Ricostruiamo la vicenda del rapimentoSOMMARIO: Giorno per giorno come i radicali sono riusciti a vincere e a convincere. Come sia stato cercato il dialogo con i "compagni assassini", senza trattare e senza cedere, contro quel partito "della fermezza" che è stato in realtà partito dell'inerzia e dell'indifferenza, della morte e dello sfascio. La sconfitta non è tanto quella delle Br, come credono gli imbecilli, i lugubri e i violenti, quanto quella di ciò che le Br possono far crescere: l'ennesimo grido disperato e suicida di "Viva la muerte". Le tappe di questa battaglia: dal rapimento ai primi comunicati, una nuova strategia delle Br. Le reazioni politiche; il dibattito alla Camera; l'arresto di Marco Donat Cattin a Parigi; il vuoto d'iniziativa delle forze politiche. Su "Lotta Continua" la lettera di Marco Pannella alle Brigate rosse; la chiusura del carcere dell'Asinara. Scoppia la rivolta nel super-carcere di Trani prima, di Palmi poi. Lo scoop de "L'Espresso": pubblicato l'interrogatoria a D'Urso.L'assassinio del Generale Galvaligi. A Radi
o radicale, in filo diretto, il tam - tam delle notizie dalle carceri assediate. Le Br condannano a morte D'Urso: può essere salvato se saranno pubblicati integralmente i comunicati dei prigionieri in rivolta a Trani e a Palmi. L'appello alle Br di Leonardo Sciascia; l'appello ai direttori dei giornali raccoglie le adesioni della vedova Tobagi, della vedova Moro, del figlio di Carlo Casalegno, tra gli altri. A Montecitorio una nuova saldatura del partito della fermezza. Sulla pelle di D'Urso s'inseriscono giochi politici gravissimi. Torna in auge la proposta Visentini di un governo "dei tecnici" per salvare l'economia nazionale. Il Pci spinge per la soluzione forte. Il Partito radicale offre la sua Tribuna politica alla famiglia D'Urso: la figlia Lorena legge i comunicati delle carceri di Palmi e di Trani. Gli attacchi de "L'unità" e di "Repubblica". Le pressioni sul Presidente Pertini. La liberazione di D'urso crea la crisi del "partito della fermezza", che deve far dimentacare al paese di essere stato inna
nzi tutto "partito della morte e dello sfascio".
(NOTIZIE RADICALI n.1 del 1· gennaio 1981)
Il rapimento
Sono le 22.15 di venerdì 12 dicembre. Nella redazione del Messaggero v'è un clima di relativa sonnolenza. Il quadro delle notizie è più o meno completo, salvo sorprese, quindi non resta che ordinarle e sistemarle per l'edizione nazionale. Improvvisamente il centralinista comunica che uno sconosciuto vuole urgentemente parlare con un redattore. Risponde il capo servizio in cronaca, Mario Spetia. Dall'altra parte dell'apparecchio, come si intuisce dal tono, vi è sicuramente un giovane, che parla con precipitazione. Dalle sue parole non sempre comprensibili si stacca tuttavia con chiarezza questo messaggio: "Qui br. Abbiamo prelevato il magistrato Giovanni D'Urso. Chiediamo la soppressione del carcere dell'Asinara. Segue comunicato..."
Una nuova strategia
Il rapimento di D'Urso, questo appare presto evidente, ha rimesso in discussione l'intera strategia antiterroristica del governo, e lo stesso generale Dalla Chiesa, il quale è l'ispiratore ancor prima che l'esecutore di tale strategia. Si ha un contraccolpo che riapre gli interrogativi inquietanti avanzati all'indomani del rapimento Moro. La disinvoltura con cui l'operazione è stata portata a termine insinua il sospetto che la capacità operativa delle brigate rosse sia, tutt'altro che in via di esaurimento, come da più mesi gli organi di stampa vorrebbero far credere facendo leva sugli arresti a grappoli da tempo in corso.
Ancora una volta si vuole - certo - portare l'attacco "al cuore dello Stato". Ma mentre nel caso Moro la strategia puntava a una destabilizzazione dai vertici alla base, nel caso D'Urso l'azione appare finalizzata direttamente allo smantellamento del sistema carcerario, nell'immediato alla chiusura dell'Asinara e delle sezioni di massima sicurezza delle altre carceri.
I comunicati
Questa svolta, che d'altronde non rappresenta una novità in assoluto, è abbastanza nettamente enunciata dagli stessi interessati. Coerenti con la promessa fatta al Messaggero, nelle prime ore del pomeriggio del 13 dicembre i rapitori depositano in un cestino dei rifiuti di fronte al cinema Ambassade, in via Accademia degli Agiati, il primo comunicato. Acclusa al comunicato è una foto in cui, sullo sfondo in un pannello che reca la scritta "Brigate Rosse" a caratteri cubitali, con al centro la stella a cinque punte, risalta l'immagine spaurita del magistrato D'Urso, insieme a un cartello dove campeggia la scritta: "Chiudete immediatamente l'Asinara". Il copione è lo stesso di quello usato a suo tempo per il giudice Mario Sossi, per il giudice Giuseppe Di Gennaro e per Aldo Moro.
Quanto al possibile esito del processo, per adesso i brigatisti non si sbottonano molto; ma dalla truculenza del linguaggio lasciano intuire che non c'è da aspettarsi niente di buono.
Le reazioni politiche
Il giorno 15 dicembre viene diffuso un altro volantino, che tuttavia non aggiunge niente a quello precedente, eccezion fatta per informazioni relative al giudice D'Urso, "che sta bene", e compiaciuti accenni al "processo" in corso.
Sul fronte delle indagini si segna il passo. E' sul piano politico, invece, che il problema non tarda a diventare incandescente. Il primo a scendere in campo, immediatamente dopo il rapimento, è il senatore Leo Valiani, editorialista del Corriere della Sera, sostenitore da sempre del pungo di ferro: "Al rapimento D'Urso - si affretta a scrivere sul foglio rizzoliano - è necessario rispondere con la stessa fermezza con cui si rispose al sequestro Moro". E' lo stesso che dire alle brigate rosse: "Spicciatevi a spedirci un cadavere, e non se ne parli più". Contemporaneamente Valiani esulta per la proroga del fermo di polizia, esortando però a farne "finalmente energico uso".
"Non si tratta di dividersi in falchi e colombe - afferma Mammì - ma di chiederci se al sequestro non seguirebbe sequestro, a ricatto ricatto, a cedimento cedimento, qualora venisse a trattare con un partito armato che ha disperato bisogno di ricostruire attorno a sé fasce di solidarietà presentandosi come valido contropotere". Non diversamente Ugo Pecchioli, responsabile della sezione problemi dello Stato del pci, aveva il giorno prima, come dire poche ore dopo il rapimento, rilasciata questa perentoria affermazione pubblicata in un riquadro sulla prima pagina dell'Unità (particolare che ne fa risaltare il carattere ufficiale, coinvolgendo la responsabilità di tutto il partito): "Ogni cedimento ai ricatti sarebbe inaccettabile. Oltretutto, se si cedesse, si ridarebbe spazio e forza al terrorismo, lo si aiuterebbe a superare la crisi in cui si trova".
La prematura indisponibilità repubblicana a una trattativa, peraltro ancora non richiesta, è in realtà un avvertimento a Forlani, per forzarne la volontà e predisporlo ad esercitare tutta la sua influenza sulle altre forze della maggioranza che avessero tentazioni umanitarie. Forlani, fin qui, ha avuto soltanto contatti informali, telefonici, con Piccoli, Craxi, Spadolini e Longo; attende di convocarli intorno a un tavolo per decidere una linea unitaria. Però Craxi ha già espresso un punto di vista che si differenzia sensibilmente da quello repubblicano, avendo a presupposto non la "fermezza" ma l'istanza umanitaria.
Per i radicali il problema di trattare o meno è pretestuoso. E se proprio lo Stato deve affermare una sua fermezza, non può mai farlo omettendo gli adempimenti democratici ai quali è tenuto, o in altri termini usare l'alibi di un "ricatto" per legittimare la sua mancanza di tenuta democratica.
Non esistendo di fatto un "ricatto" terrorista, o una sia pur larvata proposta di negoziato, l'intransigenza antinegoziale è rivolta all'indietro, non in avanti; non può essere interpretata diversamente che come un siluro verso provvedimenti in via di attuazione o comunque dovuti. Poiché l'Asinara stava per essere chiuso, ne era programmato ed era in sorso lo smantellamento molto prima del comunicato numero uno delle brigate rosse, un irrigidimento verso queste ultime è un modo rozzo di tentare di bloccare un processo già avviato.
Almeno per l'Asinara, se non per tutto il sistema carcerario, ad eccezione dei missini (per i quali l'autorità dello Stato si misura dal numero di persone che sbatte in galera) vi è uno schieramento unanime per la liquidazione e chiusura. La divergenza è sui tempi, che i duri, capeggiati dai repubblicani, vorrebbero posporre, perché così darebbero una "prova di forza" ai brigatisti, come se il problema della democrazia nel paese si riducesse a un confronto tra Stato e terrorismo. Il governo, per adesso, si tiene prudenzialmente a distanza.
Il dibattito alla camera
Il 15 dicembre il problema si sposta a Montecitorio, dove sono state depositate decine di interpellanze e interrogazioni alle quali il governo deve rispondere. A parte le interpellanze radicali, tendenti ad accertare quali iniziative si intendono intraprendere per la liberazione di D'Urso, la maggioranza dei parlamentari interroganti si accontenterebbe di sapere quale sia stata la dinamica del rapimento.
Il radicale Franco De Cataldo, benché prenda atto della disponibilità del governo a dibattere i problemi della sicurezza, obietta al ministro che l'azione del governo è fallimentare da ogni punto di vista, e che l'ultima iniziativa presa in concomitanza con il sequestro del magistrato, di prolungare cioè per sessanta giorni il fermo di polizia, serve semmai ad "incrudelire la spirale della violenza". Marco Boato risale più indietro, e accusa il governo di gravi omissioni, che hanno preparato il terreno al sequestro del magistrato.
La lettera di Pannella
Dal 16 a 24 dicembre c'è vuoto quasi assoluto di iniziativa politica. La polemica prosegue incandescente, ma non esce dai binari fin qui tracciati. Col trascorrere dei giorni però, nel timore che possa essere fatto qualcosa al fine di facilitare la liberazione di D'Urso, il "partito della fermezza" s'incarognisce. Di nuovo, sul fronte specifico del sequestro non c'è niente, ma di eventi coinvolgenti il fenomeno terroristico se ne verificano parecchi. Mentre si discute sul terzo comunicato brigatista (lo esamineremo poco più avanti) da Parigi giunge la notizia che nella notte del 19 dicembre, all'esterno di una brasserie degli Champs Elysées, è stato arrestato Marco Donat Cattin, uno dei leader di Prima Linea inseguito per circa tra anni da mandati di cattura per omicidi, rapine e appartenenza a banda armata. Nel pomeriggio del 20 dicembre, mentre una sapiente regia pilota l'esultanza per questa operazione, Alberto Buonoconto, considerato uno dei capi storici dei Nap, consuma l'ultimo atto della sua tragica o
dissea impiccandosi nella sua casa di Napoli, in via Nennella Di Massimo, al Vomero.
Tra le forze politiche, solo i radicali sviluppano un'azione tale da avere effetti presumibilmente positivi per la salvezza di D'Urso. Adelaide Aglietta, Franco De Cataldo e Marco Boato inviano al ministro di Grazia e Giustizia una lettera per ricordare che da tempo politici, sociologi, magistrati concordano sulla necessità di chiudere l'Asinara. Ma il comunicato numero 3 delle br, un messaggio per molti versi anomalo e strano, sembra chiamarli direttamente in causa. Secondo il messaggio - che la Digos stenta a riconoscere come autentico - i radicali dovrebbero proseguire nella loro opera, favorendo il dibattito sulle carceri, sulla loro linea tradizionale. Il gruppo parlamentare decide di proseguire con ancora maggiore decisione lungo la via già tracciata. Ogni iniziativa, ripetono sia il gruppo che il consiglio federativo del partito subito riunito, deve essere assunta alla luce del sole, perché sia giudicata da tutti: questo, si ribadisce, è il primo significato del termine "dialogo".
Arriva infine il quarto comunicato dei brigatisti. Non contiene richieste rivolte al governo o proposte di trattative. Pur tra minacce, però, è ormai chiaro che la sorte del magistrato rapito potrebbe cambiare, in senso positivo, qualora intervengano fatti nuovi circa le carceri di massima sicurezza.
Ma a sconvolgere le acque il 24 dicembre appare su Lotta Continua una lettera di Marco Pannella indirizzata alle br. "Dialogo, dialogo, dialogo" - grida Pannella ai brigatisti, che con grave scandalo di tutti chiama "compagni assassini". "Nessuna trattativa. Non c'è trattiva possibile e degna di rispetto da qualsiasi parte se imposta dalla violenza, con la paura, con il ricatto. Non si collabora con chi compie la violenza: è un dovere. Non vi sono regole di guerra da seguire: per fortuna e per volontà del popolo la guerra è bandita dalla Costituzione, dettata dall'antifascismo della Resistenza, e tradita dall'antifascismo e dal neofascismo dei partiti parlamentari, dal 1947 ad oggi, con la sola eccezione del partito radicale".
Pannella chiede la liberazione di D'Urso: senza condizioni. Un cadavere legittimerebbe la violenza del potere, ammonisce, offrirebbe su un piatto d'argento il pretesto per perpetuare il tradimento della Costituzione e delle stesse leggi dello Stato, in atto dal 1947. In fondo è quel che si attende, e non fosse altro che per questo bisognerebbe negarlo. "Ma siete sicuri, compagni - se tali vi ritenete - che già ora non convenga, non vi convenga, liberare, rilasciare Giovani D'Urso?" chiede Pannella ai brigatisti. "In realtà non lo desiderano, non se l'aspettano. Non ne sarebbero felici. Se l'aspetta, invece, ne sarebbe felice, e lo sapete, la gente, noi, voi stessi".
Certo v'è il precedente di Moro, e non a caso ora lo scenario ne riproduce per le grandi linee la trama e lo svolgimento. "Ma con una differenza grande, che nessuno sembra avere vagliato; il 16 marzo si assassinarono, per catturare Aldo Moro, gli uomini della sua scorta, gli umili lavoratori di polizia che compivano la loro fatica. Liberare Moro, il potente, il nemico, dopo avere assassinato a via Fani i quattro agenti costituiva una difficoltà politica, ideologica, umana anche, una contraddizione pericolosa".
C'è da augurarsi che nel parlamento italiano - prosegue Pannella - "vi sia chi pensi, ora, subito, oltre ai compagni radicali, a proporre una mozione, uno strumento di dibattito per un indirizzo nuovo e fecondo di risposta politica al pericolo in cui tenete D'Urso. Non si tratta di sconfiggere voi, come questo imbecilli lugubri e violenti credono o sentono, ma di sconfiggere quel che in voi può far crescere e determinare il peggio, un ennesimo grido di viva la muerte, disperato e sempre anche suicida, se viene da chi si ritiene o sia compagno".
Chiude l'Asinara
La lettera di Pannella scatena la rabbia tra i fautori della "fermezza", che hanno come battistrada il comunista Pecchioli e il repubblicano Mammì. La vita di D'Urso può bene essere sacrificata alla faccia feroce da mostrare ai brigatisti. Questo però non impedisce che sulla scia radicale il fronte umanitario si allarghi. Poco dopo la pubblicazione della lettera di Pannella numerosi intellettuali, tra i quali Sabino Acquaviva, Gianni Baget Bozzo, Marco Boato, Cesare Cases, Oreste del Buono e Franco Fortini, sottoscrivono un appello perché "si proceda subito alla chiusura del carcere dell'Asinara, nella serena consapevolezza, non di cedere a un ricatto, ma di attuare quanto riconosciuto giusto e opportuno in piena libertà".
Successivamente, proprio nel giorno di Natale, un comunicato della direzione del PSI chiede anche esso esplicitamente l'immediata chiusura del carcere speciale.
24 ore dopo, il giorno di Santo Stefano, una nota del ministero di Grazia e Giustizia, concordata - pare - in riunione a palazzo Chigi tra Forlani, Rognoni e Sarti, annuncia che il programma per la chiusura della sezione speciale del carcere dell'Asinara "è da tempo predisposto, e viene progressivamente attuata tanto che i detenuti della sezione Fornelli (appunto la sezione speciale), già considerevolmente inferiori rispetto alle possibilità effettive di accoglimento, risultano oggi in numero di 25 e scenderanno a 18 entro la settimana... il completamento del piano si sgombero impegnerà tempi brevi".
I comunisti s'indignano, ma anche esultano: per loro, se il provvedimento è segno di un "inaccettabile cedimento", di una grave resa ai brigatisti, è anche sintomatico di franamenti tra le forze della maggioranza. In prospettiva vedono elezioni anticipate, alle quali la dc arriverebbe impotente e frustrata.
La rivolta di Trani
Più che dalle polemiche, però, il 28 dicembre l'ambiente è messo a rumore da una successione di fatti che danno anche la sensazione di non essere episodici, anzi di preludere ad eventi più drammatici. Nel supercarcere di Trani i detenuti si rivoltano prendendo in ostaggio 19 agenti di custodia, e contemporaneamente i rapitori di D'Urso diramano un quinto comunicato, con acclusa una lettera di D'Urso al direttore degli istituti penitenziari sulla chiusura dell'Asinara.
Cedendo alle istigazioni degli organi di stampa i fautori della "non trattativa" si scatenano esercitando una forte pressione per un intervento immediato. Ai repubblicani non par vero di potersi prendere una rivincita per il rospo che hanno dovuto ingoiare; così trasmettono tempestivamente una nota a palazzo Chigi di questo tenore: "un filo comune lega la rivolta di Trani al sequestro del giudice D'Urso. Nessun cedimento è concepibile in queste condizioni".
Siamo a lunedì 29 dicembre. Alle 14 o poco più si conclude il vertice dei ministri della sicurezza, e qualche minuto dopo il ministro Sarti detta il fonogramma col quale invita il direttore del carcere di Trani a richiedere "il necessario intervento delle forze dell'ordine". La risposta, nel senso desiderato, arriva in meno di un'ora. Scatta quindi l'operazione che segue un "no" secco alle possibili soluzioni per le vie normali.
L'esultanza per la restaurazione "fermezza" è indescrivibile. L'avanguardia dei "duri" la fa da smargiassa tra l'opinione pubblica, sbandierando anche nuove dichiarazioni di Pertini contro le trattative e per l'intransigenza. Pertini non vuole esplicitamente sbottonarsi sulla decisione di chiusura dell'Asinara, in quanto provvedimento amministrativo di competenza del governo, ma gli preme ribadire: "Con Moro si agì diversamente. Lo Stato non deve cedere".
Qualche ora prima dell'inizio del blitz era però arrivato il sesto comunicato brigatista, datato 29 dicembre, con allegato il comunicato numero 1 del "Comitato di lotta dei proletari prigionieri di Trani". Il possesso di quest'ultimo documento a parte dei rapitori di D'Urso dà la stura alle congetture più fantasiose, fino all'ipotesi di una programmazione e organizzazione congiunta, tra brigatisti esterni e detenuti, della rivolta di Trani e dello stesso rapimento del magistrato, che più degli agenti presi in ostaggio in carcere sarebbe servito come "merce di scambio" di sicuro affidamento.
Nel comunicato n. 6, benché scritto prima del blitz, l'intervento dei corpi speciali è solo previsto, anzi prospettato in termini di sfida: "Qualunque cosa il governo stia tramando per reprimere le lotte dei proletari prigionieri a Trani, sappia che troverà un'immediata risposta dalle brigate rosse". Segue un'intimazione che alcuni interpretano come una minaccia per D'Urso: "I comunicati emessi da Trani e da Pali devono essere pubblicati immediatamente e integralmente. Ciò che hanno da dire sul loro programma i proletari di questi due campi va raccolto dalla loro viva voce. Se quanto detto verrà disatteso, in tutto o in parte, trarremo la conclusione che vostra politica omicida non ammette da parte delle forze rivoluzionarie alcuna esitazione: agiremo di conseguenza".
L'assassinio di Galvaligi
Qualcosa nell'aria fa presentire che ora i tempi incalzano. L'ansia di farla finita predispone al peggio. A mettere a rumore la mattinata del giorno di San Silvestro, quando nella memoria ancora non sono disfatte le immagini dell'esposizione della più sofisticata chincaglieria da 007 nel carcere di Trani, è la notizia di un formidabile scoop del settimanale romano L'Espresso: la pubblicazione, nel numero in edicola sabato 3 gennaio 1981, del verbale d'interrogatorio del magistrato prigioniero e di una intervista alle brigate rosse, articolata su 54 domande. Le domande saranno poi molte di meno, e soprattutto sembreranno più suggerite dagli intervistati che ....
... sono Mario Scialoja e Giampaolo Bultrini.
Il testo dell'interrogatorio D'Urso trasmesso all'Espresso conferma quanto già si sapeva attraverso precedenti comunicati brigatisti, nei quali si rilevava che il prigioniero "collabora". Nel complesso, esso non trasmette, tuttavia, novità di rilievo. Non si è ancora assorbita l'eco di questa clamorosa vicenda, che un altro evento assai più grave di abbatte sul paese: l'assassinio del generale dei carabinieri Galvaligi, subito rivendicato dalle b.r.: "Abbiamo giustiziato il generale Enrico Galvaligi, del coordinamento dei servizi di sicurezza delle carceri". Il delitto è commesso con una tecnica collaudata ed efficace; nonostante le misure messe subito in atto, dei killer nemmeno l'ombra, le indagini non li rintracciano. Tutto quel che resta è il volantino n. 7, nel quale si dice esplicitamente che l'assassinio è la risposta al blitz di Trani.
D'Urso condannato a morte
Mentre si riordinano le carte, si comincia però ad apprendere che il blitz di Trani è stato tutt'altro che indolore. La prima denuncia si ha in un filo diretto del 4 gennaio di Radio Radicale, condotto in studio da Franco Roccella. Da Milano telefona la convivente di Vaccher, del comitato dei familiari dei detenuti del carcere di Trani, la quale dice di chiamarsi Daniela, rifiutandosi di rivelare il suo cognome. Chiede di leggere, e le è consentito, il seguente appello: "I familiari dei detenuti del carcere di Trani fanno un appello per sollecitare l'immediato intervento della commissione medica esterna perché verifichi direttamente l'attuale condizione fisica dei detenuti dopo la rivolta avvenuta domenica 28 dicembre". Le notizie finora raccolte, prosegue Daniela, "parlano di torture, di pesanti pestaggi subiti indistintamente da tutti. Sappiamo che molti dei nostri sono stati presi e torturati, e molti hanno subito trauma cranico".
Il giorno dopo, una delegazione di parlamentari radicali, composta dai senatori Gianfranco Spadaccia e Sergio Stanzani e dai deputati Domenico Pinto, Massimo Teodori e Franco De Cataldo parte per Trani e Palmi, per accertare il fondamento delle accuse di Daniela e conoscere le ragioni dei detenuti. Le accuse di Daniela saranno confermate: 47 detenuti, per circa tre ore, quindi durante e dopo il blitz, sono stati percossi e pestati, e molti in modi anche selvaggi; la maggioranza di essi ha mani o dita fratturate, lesioni craniche e lesioni diffuse. Tutti, per una notte intera, sono stati tenuti all'addiaccio. Rientrando dalla visita, i parlamentari radicali porteranno anche i documenti emessi dai comitati dei detenuti e li distribuiranno alla stampa per la pubblicazione.
Ma nel corso della telefonata di Daniela a Radio radicale giunge un dispaccio ANSA con questa drammatica notizia: le br, con il comunicato numero 8, annunciano di aver condannato a morte il magistrato rapito il 12 dicembre scorso, aggiungendo che eventualmente l'esecuzione potrà essere sospesa "se non sarà impedito al comitato dei prigionieri di Trani, al comitato di campo dei prigionieri di Palmi, di esprimere integralmente, senza censurare neanche le virgole, le loro valutazioni politiche e il loro giudizio. questo vogliamo sentirlo dai vostri strumenti radio-televisivi, leggerlo sui maggiori quotidiani italiani, così come avevano chiesto i proletari in lotta di Trani".
All'arrivo del volantino, si leva all'unisono il coro della "non trattativa". Tutti gli organi di stampa si allineano all'indicazione partita dal romano Il Tempo, dal montanelliano Giornale Nuovo, dall'Unità e dal Paese Sera. Il Tempo annuncia "il più completo silenzio stampa sulle richieste dei terroristi rapitori di D'Urso". Il blocco mostra però significative crepe. Si susseguiranno, in quei giorni, drammatiche assemblee redazionali, alcuni direttori apertamente affermeranno disponibilità, sul piano umanitario, a pubblicare i documenti carcerari. Su questa linea, variamente (e in modo sofferto) interpretata, si attestano L'Avanti, Il Messaggero, Il Secolo XIX, Il Giorno. Giuliano Zincone, direttore del Lavoro di Genova, pubblica il documento, e subito dopo si dimette. Rizzoli, proprietario del giornale, lo esonera persino dal passaggio delle consegne. La classe dei giornalisti è sconvolta dalla responsabilità che le viene accollata.
L'appello di Sciascia
E' dunque vero quanto viene affermato dai radicali. Qui non si tratta di governo, né di deprecati suoi cedimenti. La vita di D'Urso è esclusivamente nelle mani dei direttori di giornali. Se tre o quattro di loro fossero disposti a dare, in cambio del cadavere del magistrato, "due colonne di piombo", il dramma sarebbe dissolto: solo due colonne di piombo sarebbero sufficienti. L'appello, le denunce di "Radio Radicale" - dove confluiscono di ora in ora adesioni importanti, in un crescendo confortante - per la sordità dimostrata da giornali che in altre occasioni hanno sempre dato enorme e ingiustificato spazio alla documentazione dei brigatisti, alle loro teorizzazioni, alle loro farneticazioni, appaiono avere la chiarezza delle cose evidenti. Pannella ribadisce che i radicali si adopereranno con tutti i mezzi legali e costituzionali "per rendersi interpreti delle voci dei detenuti, conformemente a una linea che non è di cedimento all'intenzione contenuta nel volantino n. 8, ma di coerente fermezza nel persegu
ire una politica di riforma carceraria, di smilitarizzazione della polizia e di adeguamento e riassetto della posizione e dello status degli agenti di custodia".
Lo sbarramento antiradicale si fa fuoco. Ci si rende conto che questa volta non succederà come con Moro, quando il partito "umanitario" fu in definitiva remissivo, rispetto all'asse della durezza, rappresentato da Zaccagnini, Andreotti, Berlinguer. All'appello rivolto da Sciascia ai direttori dei giornali, perché pubblichino i documenti dei detenuti, aderiscono infatti la vedova di Walter Tobagi, la vedova di Aldo Moro, il figlio di Carlo Casalegno. Nel suo messaggio ai direttori, Sciascia ripete che "i giornali non sono il governo" e che "il sottostare al ricatto è molto più nobile e proficuo, in questo momento, che rifiutarvisi". Sciascia ammonisce che il blackout deve essere una decisione drastica e assoluta, da rispettare sempre e per sempre, ma che non si possono ora mutare le regole del gioco: le br, hanno sempre potuto contare sull'interesse dei giornali ad amplificare i loro discorsi, e il mutamento di rotta non può essere giustificato, ora, in nessuna maniera.
Si è - e lo si avverte - alla stretta finale. E ora tutti, tranne, i radicali, hanno voltato le spalle a D'Urso. I socialisti intervengono presso la stampa, ma non vogliono scoprirsi, non assumono una chiara posizione pubblica: eppure, se si vuole salvare la vita di D'Urso occorre fare quanto è possibile, con decisione, senza lacune spesa (politica), senza alcuna compromissione, anche se - ancora - senza alcuna trattativa: non vi è tra l'altro, nemmeno in queste ore angosciose, nulla da trattare, e il governo non è minimamente chiamato in causa, né con la "fermezza" né senza, poiché non gli è chiesto niente, né deve far niente; deve soltanto non intervenire perché sia mantenuto il blackout: sono i giornali che debbono decidere.
Riprende intanto il dibattito a Montecitorio, il governo deve rispondere a una valanga di interpellanze e interrogazioni. Anche in questa sede, il partito della fermezza utilizza spregiudicatamente la vicenda, rendendo sempre più chiaro il disegno che è sotto i suoi comportamenti. Si vuole spaccare il governo, isolando il PSI dalla DC e dal PRI. Ed è proprio il PRI (avendo come interlocutore, dall'esterno della maggioranza, il PCI) che scopre con più determinazione le carte. Nella DC, l'ala zaccagniniana difende il suo ruolo nella vicenda di due anni prima, nel caso Moro, e insieme spinge l'intero partito a una nuova intesa col PCI. Sul dramma umano e civile si inseriscono così con grande evidenza gravissimi giochi politici, ad ogni livello. E sono giochi che puntano ormai sulla certezza della morte di D'Urso.
Arriva il governo degli "onesti"
In questa strumentale esasperazione, prende nuovo corpo e peso la proposta, avanzata verso la fine di dicembre dal professor Visentini, di un governo retto da "tecnici", da "onesti", scelti indipendentemente e al di sopra dei partiti. Sulla proposta, che inizialmente era stata accolta con freddezza e persino con qualche ironia, si coagulano adesso spinte e pressioni provenienti da settori diversi, con l'uscita allo scoperto di interessi oscuri e - con tutta evidenza - giganteschi, i quali vengono aizzati in modo forsennato da Repubblica e Corriere della Sera. Emergono di nuovo dall'ombra gravissimi indizi che portano alla famigerata loggia "coperta" massonica P2, agli ambienti della finanza sindoniana, che adesso mostrano evidenti saldature esterne, nel mondo del giornalismo appunto, con il gruppo rizzoliano proprietario del Corriere. Sono, questi ambienti, da tempo più o meno recente interessati ad una ipotesi di "governo forte", che parte dalla sfiducia nei partiti e nella stessa DC, ormai ritenuta non più
adeguata a reggere il paese e a dare assicurazioni alle forze economiche e finanziarie.
All'interno della DC si muovono forze contrastanti; si avverte quale sia la posta in gioco. Il capo del governo, Forlani, intervenendo ad una cerimonia nel corso della quale il comandante dell'Arma dei Carabinieri, generale Cappuzzo, chiede - e le sue parole hanno il senso di una critica - un più articolato intervento sul piano politico nei confronti dell'eversione terroristica, si sbilancia in un discorso dagli accenti incredibilmente tesi. "La repressione di polizia - ha detto Cappuzzo - da sola non risolve il problema della criminalità politica e comune" e ha aggiunto che è necessario "recuperare i consensi di quella frangia di giovani dalla quale l'eversione attinge i suoi adepti". Ma Forlani non raccoglie se non attaccando invece "il frastuono delle polemiche, delle alterazioni dei dati e della verità, della faziosità delle dispute in cui si produce parte della stampa", e esaltando "la maggioranza (degli italiani) che non partecipa al frastuono delle polemiche..."
Il PCI di Berlinguer spregiudicatamente, e con estrema violenza, spinge verso la soluzione "forte". E' evidente: i comunisti cercano di spaccare il governo, di riaprire il dialogo con una parte almeno della DC, per rientrare in una possibile maggioranza, quella adombrata con la nota "svolta", enunciata in occasione del terremoto dell'Irpinia. Anche nella proposta della svolta comunista c'è l'appello agli "onesti". Lungi dal proporre l'alternativa, con l'unità programmatica delle sinistre, per scacciare la DC dal governo, Berlinguer afferma che il governo nuovo richiesto dal paese non vuole isolare gli elementi "onesti" presenti nel partito cattolico; ancora una volta, insomma, Berlinguer punta a capovolgere le maggioranze interne di questo partito, per ritrovarvi consensi e agganci come all'epoca di Zaccagnini. Il PCI si è però reso conto che questa volta la resistenza opposta dal Partito Radicale, ai suoi progetti è estremamente decisa. Per piegare la resistenza dei radicali, pilastro del "dialogo" e della
salvezza di D'Urso, il PCI fa allora ricorso ad una campagna sfrenata, di incitamento al massacro politico dell'antagonista: quello invocato dai radicali è un dialogo "che ha costituito l'asse della vera e propria torbida trattativa tra un partito rappresentato in Parlamento e un gruppo di terroristi..." Ogni iniziativa radicale viene analizzata in questa chiave, dalla visita dei parlamentari a Trani fino all'apparizione di Lorena D'Urso in Tv, in un crescendo di attacchi inaudito.
A ben guardare, questa determinazione maschera appena più di una preoccupazione. Il PCI si rende conto che la linea della durezza non può essere popolare presso l'intera sua base, costituita da cittadini democratici, certamente non troppo propensi ad accettare che si debba "morire" per uno Stato portato allo sfascio da trenta anni di governi DC; cerca quindi di affrettare la chiusura della partita. Ciò che deve essere demonizzato è quindi proprio quel "dialogo" che, avvenendo (come infatti accade) dinanzi agli occhi di tutti, dell'intero paese, consente l'avvio e il consolidarsi di sentimenti, di riflessioni, di atteggiamenti maturi, problematici, portati a respingere, insomma, l'idea stessa dell'ineluttabilità del sacrificio di una vita umana.
Il 13 gennaio, probabilmente, segna il punto di più decisa spinta del "partito della morte", per soffocare il "partito della vita". La sera prima, Lorena D'Urso è apparsa in Tv, mostrando la fermezza e il coraggio dei forti. Di fatto, con la Tribuna flash concessale dal Partito Radicale, è infranto il blackout televisivo.
Le reazioni sono incomposte, furiose. La Repubblica di Scalfari gioca adesso la carta più grossa: cerca di portare lo stesso Presidente della Repubblica Pertini sul terreno dello scontro.
Pertini scende in campo?
Pertini è sempre stato per la fermezza nei confronti dei terroristi, tutti lo sanno. Dal suo altissimo posto, non può essere coinvolto in un chiaro e sereno confronto, perché sia dimostrato da quale parte sia la vera fermezza. Dal suo isolamento, dall'impossibilità di articolare il dialogo, tuttavia anche in questa vicenda Pertini è stato sostanzialmente alieno dall'assumere posizioni di rottura. Ma, adesso, è proprio questo che si vuole da lui. La rottura, decisa e netta, dall'intero partito "umanitario", in primo luogo dal partito radicale e dal PSI. E' evidente che le conseguenze di un tale passo sarebbero incalcolabili, per l'equilibrio della nostra democrazia. Ma il 13 gennaio appare su Repubblica un fondo, non firmato, dal titolo "Stavolta non sarà come l'8 settembre". L'8 settembre è la data dello sfascio e della resa dell'esercito italiano dopo l'armistizio con gli angloamericani. L'articolo è tutto un appello al presidente Pertini, perché intervenga, perché scenda in campo, quasi che sia alle porte
una nuova occupazione nazista, e si debba dar mano a una nuova Resistenza. Si rievocano le "terribili ore" della resa badogliana; si attacca i radicali fattisi "consapevole strumento di messaggi di ricatto e di morte", divenuti rei di "vero e proprio terrorismo" per aver indicato "per nome" i direttori dei giornali; si denunciano "forze politiche e membri del Parlamento" che "tradiscono le leggi cui hanno giurato fedeltà". Alla spettrale conclusione - che cioè si stia "vendendo la Repubblica ai suoi avversari" - segue un appello diretto, drammatico, ultimativo, al Presidente Pertini: "Mai come oggi attendiamo fiduciosi una parola di Sandro Pertini. Non solo di Sandro Pertini, capo dello Stato, ma di Sandro Pertini combattente antifascista: perché ancora una volta la lotta contro i nemici della libertà è ricominciata".
Nello stesso numero, grande rilievo viene dato alla notizia che il sostituto procuratore Sica ha incriminato sessantacinque detenuti, tra politici e comuni, di Trani e quattordici terroristi reclusi a Palmi, "per concorso nel sequestro del giudice Giovanni D'Urso". La mossa sembrerebbe diretta a provocare una spaccatura tra i detenuti, affinché qualcuno di essi si apra a una collaborazione che consenta di arrivare alle brigate rosse. Di fatto, si ha subito l'impressione che essa possa scatenare l'ira dei rapitori, un'ira tale da farli giungere alla ritorsione drastica, all'uccisione del magistrato; che sia, insomma, un altro passo verso l'ineluttabile.
Il pomeriggio del 13 gennaio si svolge anche a Roma, sotto una pioggerellina triste e amara, un corteo del PCI, con in testa il sindaco Petroselli, che apertamente attacca il "cedimento" del PSDI, in una orgia verbale scomposta e indegna. Ma la pressione non ottiene il risultato sperato. Pertini non interviene. La speranza di una catastrofe politica deve così essere abbandonata. Alle ore 13.30 del 14 gennaio, alla Camera, arriva l'annuncio che D'Urso è stato liberato. In effetti, D'Urso sarà ritrovato, vivo, solo la mattina dopo, ma l'annuncio fa entrare in crisi il partito della fermezza, che deve far ora di tutto per far dimenticare al paese di essere stato, anche, il "partito della morte" e dello sfascio.