di Valter VecellioSOMMARIO: Ha dato fastidio a molti che D'Urso sia stato restituito alla vita. Il racket editoriale di Rizzoli, Tassan Din e Di Bella, di Barbiellini Amidei allineato con Scalfari, con L'Unità, con Paese Sera, dalla parte della morte e della violenza. La posta in gioca non era solo la vita di D'Urso, di cui si attendeva il cadavere, ma i residui margini di libertà e democrazia. Sulla pelle di D'Urso un gioco molto più grosso con complicità internazionali per configurare l'ipotesi di una seconda Repubblica, dopo l'assassinio della prima. Una partita giocata con la complicità del Pci.
(NOTIZIE RADICALI n.1 del 1· gennaio 1981)
La decisione del black-out come si ricorderà, è stata adottata i primi giorni di gennaio: prima dal "Tempo" di Roma, subito dopo dalla catena Rizzoli, poi gli altri, dalla Rai, ai giornali di provincia: Tassan-Din, direttore generale della Rizzoli viene folgorato dalla intuizione, e convoca subito il direttore e il vice-direttore del "Corsera", Di Bella e Barbiellini Amidei, che sono subito entusiasti: niente più spazio ai proclami delle BR o ai terroristi. Al "Corsera" avevano ricevuto una lettera della signora D'Urso, nella quale si chiedeva la pubblicazione di un documento delle BR, condizione che avrebbe potuto salvare la vita del marito; il giornale, e i suoi padroni e padrini, che giustappunto non di quella vita avevano bisogno, ma di un cadavere, possono così tacere la notizia, e inventare la "questione morale": niente più scritti dei terroristi. E sì che fino a quel momento il "Corsera" (ma tutti i giornali, non solo il quotidiano di via Solferino), di spazio ai terroristi ne avevano dato parecchio,
anche troppo; e sì che, proprio per ragioni umanitarie, il "Corsera" aveva a suo tempo pubblicato un documento, a tutta pagina, dei "Montoneros", condizione per il rilascio e la salvezza di ostaggi che avevano catturato.
Il black-out è diventato così, come agevolmente può confermare una rapidissima occhiata ai giornali del momento, un "pretesto" per negare l'informazione non ai terroristi, ma a chi si batteva per una soluzione alternativa a quella della "fermezza" (ma più propriamente si dovrebbe parlare del cinismo e dell'inerzia); quella alternativa "teorizzata" da Pannella nel suo articolo su "Lotta Continua" del 24 dicembre: "No alla trattativa, no alla inerzia, sì al dialogo".
Restituire alla vita Giovanni D'Urso, è stata impresa che ha recato fastidio a molti. Non era infatti un caso se il racket editoriale Rizzoli, con i Tassan-Din, i Di Bella, i Barbiellini Amidei, ogni giorno li si poteva vedere allineati, significativamente, agli Scalfari, a "Unità", "Paese Sera", dalla parte della morte e della violenza. Non solo di D'Urso di cui attendevamo il cadavere.
La partita era (ed è) molto più alta, la posta in gioco molto più grossa: i margini residui di libertà e di democrazia che ancora sopravvivono. Sulla testa del magistrato D'Urso infatti si è tentato uno scontro di vaste proporzioni, con complicità, probabilmente, anche internazionali, per configurare l'ipotesi di una seconda Repubblica, dopo che si era assassinata la prima. Una partita che ha potuto godere (e può godere), di coperture, autentiche, di sinistra.
Così l'alleanza Scalfari-Di Bella e soci ha fatto di tutto. "Gazzettieri" e "campieri" del ricostituito partito di giacobini e borboni nel quale si sono ritrovati da Almirante a Valiani da Andreotti a Berlinguer, quando i radicali si sono recati a Trani e a Palmi in rivolta, li hanno accusati di esser diventati "megafoni" dei terroristi. Con squisita finezza, La Malfa (il piccolo) ha aggiunto: "Sciacalli". Perfino Forattini, nostro amico da sempre, è rimasto abbagliato, e in uno di quegli editoriali che sono le sue vignette ha raffigurato un pugno che stringe, invece della rosa, un megafono.
Scandalosissimo, dunque, che dei parlamentari si siano recati in un carcere in rivolta, da dove giungevano notizie frammentarie e confuse, allarmanti, a rendersi conto di quel che vi accadeva; che abbiano cercato di parlare con i detenuti; che ne abbiano diffuso i testi, per deliranti che fossero. Ma esser andati a Trani e Palmi non è il solo "delitto" imputato ai radicali. Hanno anche rivolto appelli (e qui Sciascia è il più colpevole di tutti), perché i giornali pubblicassero i testi dei detenuti, come avevano chiesto le BR, per liberare D'Urso.
I giornali della "fermezza", o, come li ha ottimamente definiti la signora D'Urso, "della morte", non solo non hanno pubblicato quei testi, ma hanno anche censurato gli appelli di Sciascia. E hanno censurato con lui, anche Eleonora Moro, Stella Tobagi, Andrea Casalegno, che alla richiesta si erano uniti. Hanno censurato le decine e decine di giornalisti, uomini di cultura, politici, che firmavano l'appello, chiedevano assemblee discutevano e si dissociavano dalle linee padronali. Scalfari andava in giro per la sua redazione, a dire che chi formava l'appello dello "Sciascia qualunque" di fatto additava al mirino delle BR coloro che non firmavano. E a chi chiedeva assemblee per discutere sulla vicenda, ineffabile replicava: "Mah, se volete fare ginnastica, fate pure...".
Gli Scalfari e i Di Bella, ora stanno accreditando la tesi secondo la quale i radicali avrebbero esercitato intollerabili pressioni nei confronti di giornali e giornalisti della intransigenza. Contemporaneamente "Le Repubblica" intervista il direttore del "Messaggero", Emiliani (che ha "pubblicato", con Tito, del "Secolo XIX", i "Diari", l'"Avanti", il "Lavoro" "Manifesto", "Lotta Continua", e qualche altro giornale di provincia), cercando di ridicolizzarlo.
Zincone, direttore del "Lavoro", viene prima costretto a dimettersi, e poi licenziato dalla Rizzoli, in quanto colpevole di non essersi sottomesso al diktat padronale; il direttore de "La Nazione", Piazzesi, che avrebbe voluto pubblicare, viene messo a tacere dalla proprietà, che glielo vieta; i giornalisti vengono completamente esautorati da ogni decisione assunta, come dice Di Bella a "La Repubblica", solo ed unicamente da direttore, vicedirettore, direttore generale; Peppino Fiori, il direttore del "Paese Sera", incontra Sciascia e gli urla: "Quand'è che darai il mio indirizzo alle BR?"; chiunque non sia schierato sulla linea Valiani viene censurato, insultato, deformato. Scalfari e Di Bella non vedono in tutto ciò violenza; violenza sono invece le telefonate di dissenso di lettori che disdicono abbonamenti, esprimono contrarietà, dicono quello che pensano, e che sarebbero istigati dai radicali e dalle loro radio.
Decisamente lo scenario offerto è desolante, inquietante. Il direttore del "Corriere della Sera", Di Bella, intervistato dal GR2 dice dei radicali che sono "complici a piede libero" delle BR; il giorno dopo lo scrive, o lo fa scrivere, anche nella prima pagina del giornale. Che si può replicare? "Giornale della morte", lo ha bollato la signora D'Urso. Basta.
Il punto più degradato di questa "escalation" nella violenza della parola lo si ha domenica 18 gennaio. D'Urso è appena rientrato a casa: ci si può sfogare impunemente. E Di Bella commissiona l più "colto" dei suoi editorialisti, Alberto Cavallari, un articolo che ha per titolo: "I nipotini di Goebbels". Che saremmo noi, ovviamente. La vicenda di Lorena D'Urso alla televisione viene così evocata: "Ricordiamo bene gli ebrei, con altri cartelli al collo, obbligati a collaborare - fino a seppellire i figli degli altri - per salvare i propri figli". La questione morale, insomma, per questi giornalisti, sarebbe - oggi - se si debba "abbandonare il cielo della coscienza per accettare il fango della sopravvivenza"... "Nazista è la logica che si tenta di imporre alla società italiana nazista è la filosofia per cui solo chi ``scende dalla croce'' a patteggiare merita di vivere, antinazista deve essere la risposta morale e politica a queta logica..."
Lo spirito di vendetta, in questi giorni e ore sta paurosamente salendo; non s'esagera: tutto lo testimonia. Basta dare una rapida scorsa su quando vanno pubblicando i giornali, da "Il Popolo" a "La Repubblica". Le BR, per una volta, non sono servite, il gioco ancora non è completamente fatto. Anatemi e menzogne trovano così una spiegazione: siamo ormai gli unici ad opporci ad una vera e propria associazione sovversiva che sta lavorando per il re di Prussia.