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Rodano Franco - 25 febbraio 1981
Aborto solo per i ricchi
La proposta radicale

di Franco Rodano

SOMMARIO: Le grandi masse popolari vanno al voto referendario sull'aborto "innaturalmente divise", di fronte ad un avversario "comune", che esprime con coerenza i desiderata della "borghesia". L'avversario sono i radicali con la loro proposta "nettamente abortistica": essi infatti, affermando che l'aborto deve assurgere a "diritto civile", in realtà compiono una "discriminazione intollerabile tra le donne". Con la loro proposta, si aprirebbe una divisione tra "chi è ricca" e potrebbe sempre veder garantita la sua "privacy" e chi è povera e dunque condannata alla "clandestinità". Infatti è proprio dell'ideologia radicale, al di là degli "sberleffi", far coincidere l'"essere umano" portatore di diritti con il "ricco". Per cui la battaglia per l'aborto viene ad essere un aspetto della generale "lotta di classe": da una parte c'è la borghesia, dall'altra i poveri che "combattono divisi in due schieramenti stoltamente contrapposti". I poveri purtroppo non possono vedere la Chiesa come l'insieme del "peregrinante

popolo di Dio", ma solo nelle "gerarchie ecclesiastiche" ed affini, che essi avvertono come loro avversari... La divisione tra i poveri rischia di far avvertire come insufficienti le due posizioni ideali cui essi si affidano: sia la "forma religiosa", sia la forma politica del "comunismo". Intanto, i radicali si presentano come l'unica ideologia unificante di quella parte della società "che può fondarsi sulla sicurezza iniqua del denaro".

E' da sperare che vi siano credenti che non abbiano perduto la "qualifica decisiva di uomini liberi". Tocca a loro esprimersi contro "le sordità e le pigrizie clericali".

(PAESE, 25 febbraio 1981)

UN ULTIMO punto, forse il più grave, va ancora messo in luce a proposito dei "referendum" sulla desolante e dolorosa questione dell'aborto. Va insomma sottolineato, in primo luogo, come le grandi masse popolari, contro il loro interesse profondo, vadano alla battaglia innaturalmente divise: anzi, in larga misura contrapposte. Inoltre va osservato - il che, del resto, è la semplice contromedaglia di quanto si è detto fin qui - come simili scissioni e contrasti si verifichino in presenza di un avversario che invece è senza dubbio "comune", e il quale infatti esprime con coerenza (né quindi è privo - si badi - di un suo peculiare e persuasivo vigore) le esigenze, i desiderata, gli "ideali" della borghesia, come pure (oggi soprattutto, quando si è affermato il regime "opulento") dei numerosissimi percettori di un reddito soddisfacente (e di regola immeritato), che ben volentieri a quella si assimilano, non solo nel culto geloso del "rango sociale", ma anche negli atteggiamenti, nelle preferenze, nei giudizi, nei

costumi.

In realtà, quale posizione di "principio" viene appunto a "giustificare", e dunque a reggere "sovrastrutturalmente", la proposta, nettamente abortistica, dei radicali? In modo palese e inequivoco, si tratta di un'ideologia individualista, libertaria e anarchizzante, che, come tale, può dunque riconoscere l'esistenza di una qualche regola ordinatrice (secondo è pur necessario) "soltanto" nell'esplicarsi del più crudo meccanismo di mercato, non corretto (cioè per tale ideologia non distorto) da alcun intervento della "mano pubblica".

Libertariamente, l'aborto può esser così ricondotto e, anzi, fatto assurgere a "diritto civile", di cui il singolo, esaltato a unica realtà che conta, può appunto avvalersi a proprio libito, assolutamente indiscriminato e indiscriminabile. Ma nel concreto, poiché si riporta l'"intiero" problema entro gli schemi dell'individualismo più coerente e compatto, più indifferente e asettico, inevitabilmente - dietro la "nobile" copertura oggettiva della libertà come valore assoluto e supremo - si perviene in effetti a delle conclusioni "strutturali" di patente, odiosa ingiustizia e di cruenta oppressione del povero.

E' anche troppo evidente, cioè, che lungo questo scivolo lubrico, allestito dai radicali, si determina innanzitutto - in base precisamente al denaro - una discriminazione intollerabile fra le donne. Non appar chiaro, infatti, che verrebbe necessariamente a riaprirsi in tutta la sua estensione - la quale coinciderebbe, come è ovvio, con quella stessa del mercato - l'area, a un tempo ambiguamente desiderata e letale, della "segretezza"? E in essa, appunto, non vi troverebbe forse, "chi è ricca", agevolazioni, cure, sicurezza, e soprattutto quella preziosissima ed egoistica "privacy", in cui le singole, nascondendo il proprio sentimento di vergogna, non possono a un tempo non celare quella medesima, e incomparabilmente più grave della società, che si vedrebbe allora ribadita nel proprio immobilismo nefando? "Chi è povera", però, nella ripresa della clandestinità tornerebbe invece a trovare - senza più luce alcuna di speranza - disgusto, paura, squallore, trattamenti sbrigativi, volgarità meschine, e non di rado

la morte.

Si era dunque nel giusto, mi sembra, quando - di là dall'ideologismo libertario - si è esplicitamente definita borghese la generale "visione del mondo" cui si rifanno costantemente i radicali, pur tra molte mistificazioni e calcolati sberleffi. La loro posizione in effetti - e quella particolare sull'aborto viene a esserne, puntualmente, prova e verifica - è portata, per inevitabile conseguenza teorica, a far coincidere senza residui l'essere umano, l'unico soggetto di diritti, con il ricco, e con questo soltanto; per ciò stesso escludendo di fatto il povero, per logica necessità, da quel diritto che ci si ostina a intendere, a gabellare e, in ogni modo, a far universalmente riconoscere quale "comune", mentre - come è palesato dalla mortificazione dei poveri - è semplicemente "classista".

Solo che, per ritornare al tema dell'aborto, la battaglia referendaria viene allora a essere un aspetto, e oggi non tra i minori, della generale lotta di classe. In essa, però, da una parte la borghesia e i ceti che le sono assimilati, si battono appunto uniti, per far trionfare le proprie esigenze corporative ed egoistiche (le quali si affidano al denaro per non pagare alcun pedaggio al "bene comune", sia pur perseguito secondo la legge di "minor male"), indifferenti appieno - purché si salvi la sacralità del privato e possano reimpinguarsi le tasche dei "cucchiai d'oro" - a che continui immutato l'attuale andazzo mortifero dei meccanismi della società. Dall'altra, invece, contro questo coacervo di interessi poderosi e - per chi ha qualche risorsa - sottilmente allettanti, i poveri combattono divisi in due schieramenti stoltamente contrapposti. I clericali infatti, che pure - accettando giustamente, nella situazione storica data, "almeno" lo stretto aborto terapeutico - hanno già rotto l'astratto rigore del

principio, osano poi, con propaganda rozzamente mistificatrice e anzi protervamente menzognera, accusar di assassinio e di strage l'unione delle forze laiche e laiciste contro la clandestinità dell'aborto.

Così, due vengono a essere le conseguenze deplorevoli dell'atteggiamento miserando e settario dei "leaders" clericali. I poveri (tranne i "felici pochi", tranne i santi) non sanno certo vedere la Chiesa nell'insieme del "peregrinante popolo di Dio", che vive la sua storia terrestre o politica dietro diverse bandiere. Essi la riconoscono invece nella "maestà" delle gerarchie ecclesiastiche o nelle definite strutture del "mondo cattolico organizzato". Ma ancora una volta l'avvertono allora come la propria nemica, o nel migliore dei casi come l'alleata surrettizia - e magari involontaria e inconsapevole - delle prevaricazioni dei ricchi.

La seconda conclusione è tuttavia, se possibile, persino peggiore della prima. L'ideologia individual-borghese dei radicali presenta infatti, allo stato delle cose, come la sola unificante. Certo, di una parte soltanto della società, quella che può fondarsi sulla sicurezza iniqua del denaro. Ma l'altra, quella dei poveri, ha forse una posizione in cui tutti si riconoscano? I clericali vi si rifiutano; anche se i laici non hanno leso alcun valore o principio, e li hanno anzi restituiti a una nuova capacità di vivente incisione, rimettendoli nel circuito della storia.

Nel giudizio dei poveri, la loro divisione - ecco il risultato fra tutti perverso - minaccia dunque di far avvertire come insufficienti le due posizioni ideali cui essi si affidano: sia la forma religiosa in cui attualmente si vive il "kerigma" cristiano, sia il modo per loro più proprio e oggi più completo - quello comunista - di esercitar la politica. E naturalmente ne viene esaltata, di contraccolpo, l'impostazione dei ricchi: il classistico messaggio dei radicali sulla libertà assoluta, perché scevra di ogni aspetto di responsabilità e di altruismo.

Se però son questi gli esiti cui, allo stato degli atti, inevitabilmente si perviene; e se certo non si può nemmeno sperare che i clericali abbandonino quel loro tipico atteggiamento protervo per cui si pretende, con cecità integralista, l'immediato uniformarsi della storia ai principi dell'etica, e non ci si adopera invece a farla lievitare e progredire sino a che quei principi medesimi le divengano omogenei, bisogna anche ritener tuttavia che nel "mondo cattolico organizzato" (o comunque "ufficioso") vi siano dei credenti i quali non abbian perduto la qualifica decisiva di uomini liberi. Alfredo Carlo Moro, all'inizio delle discussioni sull'aborto clandestino, non avanzò forse la tesi, ad esempio, che "lo Stato non possa punire dove non è stato in grado di aiutare"?

Se dunque vi sono - come io credo - molto dipende da loro. In questa fase, in cui sembrano addensarsi e diverse brutture e più ancora le varie stanchezze del mondo, la loro libera testimonianza di cattolici contro le sordità e le pigrizie clericali potrebbe segnare un punto di risalita, e, nel caso specifico della clandestinità dell'aborto, essere determinante.

 
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