza di D'Urso: ora tenta di prendersi la rivincita.
(NOTIZIE RADICALI n.1 del 1· gennaio 1981)
... Se volessimo "trattare", se volessimo tentare il colpo clamoroso ci recheremmo a Palmi, dove si trovano Curcio e, sembra, a cura dello Stato, l'intera direzione strategica delle BR. Andiamo invece a Trani. Ci muoviamo rigorosamente nell'ambito dei nostri compiti, delle nostre funzioni, delle nostre prerogative, e nel rigoroso ambito della legge e della Costituzione: e nell'ambito di queste funzioni e nell'ambito della legge, decidiamo di muoverci, di non stare fermi, di esplorare tutti gli spiragli, soprattutto di comprensione, di conoscenza, che possono contribuire a salvare la vita di un uomo.
Ci muoviamo dunque per capire e comprendere. Ci muoviamo per salvare la vita di D'Urso ed esplorare ogni margine possibile per questa possibilità di vita. Ci muoviamo annunciando che ci rechiamo a Trani per accertare le condizioni del carcere, dei detenuti, degli agenti di custodia e per raccogliere anche la voce dei detenuti; quindi per raccogliere anche, certo, tutte le informazioni, le valutazioni che possano giovare alla lotta per la vita di D'Urso e della Repubblica. Il suono delle nostre parole è limpido: esse devono essere ignorate o deformate, come i nostri comportamenti, per eliminare questa limpidità.
Aveva scritto Marco Pannella su "Lotta Continua" in una lettera destinata ai "compagni assassini" delle BR: "Dialogo, nessuna trattativa. Non c'è trattativa possibile e degna di rispetto da qualsiasi parte, se imposta dalla violenza, con la paura, con il ricatto. Si disobbedisce agli ordini ingiusti: è un dovere. Non si collabora con chi compie violenza: è un dovere". Non trattativa, mai. Dialogo, per capire. Dialogo, per salvare la vita d'un uomo. Dialogo con la volontà e la speranza che le parole, le azioni costituzionali, legali non violente, possano per una volta disarmare le pistole.
Cito ancora dalla lettera di Marco Pannella: "Occorre questa volta (questa volta a differenza di quanto era potuto accadere per Moro), che il Partito Radicale e il movimento democratico di classe, il movimento non violento, che coloro che credono nell'umanesimo giuridico e allo Stato di diritto, che quanti non intendono sacrificare ad un progetto d'uomo o di società, l'uomo e la sua vita, che i rivoluzionari non rivoluzionisti e i riformatori non riformisti riescano ad approfondire in modo tale da consentire a questa vicenda un esito di vita, di umanità, di crescita del diritto e di deperimento e sconfitta della violenza".
E la crescita del diritto, la crescita della iniziativa dello Stato nel suo complesso, anche in termini di conoscenza del fenomeno che vuole combattere, il deperimento della violenza sono i grandi obiettivi conseguiti nella vicenda D'Urso, e che sarebbero visibili a tutti se il partito della cosiddetta fermezza, sconfitto nei suoi intenti di inerzia e di morte non volesse oggi oscurarli e renderli invisibili nella sua tenace ottusità.
Ed eravamo mossi anche da un altro scopo: guadagnare tempo, tempo per le indagini, tempo per lo Stato, tempo per la vita di D'Urso nella speranza che il tempo guadagnato potesse comunque portare fino al covo dove D'Urso era tenuto prigioniero. "Non avevamo avvertito il ministro perché non c'erano autorizzazioni da dare o da ricevere. E' il ministro a cercarci la mattina stessa del nostro arrivo a Trani, a cercare e a parlare con De Cataldo per telefono".
Si è parlato di Trani come se a Trani non per uno ma per ben tre giorni noi fossimo stati i padroni del carcere, come se non esistessero autorità penitenziarie, giudici di sorveglianza, corpo degli agenti di custodia, come se il ministro non fosse responsabile di una amministrazione burocratica complessa e pignola e sedesse invece su un enorme vuoto di responsabilità e di potere.
Si è fatto di peggio: si è parlato di irregolarità, gettando un'ombra sui funzionari e sui giudici che le avrebbero consentite. Questo non è mai avvenuto, perché irregolarità non si sono verificate. E di tutto ciò che è avvenuto il ministro era a conoscenza, non poteva non essere a conoscenza.
Nei tre giorni che siamo stati a Trani, abbiamo avuto problemi solo con il procuratore della Repubblica De Marinis, il pomeriggio del primo giorno. Mai con il ministero. Ed anche i problemi con il procuratore della Repubblica, che riguardavano la giusta esigenza, difficile da assicurare, di non interferire con l'istruttoria sulla rivolta, sono state evidentemente risolte in modo positivo, se gli stessi problemi non si sono "mai" riproposti nei due giorni successivi.
Si è detto e ripetuto di assemblee, mai avvenute. Si è parlato di trattative sulla salvezza di D'Urso con delegazioni di detenuti, trattative mai avvenute, e delegazioni formate su proposta e iniziativa del direttore, nell'ambito rigoroso delle possibilità offerte dalla legge penitenziaria. La nostra testimonianza, la nostra relazione, la nostra verità su quella visita l'abbiamo consegnata agli unici interlocutori competenti a riceverle: i presidenti delle sue camere.
Ma il nodo del problema è altrove: è nell'accusa secondo la quale ci saremmo prestati a diventare "megafoni" delle BR. E' il problema della pubblicazione del documento ricevuto dalle mani del brigatista detenuto Seghetti. Diciamo a Seghetti nel riceverlo che sarà consegnato al ministro e alla autorità giudiziaria. Diciamo che non siamo postini di nessuno e che, pertanto, ci riserviamo la nostra valutazione e la nostra decisione su di esso. La nostra e non di altri.
"Subito dopo ne consegnammo fotocopia al direttore del carcere. Quindi sicuramente il procuratore della Repubblica ne è informato. Quel documento rimane nelle nostre tasche fino alle 20 di sera, quindi con noi in carcere". Non alle 14, ma neppure alle 20 di sera nessuno dal "Ministero chiede di consegnarlo". Solo il direttore lo aveva fatto, e poi aveva desistito. Ci saremmo opposti a questa richiesta avremmo resistito. Ci saremmo rivolti ai presidenti delle due camere.
Sta di fatto che nessuna richiesta di quella natura, nessun ordine ci è stato rivolto. E quando De Cataldo a Roma mostrerà il documento a Sarti, nessuna iniziativa di sequestro viene decisa: il ministro "sorridente - sono le parole di De Cataldo - si limita a dire che, come ministro non può non chiedere di non pubblicarlo, di non renderlo noto. Non diffida, non sequestra, non fa comunicati. Il ministro "non può non chiedere", sorridente.
In una vicenda durata dieci giorni dal momento del nostro ingresso al carcere di Trani, tutto deve essere appiattito nella polemica intorno alla ridicola accusa dei radicali compagni dei "compagni assassini", dei radicali fiancheggiatori, dei radicali megafoni, peggio, complici delle BR. Tutto perfino le date.
"Noi teniamo quel documento tre giorni. Lo rendiamo noto alla stampa soltanto il pomeriggio del terzo giorno. Quando? Quando dalla mattina sono in vendita tutti i giornali italiani con al notizia sparata in prima pagina che da Palmi Curcio aveva "graziato" D'Urso. Quando? Quando da ventiquattro ore qualcuno era uscito da un incontro con Curcio recando questa notizia e recando un documento, consegnato al direttore del carcere e al giudice di sorveglianza".
Quella notizia è palesemente contraddetta dal documento oggi noto. Noi lo sappiamo subito, non a Trani, ma da altra fonte. Lo dovevano sapere anche coloro che avevano responsabilità di Stato e probabilmente anche responsabilità di stampa, come traspare non dai titoli o dalla maggioranza dei titoli, ma dagli articoli.
"Chi aveva interesse a creare questo equivoco? Qualcuno all'interno delle BR di Palmi, o qualcuno altrove? Non lo sappiamo. Non ci interessa. Ci interessa diradare questo equivoco, che riteniamo possa spianare la strada all'uccisione di D'Urso. E' certo che solo dopo che la stampa del preteso black out ha sparato in prima pagina la grazia di Curcio, noi consegnammo alla stampa il comunicato di Trani". E' solo dopo, De Cataldo e Pannella si recano a Palmi per tentare di comprendere la situazione. A Palmi non avviene nessuna visita. La visita al carcere di Palmi deve ancora avvenire. Pannella e De Cataldo si recano - è detto nel comunicato - preparare una eventuale visita. Ma anche questo diventa motivo di speculazione e per un ex cronista del "Corriere della Sera", divenuto direttore dell'ammiraglia dell'impero Rizzoli, non dimentico dei tempi in cui si mandava giornalisti a intervistare per conto non solo del giornale ma dei servizi.
E' a questo punto che scatena l'odio e il furore. Scalfari lo dice esplicitamente. Il rendere noti i documenti espone la stampa a prendere una decisione, a scegliere la pubblicazione o la non pubblicazione. E' il problema del cosiddetto Balck Out. Quando compare il comunicato n. 9 si deve dire, in palese contrasto con la verità, che esso alza il prezzo del ricatto delle BR. Si deve scrivere anche qui, in palese contrasto con la verità, che la pubblicazione rappresenterebbe un precedente. E' vero esattamente il contrario: esiste una serie di precedenti ininterrotta che quella stampa del cosiddetto black-out ha costruito.
Ma è inutile correre appresso alle menzogne e alle falsità. In quei giorni è in gioco un tentativo torbido di accelerare sul governo Forlani e su alcuni comportamenti, ineccepibili e legittimi del governo Forlani, una crisi di governo. Questo tentativo unifica ormai coloro che si devono far perdonare le collaborazioni giornalistiche di Senzani, stalinisti di ritorno che devono superare di forza il dibattito interno al loro partito sul centralismo democratico e sulla cosiddetta svolta di Salerno, editori sindoniani come Rizzoli, e intorno a Rizzoli il partito crispino e il partito della grande finanza, della finanza sindoniana e il partito della finanza massonica e laica. Il portabandiera di questo schieramento diventa, con il suo prestigio, di resistente e di antifascista, il senatore a vita Leo Valiani. Il punto di riferimento diventa il cosiddetto governo Visentini. Ma Di Bella si spinge più avanti in una recente intervista a "Repubblica", fino ad avanzare le candidature di Pecchioli e di Pajetta non in mi
nisteri economici, ma in ministeri degli interni o che possano attendere in qualche modo con l'ordine pubblico.
Questo partito è stato sconfitto dalla salvezza di D'Urso, ed ha tentato e tenta in questi giorni di prendersi la rivincita. Non ha avuto un cadavere. Non ha avuto l'avallo del Quirinale che aveva sollecitato e tentato di accreditare. E' scavalcato da nuove polemiche, anch'esse in gran parte fuorvianti, ma che portano lo scontro in altre direzioni. E' a questo punto che Lei, ministro Sarti, cede a questo partito, il quale ha bisogno di dimostrare uno "Stato debole e capitolardo", con linguaggio dannunziano e fascista. E Lei gli offre gli inesistenti negoziatori radicali. Gli offre le pretese illegalità e irregolarità dei radicali che avrebbero carpito la sua buona fede, ineffabile ministro Sarti, e tradito la Sua fiducia. A questo gioco non ci prestiamo. Le BR vogliono dimostrare che lo Stato di diritto non esiste, ma esiste solo uno Stato fondato sulla violenza di classe. Cede alle BR chi gli offre questa dimostrazione... Il partito della fermezza vuole ciò che le BR chiedono. E' qui il vero fronte del cedi
mento. E su questo fronte della vera fermezza di chi crede nei valori dello Stato di diritto. Lei è stato vile. Gioia viene assolto perché ha violato leggi dello Stato. Lei che non ha violato nessuna legge. Lei che si è comportato secondo la legge, ha sentito il bisogno di avallare la tesi della illegalità quasi che solo un ministro che si comporta contro la legalità o tollera illegalità possa essere difeso in questa Repubblica.