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Capecelatro Ennio, Roccella Franco - 1 marzo 1981
LA PELLE DEL D'URSO: (2) I 33 giorni (prima parte)
di Ennio Capelcelatro e Franco Roccella

SOMMARIO: L'azione del Partito radicale per ottenere la liberazione del giudice Giovanni D'Urso rapito dalle "Brigate rosse" il 12 dicembre 1980 e per contrastare quel gruppo di potere politico e giornalistico che vuole la sua morte per giustificare l'imposizione in Italia di un governo "d'emergenza" costituito da "tecnici". Il 15 gennaio 1981 il giudice D'Urso viene liberato: "Il partito della fermezza stava organizzando e sta tentando un vero golpe, per questo come il fascismo del 1921 ha bisogno di cadaveri, ma questa volta al contrario di quanto è accaduto con Moro è stato provvisoriamente battuto, per una volta le BR non sono servite. La campagna di "Radio Radicale che riesce a rompere il black out informativo della stampa.

("LA PELLE DEL D'URSO", A chi serviva, chi se l'è venduta, come è stata salvata - a cura di Lino Jannuzzi, Ennio Capelcelatro, Franco Roccella, Valter Vecellio - Supplemento a Notizie Radicali n. 3 - marzo 1981)

I 33 giorni

di Ennio Capecelatro e Franco Roccella

"Ci sembra mostruoso che una classe politica che detiene, al governo o all'opposizione, il potere, gestendolo in modo da compromettere lo Stato e la società civile sino al punto in cui sono compromessi, recuperi la sua forza e riscatti la sua incapacità sulla pelle di un uomo. Ebbene, in questo non contate su di noi: noi faremo di tutto per salvare la vita di D'Urso, per quello che questo vuol dire: faremo tutto il dovuto e il giusto".

Franco Roccella, deputato radicale

(intervento alla Camera del 9 gennaio 1981)

Il Rapimento

Sono poco più delle 22 del 12 dicembre 1980. A quest'ora i quotidiani del mattino hanno fatto il pieno, e la prima edizione è già in viaggio verso le sedi periferiche. Soltanto in cronaca si continua a lavorare a ritmo abbastanza sostenuto. Negli altri settori i più se la sono squagliata; i pochi redattori rimasti per l'aggiornamento della ribattuta, o per l'emergenza, spesso bruciano il tempo morto con un pocherino possibilmente indolore. Poi, non si sa mai, potrebbe sempre arrivare improvviso e sconvolgente ``il mostro da sbattere in prima pagina''.

Al "Messaggero" di Roma, come negli altri giornali, la giornata è trascorsa senza traumi. Il carnet degli eventi è nutrito, ma sostanzialmente ripetitivo; i piatti forti sono ancora lo scandalo delle frodi petrolifere e la tragedia del terremoto nelle regioni meridionali, aventi per contorno minacce di inasprimenti fiscali, di aumenti dei prezzi dei prodotti petroliferi e di crescita dei tassi di inflazione. Certo sono pietanze inquietanti, a base di spezie terroristiche, ma delle loro proteine politiche e morali siamo a dieta da decenni. Il fatto nuovo è rappresentato dalla richiesta di condanna all'ergastolo di Valpreda e Merlino per la strage di piazza Fontana a Milano nel 1969. Nuovo da un punto di vista congiunturale, non strutturale, poiché in effetti ripropone una logica già consumata, che fa tutt'uno con la logica degli scandali. In conclusione da qualunque parte si annusi, sul panorama informativo la solita atmosfera maleodorante.

Il clima relativamente di sonnolenza nella cronaca del "Messaggero" si interrompe perentoriamente alle 22.15 esatte. Il centralino avverte che uno sconosciuto vuole urgentemente parlare con un redattore. Risponde il capo servizio Mario Spetia. Dall'altra parte dell'apparecchio vi è evidentemente un giovane, si avverte dal timbro di voce che parla con precipitazione e in tono concitato. Dalle sue parole non sempre comprensibili si stacca tuttavia con chiarezza questo messaggio: "Qui Br. Abbiamo prelevato il magistrato Giovanni D'Urso. Chiediamo soppressione carcere dell'Asinara. Segue comunicato".

I balordi che telefonano ai giornali annunciando notizie strabilianti non sono rari. Ma Spetia sente che in questo caso non deve trattarsi del solito burlone o mitomane. Soprattutto il nome D'Urso, non ricorrente nelle cronache e ignoto all'opinione pubblica, lo insospettisce; chi avesse voluto far uno scherzo di pessimo gusto avrebbe più probabilmente scelto il nome di un personaggio immediatamente riconoscibile. Così ne parla al caporedattore Pino Geraci, e insieme concordano di verificare l'attendibilità del messaggio telefonando alla Digos e ai Carabinieri.

Né la prima né i secondi sanno di un sequestro ad opera dei brigatisti. Conoscendo Giovanni D'Urso, però, si rendono conto che la probabilità di un suo eventuale rapimento può essere attendibile. Comincia a questo punto un balletto convulso di telefonate. Digos e Carabinieri telefonano in casa D'Urso e dalla figlia maggiore del magistrato apprendono che il papà alle 22.30 non è ancora rientrato, nonostante avesse preannunciato di essere a casa non oltre le 20.30. Al Ministero di grazia e giustizia assicurano che il magistrato ha lasciato il suo ufficio per recarsi a casa poco prima delle ore venti. Allora non ci sono più dubbi, il magistrato è stato rapito. Se ne dà conferma al "Messaggero", che subito spara la notizia in prima pagina su sette colonne di spalla. Non tutti gli altri giornali danno analoga valutazione, ed alcuni la relegano verso il centro o il basso della pagina.

Scattano immediatamente i cosiddetti dispositivi di sicurezza. Il sostituto procuratore della repubblica, Domenico Sica, si precipita in questura per il coordinamento delle indagini. Posti di blocco vengono tempestivamente istituiti, a babbo morto, lungo le principali arterie, soprattutto quelle di accesso alla città; ma dopo circa tre ore, durante le quali i rapitori hanno agito in assoluta tranquillità, effettuando un prelievo morbido, le speranze di intercettare il commando brigatista sono pressoché inesistenti. Alle 22.30, sicuramente da un buon pezzo era stato raggiunto il rifugio predisposto per la prigionia.

Giovanni D'Urso, 47 anni, originario di Catania, a Roma da cinque anni, con domicilio in via Ludovico Micara 34, nel quartiere Aurelio, è tra i massimi funzionari della direzione generale degli istituti di prevenzione e pena del Ministero di grazia e giustizia. Dipende in gran parte da lui il movimento e la sistemazione dei detenuti nelle diverse carceri del paese, ed è lui a decidere i trasferimenti e le assegnazioni di questo o quel prigioniero nelle sezioni speciali di massima sicurezza.

Entrato in magistratura il 10 aprile 1959, fu nominato consigliere di Cassazione nel 1979, dopo appena venti anni di carriera. A favorire la sua rapida ascesa fu una legge del 1978, abrogativa di una precedente legge che escludeva ai fini dell'avanzamento il calcolo del triennio trascorso in qualità di aggiunto giudiziario. Senza la legge del 1978 avrebbe dovuto attendere il 1982 per la nomina a consigliere della Suprema Corte, condizione indispensabile per assumere funzioni direttive nell'amministrazione della giustizia, per di più in un settore che ne avrebbe fatto il regista della vita carceraria dei brigatisti o presunti tali catturati.

Le indagini a caldo non approdano a niente. La tumultuosa mobilitazione degli strumenti d'indagine ritualizza un'intenzione efficientistica andata fin qui disastrosamente delusa; ricalca peraltro un copione che ha già provocato crisi di rigetto nei potenziali spettatori. Conformemente alle generali attese di fallimento degli appostamenti inquisitoriali la prima notte di rapimento trascorre senza che affiori un solo barlume sull'identità degli autori del sequestro e soprattutto su dove si trovi la cosiddetta ``prigione del popolo''. Pare che Giovanni D'Urso, queste le prime ipotesi degli organi di indagine, fosse stato spiato per parecchi mesi, come a suo tempo lo era stato Aldo Moro.

Egli stesso in una sera di febbraio del 1980 avrebbe notato due macchine, una 500 e una Renault, con a bordo degli individui che lo avevano insospettito. Sulla base di questi elementi molto vaghi i magistrati inquirenti tracciano una prima mappa della possibile ``colonna'' rapitrice, a loro avviso costituita dai soliti imprendibili Mario Moretti e Barbara Balzarani, che come il padreterno sono in terra in cielo e ovunque si consumi un massacro, un assassinio, un rapimento o un assalto terroristico. Oltre a questi gli inquirenti suppongono che facciano parte della ``colonna'' anche Nadia Ponti, Vincenzo Guagliardi, Antonio Savasta ed Emilio Libera.

La verità è che frattanto si brancola nel buio. Ci vogliono ventiquattr'ore per cominciare a orientarsi nella dinamica dell'operazione. La prima ipotesi presa in considerazione è che il magistrato sia stato bloccato in via Arenula o nelle adiacenze, subito dopo essere uscito dal Ministero di grazia e giustizia, verso le 20. Ma non tarda a rivelarsi fragile: è impossibile che i brigatisti, in un'ora di traffico intenso, abbiano agito indisturbati senza essere minimamente notati.

Solo in un secondo momento ci si rende conto che l'agguato è avvenuto presso l'abitazione del magistrato, probabilmente in via Pio IV, perpendicolarmente a via Leone XIII, dove è parcheggiata la 124 con la quale il funzionario è rientrato dall'ufficio. A una trentina di metri dalla macchina si trovano infatti vetri frantumati di occhiali, sull'asfalto segni striscianti di pneumatici; il magistrato ha reagito all'aggressione forse anche energicamente, ma ha dovuto soccombere all'impari lotta ed è stato caricato su una vettura allontanatasi subito a forte velocità.

Impugnare le armi non basta

Il rapimento di D'Urso, questo appare subito evidente, rimette in discussione l'intera strategia antiterroristica del Governo, culminante nell'azione del generale Dalla Chiesa, il quale è più ispiratore che esecutore di tale strategia, per cui sarebbe più corretto parlare di strategia Dalla Chiesa anziché di strategia governativa. Si ha un contraccolpo psicologico che ripropone gli interrogativi inquietanti avanzati all'indomani del rapimento Moro. La disinvoltura con cui l'operazione è stata portata a termine insinua il sospetto che la capacità operativa delle brigate rosse sia tutt'altro che in via di esaurimento, come da più mesi gli organi di stampa vorrebbero far credere facendo leva sugli arresti a grappoli in corso da tempo nel paese.

Benché dal rapimento Moro al 12 dicembre 1980 le organizzazioni terroristiche non se ne siano state con le mani in mano, abbiano anzi messo a segno colpi dal loro punto di vista clamorosi, come gli assassini del giornalista Walter Tobagi, del vice presidente del Consiglio superiore della magistratura, professor Giovanni Bachelet, e più recentemente del dottor Giuseppe Furci, medico del carcere romano di Regina Coeli, la parola d'ordine era che esse fossero in via di liquidazione. Cancellate, secondo le assicurazioni di Dalla Chiesa, "Prima Linea", i "Nap" e le altre organizzazioni minori, non rimarrebbero che le brigate rosse, a loro volta decimate dagli arresti, dalle defezioni e pentimenti, e inoltre dilaniate dai contrasti interni tra falchi e colombe, come dire tra la ``colonna Walter Alasia'' e l'originario gruppo storico, che ne avrebbero ridotto enormemente la forza d'urto. Proprio due giorni prima del rapimento D'Urso, tra l'altro, due componenti della ``colonna Walter Alasia'', Roberto Serafini e Wa

lter Pezzoli, sono stati ammazzati dai carabinieri di Milano in zona Certosa.

Non manca chi mette in guardia contro i ``facili ottimismi''. I giudici torinesi ammoniscono che se il partito armato è in crisi bisogna comunque continuare energicamente ad incalzarlo perché se si ricostituisse sarebbe un pericolo mortale per tutti; ma sempre in una logica che dà per buona la liquidazione, né tiene conto del terrorismo nero, che sebbene abbia sortite estemporanee, di tipo avventuristico, quando colpisce si abbatte preferibilmente sul mucchio come nell'estate scorsa alla stazione di Bologna (84 morti e centinaia di feriti). L'impresa ricalcava una tecnica collaudata dal 1969 a Milano, quindi sul treno Italicus e a Brescia.

Se non fosse per il processo di Catanzaro, che oramai si srotola come un "flash-back", forse nessuno più si ricorderebbe del terrorismo nero. Né la recente strage di Bologna, nonostante l'agghiacciante ferocia esecutiva, sembra aver rilanciato le gravi preoccupazioni in ordine alla compromissione di apparati dello Stato serpeggianti agli inizi degli anni settanta, rivelatesi successivamente più che fondate, e neutralizzate con operazioni di chirurgia plastica agli organi più macroscopicamente coinvolti.

Il rapimento D'Urso ha richiamato automaticamente alla memoria il più clamoroso precedente rapimento del presidente della DC, Aldo Moro, anche se di quest'ultimo non ha avuto lo svolgimento spettacolare né ha richiesto il massacro di cinque uomini di scorta, o anche di uno solo. Il consigliere D'Urso, almeno secondo le affermazioni della moglie, aveva volontariamente rinunciato sia all'auto blindata che alla scorta, non per fatalismo o perché non temesse di essere possibilmente oggetto di un attentato, ma perché riteneva quelle misure inutili e pericolose: un commando deciso a tutto agisce improvvisamente e imprevedibilmente, e per prima cosa quanto meno elimina la scorta, senza darle minimamente il tempo di accennare a una reazione.

Tuttavia proprio la semplicità con cui è stato eseguito il sequestro, la sua ovvietà, rivela semmai un rinnovamento tattico che porta direttamente all'essenziale, affrancando dall'obbligo di azioni a vasto raggio che inevitabilmente producono devastazione sostanzialmente superflue e forse politicamente controproducenti. V'è però, tra i due rapimenti, una differenza anche più profonda, una frattura che se non attesta una discontinuità ideologica, è certamente sintomatica di un aggiornamento strategico, e forse politico.

E' scontato che con entrambe le operazioni si vuole portare l'attacco ``al cuore dello Stato''. Ma mentre nel caso Moro la strategia punta a una destabilizzazione generale, nel caso D'Urso, fermo restando l'obiettivo di fondo, l'azione è specificamente finalizzata allo smantellamento del sistema carcerario, che tuttavia nell'immediato può essere circoscritto alla chiusura dell'Asinara e delle sezioni di massima sicurezza delle altre carceri. L'obiettivo finale è sempre l'abbattimento dello Stato delle multinazionali, ma la strategia insurrezionale sembra abbandonata per una strategia ancorata con più articolata puntualità a scadenze immediate, fondata su un'"escalation" che passa attraverso lo smantellamento delle strutture di sostegno dello Stato, a cominciare da quelle repressive.

Questa volta, che d'altronde non rappresenta una novità, è abbastanza nettamente enunciata dagli stessi interessati. Coerenti con la promessa fatta al "Messaggero", nelle prime ore del pomeriggio del 13 dicembre i rapitori depositano in un cestino dei rifiuti di fronte al cinema Ambassade in via Accademia degli Agiati, il primo comunicato avvertendo poi i giornali perché lo ritirino. Accluso al comunicato è una foto dell'ostaggio, in cui, sullo sfondo di un pannello che reca la scritta ``brigate rosse'' a caratteri cubitali, con al centro la stella a cinque punte, risalta l'immagine scritta: ``chiudere immediatamente l'Asinara''. Il copione è lo stesso di quello usato a suo tempo per il giudice Mario Sossi, per il giudice Giuseppe di Gennaro e per Aldo Moro.

Il comunicato esordisce con queste parole: "venerdì 12 novembre, un nucleo armato delle brigate rosse ha catturato e rinchiuso in un carcere del popolo Giovanni D'Urso, magistrato di cassazione, direttore dell'ufficio III della direzione generale degli istituti di pena del Ministero di grazia e giustizia. D'Urso è definito "boia, aguzzino di migliaia di proletari... massimo responsabile per tutto ciò che concerne il trattamento di tutti i proletari prigionieri sia nelle carceri normali sia nelle carceri speciali... A lui si deve il trattamento generale e particolare dei prigionieri, la differenziazione tra le carceri, i trasferimenti, le pratiche di tortura e annientamento politico-psichico-fisico". Ora, prosegue il comunicato, "è in un carcere del popolo e verrà sottoposto al giudizio del proletariato, che il porco credeva di poter massacrare impunemente".

Quanto al possibile esito del processo, per adesso i brigatisti non si sbottonano molto, ma dalla truculenza del linguaggio lasciano intuire che non c'è da aspettarsi niente di buono. Anticipazioni concrete non ne danno, ma preannunciano comunque una severità inquietante. Il nostro processo, essi dicono, "non ha nulla a che spartire con i riti e i codici della giustizia borghese... Ci atterremo ai criteri della giustizia proletaria, che non manca mai di manifestarsi con puntuale e inesorabile fermezza".

Tuttavia, ed è questa la prima novità, il processo al magistrato figura come un obiettivo fine a se stesso, o momento culminante dell'assalto al sistema carcerario che deve concludersi quanto meno con la chiusura dell'Asinara, la neutralizzazione delle carceri di maggiore sicurezza e l'annullamento del cosiddetto circuito di differenziazione. "Processare questo servo del potere preposto alla gestione del più infame strumento di annientamento usato dall'imperialismo - affermano i brigatisti - vuol dire oggi processare l'intera borghesia imperialista e combattere perché i rapporti di forza nelle carceri si ribaltino a favore dei proletari".

L'obiettivo si precisa meglio là dove si dice che i punti più alti dello scontro sarebbero la Fiat e le carceri. Però la priorità, secondo la strategia dell'"escalation", è assegnata alle carceri, in quanto luoghi abituali ``di vita del proletariato extralegale, cioè di quello strato di classe che subisce fino in fondo il costo della crisi e il peso della ristrutturazione produttiva''. Le carceri diventano perciò ``il terreno decisivo dello scontro tra rivoluzione e controrivoluzione'', ed in tale prospettiva si inseriscono ``la battaglia del 2 ottobre all'Asinara, la lotta di Volterra, di Fossombrone, di Firenze, la distruzione del campo di Nuoro e l'esecuzione delle spie e degli infiltrati''. Quindi per adesso non resta che ``organizzare la liberazione dei proletari prigionieri, smantellare il circuito della differenziazione, costruire e rafforzare i comitati di lotta ("all'interno delle carceri"), chiudere immediatamente l'Asinara''.

Da queste affermazioni traspare abbastanza chiaramente il rinnovamento strategico del partito armato, il rifiuto, in pratica, del ricorso indifferenziato alle armi senza un obiettivo razionalmente selezionato. Ma vi sono riferimenti anche più diretti, contenenti in pratica un critica alla strategia dei falchi, come dire alla ``colonna Walter Alasia'', accusata esplicitamente di avventurismo. "Dobbiamo accettare la guerra e attaccare al cuore dello Stato - affermano i brigatisi nel loro comunicato - facendo vivere i contenuti di distruzione e disarticolazione dentro una linea di massa che dialettizza i programmi immediati con il programma generale di transizione al comunismo".

I connotati della nuova strategia sono evidenti, anche se di qui in avanti il discorso si enfatizza diventando scopertamente accusatorio: "Chi non fa questo oggi è un opportunista, perché non collega l'azione di partito ai programmi immediati dei vari starati di classe, non costruisce il potere proletario armato, ma svincola dal compito storico che spetta alle organizzazioni comuniste combattenti. Chi crede che il problema sia sparare o eliminare qualche nemico del popolo, costruisce nel vuoto. Lo abbiamo già detto e lo ripeteremo all'infinito: impugnare le armi non basta! Chi si limita a questo dimostra di non aver capito nulla del percorso fin qui compiuto dalla lotta armata e il suo avvenire".

``I duri'' all'offensiva

Il giorno 15 dicembre viene diffuso un altro volantino, prevalentemente informativo "Il prigioniero Giovanni D'Urso sta bene - vi si legge - e l'interrogatorio cui è sottoposto avviene con la sua piena collaborazione e sta mettendo in chiara luce le sue dirette responsabilità... Il ruolo da lui fin qui svolto nelle carceri speciali non lascia dubbi, tutti i proletari prigionieri lo conoscono bene: boia e aguzzino". Il momento della sentenza è prematuro, ma la dichiarata acquisizione, delle prove di ``colpevolezza'', preannuncia in pratica un verdetto di condanna. Resta da controllare soltanto come questa si articolerà, sebbene, dopo l'affare Moro, non c'è da farsi illusioni sull'entità e qualità della pena. Certo ci sono i precedenti positivi di Sossi e Di Gennaro, casi risoltisi con il rilascio dei prigionieri, ma le condizioni storiche sono profondamente mutate, e meno categoricamente precisati, allora, erano gli obiettivi perseguiti.

Sul fronte delle indagini si segna ovviamente il passo. In concreto non v'è stato alcun progresso, e si continua a girare a vuoto nonostante gli sforzi per dare prove di efficienza. Si eseguono massicci rastrellamenti in diverse zone, secondo un cerimoniale rivelatosi fallimentare in tutte le altre occasioni. L'unico elemento acquisito è l'identikit di uno dei rapitori tracciato a matita sulle indicazioni di alcuni testimoni. Ne risulta un giovane tra i 25-30 anni con le seguenti caratteristiche: capelli neri e lisci rovesciati ordinatamente verso la nuca e folti ai lati, verso le basette, naso sottile, rettilineo, viso ovale, labbra sfuggenti, occhi neri a mandorla.

Questo improbabile personaggio, secondo le testimonianze che ne hanno consentita la ricostruzione, avrebbe fatto parte del commando che ha eseguito il rapimento fungendo da palo. La sua partecipazione all'aggressione, e il ruolo che nell'operazione avrebbe ricoperto, sono dedotti dal fatto che qualcuno non meglio identificato, verso le 15 del giorno del sequestro, lo avrebbe visto aggirarsi nei pressi dell'abitazione del magistrato.

Meno di così, per la verità, non sarebbe possibile. Ma questo, unito alla soffiata secondo cui sarebbe in via di applicazione, per l'individuazione del covo, un ``piano dettagliato'', ma segretissimo, elaborato all'epoca del sequestro Moro, dovrebbe assicurare l'opinione pubblica che le indagini procedono alacremente lungo itinerari fruttuosi. Ad accreditare l'agibilità del ``piano dettagliato'' concorre la circostanza che la sua messa a punto segue, non precede, l'affare Moro, quindi avrebbe tenuto conto degli errori allora compiuti per la formulazione di un progetto operativo altamente perfezionato.

E' sul piano politico, però, che il problema non tarda a diventare incandescente. Il primo a scendere in campo, immediatamente dopo il rapimento, è il senatore a vita Leo Valiani, oramai istituzionale editorialista del "Corriere della Sera", sostenitore, da tempo, del pugno di ferro senza neppure la finzione del guanto di velluto, o di una generalizzazione repressiva. "Al rapimento D'Urso - si affretta a scrivere sul foglio rizzoliano - è necessario rispondere con la stessa fermezza con cui si rispose al sequestro Moro". E' lo stesso che dire alle brigate rosse: "spicciativi a spedirci un cadavere, e non se ne parli più". Poi Valiani esulta per la proroga del fermo di polizia, esortando però a farne ``finalmente energico uso''.

Il misticismo repressivo di Valiani, purtroppo non è un fenomeno isolato, né è teorizzato per vocazione ideologica del solo MSI. Il repubblicano Mammì ne è fortemente imbevuto, ed infatti lo troviamo sempre in prima linea quando ci sono da varare leggi speciali, fermi di polizia o norme comunque di restrizione degli spazi di libertà. In relazione al rapimento del giudice D'Urso interviene prontamente con una dichiarazione in apparenza problematica, che lo porrebbe formalmente al di sopra di trattativisti e non, ma nella sostanza di rifiuto aprioristico di ogni atto o gesto che potrebbe concorrere, in via presuntiva, a salvare la vita dell'ostaggio.

"Non si tratta di dividersi in falchi e colombe, afferma Mammì, ma di chiederci se al sequestro non seguirebbe sequestro, a ricatto ricatto, a cedimento cedimento, qualora si venisse a trattare con un partito armato che ha disperato bisogno di ricostruire attorno a sé fasce di solidarietà presentandosi come valido contropotere". Non diversamente Ugo Picchioli, responsabile della sezione problemi dello Stato del PCI, aveva il giorno prima, poche ore dopo il rapimento, rilasciata questa perentoria affermazione pubblicata in un riquadro sulla prima pagina dell'"Unità" (particolare che ne fa risaltare il carattere ufficiale convolgendo la responsabilità di tutto il partito): "Ogni cedimento ai ricatti sarebbe inaccettabile. Oltretutto, se si cedesse, si ridarebbe spazio e forza al terrorismo, lo aiuterebbe a superare la crisi in cui si trova".

In effetti con queste dichiarazioni si mettono le mani avanti. Al momento non c'è alcun ricatto terrorista e nessuna richiesta rivolta allo Stato e al Governo. Nei volantini diffusi si enunciano finalità e strategia del partito armato.

La richiesta di chiusura dell'Asinara è avanzata come intimazione perentoria: o sarà attuata da chi ne ha il potere o conquistata con la lotta; non è prospettata come possibile condizione per il rilascio del prigioniero o come merce di scambio. Non c'è offerta di opportunità negoziali; non c'è un solo passo, nei comunicati sin qui diramati, che accenni alla prassi compromissoria del "do ut des". Lo fa rilevare il liberale Bozzi: ``Il discorso del cedere o non cedere prima che i terroristi abbiano avanzato richieste serve solo a dividere di più le forze politiche''.

La prematura indisponibilità repubblicana a una trattativa peraltro non richiesta si rifà alla vicenda Moro, ed è in realtà un avvertimento ai socialisti oltre che a Forlani, un tentativo di premere sul Presidente del Consiglio e predisporlo ad esercitare tutta la sua influenza sulle altre forze della maggioranza che avessero possibilmente tentazioni umanitarie.

Forlani, fin qui, ha avuto soltanto contatti informali, telefonici, con Piccoli, Craxi, Spadolini e Longo, ma attende di convocarli intorno a un tavolo per decidere una linea unitaria. Craxi ha già espresso un punto di vista che frattanto si differenzia sensibilmente da quello repubblicano, avendo a presupposto non la ``fermezza'' ma l'istanza umanitaria. Per lui ``la lotta a fondo contro il terrorismo impone di difendere e di salvare le vite umane in pericolo, e ora la vita da salvare è quella di Giovanni D'Urso''; e i socialdemocratici, ai quali non gioverebbe un aperto contrasto coi socialisti, per bocca di Saragat e Longo fanno sapere che ``bisogna fare ogni tentativo per salvare la vita del magistrato D'Urso, nella consapevolezza che quest'obiettivo va perseguito in modo tale da ridare forza e credibilità alle istituzioni''.

Per i radicali il problema di trattare o meno è pretestuoso. Se lo Stato deve affermare una sua fermezza, non può farlo omettendo gli adempimenti democratici ai quali è tenuto, dinanzi a se stesso, per lealtà democratica; non può in altri termini usare l'alibi di un ``ricatto'' per legittimare la sua mancanza di tenuta democratica. La chiusura di un'istituzione della violenza come il lager dell'Asinara, alla quale si sono già impegnati la classe politica e il governo - obietta Massimo Teodori ai fautori della cosiddetta ``linea dura'', - sarebbe semmai ``un segno di forza da parte dello Stato'', non di debolezza; a prescindere da qualsiasi richiesta dei terroristi - aggiunge Franco De Cataldo - ``l'Asinara va chiuso perché è indegno di una qualsiasi società civile''.

Non esistendo di fatto un ``ricatto'' terrorista, o una sia pur larvata proposta di negoziato, la chiusura in un'intransigenza antinegoziale è rivolta all'indietro, non in avanti; non può essere interpretata diversamente che come un siluro verso provvedimenti in via di attuazione o comunque dovuti. Poiché l'Asinara stava per essere chiuso, ne era stato insomma già deciso e programmato lo smantellamento, che era anzi in corso molto prima del comunicato numero uno delle brigate rosse, una sospensione dell'operazione già avviata rischiava di dar corpo, di determinare il ricatto delle Br e conseguentemente di onorarlo, nella misura in cui per non subirlo lo Stato avrebbe dovuto dimettere le proprie autonome valutazioni assunte per valutazioni di giustizia e di civiltà. Lo conferma in qualche misura il liberale Raffaele Costa, sottosegretario alla Giustizia nel precedente Governo Cossiga: "La progressione dei tempi cronologici avrebbe portato alla chiusura anche dell'Asinara ("dopo Favignana"), non per rispetto v

erso i capi storici delle Br, ma nei confronti di una decisione che era preventivata e che si trattava soltanto di attuare man mano che si aveva la possibilità di decentrare i detenuti altrove".

Con il sistema carcerario, secondo Costa, noi siamo in forte ritardo, perdura una situazione carceraria pesante e in via di aggravamento che amplia gli spazi della protesta, e in un certo senso la legittima. Si attaccano le carceri perché sono il corpo molle del paese; e l'intenzione delle brigate rosse, secondo Costa, ``non è certamente quella di migliorarle. Vogliono anzi che restino nelle condizioni di adesso'', diversamente perderebbero una delle piattaforme più salde della loro strategia eversiva. Dovrebbe conseguirne, benché Costa non lo dica, che affrettare la chiusura di carceri come l'Asinara, e procedere all'attuazione di misure che rendano praticabile la riforma penitenziaria, rimasta fin qui un libro dei sogni, significherebbe tagliare l'erba sotto i piedi al terrorismo, sarebbe davvero una prova di coerenza e di illuminata fermezza.

Almeno per lo smantellamento della sezione di massima sicurezza del carcere dell'Asinara vi è uno schieramento pressoché unanime. La divergenza è sui tempi, che i duri, capeggiati contingentemente dai repubblicani, vorrebbero posporre per non subire il ricatto dei brigatisti nonostante sia in gioco la vita di un uomo. La logica che sta alla base di un tale atteggiamento riduce il confronto con il terrorismo ad uno scontro gladiatorio e trascura totalmente di considerarne le implicazioni sulla sopravvivenza di D'Urso. Il governo, per adesso, si tiene prudenzialmente a distanza attendendo che almeno tra le forze di maggioranza vi sia un decongestionamento. E la DC, avendo sempre chi le tira la volata nelle direzioni che poi deciderà di percorrere, può restare al coperto ostentando una neutrale equidistanza.

Primo dibattito alla Camera

Di questa vischiosità non prometterte per la signora D'Urso, che frattanto si reca anche dal Capo dello Stato per invocare la salvezza del marito, si ha una conferma più tangibile nel dibattito che si svolge a Montecitorio la mattina del 16 dicembre. Le numerose interpellanze e interrogazioni presentate si possono dividere in due gruppi: quelle preoccupate prioritariamente per la sorte dell'ostaggio, e le altre intese a sollecitare una ``grinta'' che relega in secondo piano il problema della vita del magistrato.

Al primo gruppo appartengono soltanto le interpellanze radicali, volte a ``conoscere gli intendimenti del Governo in relazione al sequestro del giudice Giovanni D'Urso'', oppure a ``sapere quali iniziative ha preso ("il Governo") per ottenere la liberazione del magistrato''; al secondo le altre, dalle democristiane alle missine, ``per conoscere le circostanze del rapimento'' (DC), o per conoscere ``quale sia lo stato delle indagini per liberare il giudice D'Urso e per scoprire e assicurare alla giustizia i suoi rapitori'' (PCI). Non si equivochi sulla sostanza della domanda. I comunisti non chiedono iniziative politiche dirette a favorire la liberazione, ma un'azione diretta a colpire i sequestratori che sia innanzi tutto una prova di forza e solo in misura ridotta un concorso alla liberazione del prigioniero. La richiesta è oltretutto velleitaria perché della ubicazione della prigione non c'è il minimo sentore. La interpellanza del PSI sfugge per la tangente, intesa come è a capire ``quale riferimento quest

o episodio possa e debba avere con il quadro articolato del terrorismo politico italiano''.

Il ministro Rognoni, rispondendo, si tiene alla larga. Quanto alla meccanica del rapimento non rivela niente di più di quanto sia stato ampiamente riportato dalle cronache. Egualmente per quanto riguarda le indagini in corso, che però, assicura, assumerebbero ``contorni sempre più definiti'', ma su questo punto ritiene di dover osservare un riserbo che dovrebbe essere ``compreso ed apprezzato dal Parlamento''. Circa le misure di protezione di chi è esposto ad azioni terroristiche ritiene appropriate quelle adottate (macchine blindate a disposizione dei magistrati), e semmai il problema è di come ``fare osservare le massime precauzioni da chi non le ritenga necessarie e opportune'' (come nel caso del magistrato rapito).

In materia di atteggiamenti e iniziative del Governo, Rognoni dà un colpo al cerchio e uno alla botte. "Contro il terrorismo - dice - in nessun modo possono essere allentate la vigilanza e la più ferma determinazione. Il Governo, mentre conferma la sua disponibilità al dibattito sulla politica carceraria e sulla situazione in atto negli stabilimenti penitenziari, preannunziata dal Ministro guardasigilli giovedì scorso presso la commissione giustizia della Camera, assicura di essere egualmente pronto ad un dibattito sui temi della sicurezza, dal quale ritiene di poter trarre elementi destinati a rafforzare l'impegno nella difesa di una giusta e pacifica convivenza civile".

L'intervento di Rognoni, dopo quest'acrobatica incursione tra i problemi della sicurezza, si conclude però con una dichiarazione aperturista: "Il Governo non lascerà nulla d'intentato nei limiti delle sue possibilità, per raggiungere l'obiettivo, oggi primario, della restituzione del giudice D'Urso alla sua famiglia... In questa prospettiva il Governo praticherà ogni strada e non trascurerà alcuna opportunità che possa condurre ad un esito positivo di questa vicenda, che partecipa obiettivamente dei valori più profondi del ``privato'' e nello stesso tempo si inserisce duramente nella vicenda più complessa ed articolata della comunità nazionale".

Il radicale Franco De Cataldo benché prenda atto della disponibilità del Governo a dibattere i problemi della sicurezza, obietta al Ministro che l'azione del Governo è fallimentare da ogni punto di vista, e l'ultima iniziativa, presa in concomitanza con il sequestro del magistrato, di prolungare per sessanta giorni il fermo di polizia, serve semmai ad ``incrudelire la spirale della violenza''. Qualsiasi tentativo, aggiunge, ``nel rispetto della legge e della Costituzione'', deve essere fatto per salvare la vita del magistrato D'Urso. Qualsiasi tentativo. Uno Stato è forte non perché sia forte oggettivamente, ma perché dimostra dentro di sé la sua forza, nel momento in cui è anche capace di verificare le condizioni per cui un membro, una componente della società, non venga spietatamente, barbaramente ucciso. Comunque, a prescindere dalla richieste brigatiste, l'occasione è propizia perché si ``arrivi nel giro di poche ore a decretare la chiusura del carcere dell'Asinara... Mi sembra che non si possa porre ind

ugio. E non ci si dica che lo Stato non agisce sotto la pressione delle brigate rosse; non sarebbe vero, sarebbe una giustificazione falsa, perché, se bisogna agire, occorre farlo subito. E se questo potrà servire a risolvere, sia pure in parte, il problema della vita e della libertà di D'Urso, tanto meglio: avremo la soddisfazione di aver compiuto due opere eticamente e socialmente rilevanti''.

Marco Boato, radicale, risale ancora più indietro, e accusa il Governo di gravi omissioni che lo hanno messo nelle condizioni di essere ricattato e hanno preparato il terreno al sequestro del magistrato. "Lo fate il vostro mestiere tutti i giorni?" - chiede ai rappresentanti del Governo presenti in aula - "Avevate letto nei fatti che succedevano in questi mesi nel nostro paese che questo che oggi abbiamo di fronte stava per succedere? Evidentemente non che avrebbero sequestrato proprio D'Urso: questo non lo sapeva nessuno, spero. Ma li avevate letto i fatti che stavano accadendo? Avevate letto i documenti delle brigate rosse, da mesi e mesi a questa parte, riguardo ad un unico, ossessivo, paranoico obiettivo: chiudere l'Asinara, chiudere l'Asinara, chiudere l'Asinara! Questa era l'unica cosa paranoica che veniva detta. Allora come potevate non sapere che a questo sarebbero giunti? La rivolta di Nuoro, la rivolta di Firenze avevano questo unico obiettivo: chiudere l'Asinara".

Boato ricorda che alcuni giorni prima, e quando D'Urso non era stato ancora rapito, aveva concluso il suo intervento nella commissione Giustizia della Camera con queste parole: "non arrivate a dover accettare il ricatto dei brigatisti sul carcere dell'Asinara". Comunque, prosegue, "chiudere l'Asinara e rivedere tutto il regime delle carceri speciali, delle carceri di massima sicurezza nel nostro paese, è una rivendicazione sacrosanta che noi, forze politiche democratiche, di maggioranza o di opposizione, dobbiamo portare avanti autonomamente e con forza, per ragioni di giustizia, di civiltà del diritto, di democrazia nel nostro paese".

L'unica via percorribile è quella dell'azione democratica, che passa attraverso tali adempimenti e tutti gli altri inerenti al sistema carcerario, non certo attraverso le leggi speciali e il fermo di polizia, che perfino l'ex ministro della giustizia Bonifacio (DC), ricorda Boato, considera "un ostacolo a ritornare su un terreno istituzionale diverso da quello su cui il terrorismo ha costretto il nostro paese in questi anni". Quindi, conclude, "se vogliamo ripercorrere le vecchie strade, e magari ripeterle ancora più stancamente, in modo più becero, sarà questa una tragedia non solo, e prima di tutto, purtroppo, per il dottor D'Urso e la sua famiglia, ma una tragedia anche per la democrazia nel nostro paese. Risolverete infatti - apparentemente - questo caso, seppellendo un cadavere, e dicendo "non abbiamo ceduto", ma vi ritroverete di fronte ad un fenomeno ormai reso endemico, che non avrete saputo sconfiggere perché non sarete stati neppure in grado di capirlo".

Gli interventi di democristiani e socialisti sono sguscianti: Gerardo Bianco, per la DC, se la cava sottoscrivendo la promessa di Rognoni secondo la quale non sarà lasciato nulla d'intentato per la liberazione di D'Urso, ricordando però che le leggi di questo Stato, che è uno stato di diritto, vanno rispettate in modo puntuale; e Labriola, per il PSI, si preoccupa principalmente di sollecitare un dibattito sullo stato della sicurezza in Italia, omettendo ogni riferimento diretto a iniziative per la salvezza di D'Urso. A parte il missino Pazzaglia, che non solo non vorrebbe la chiusura dell'Asinara, ma pretenderebbe che si creasse un costellazioni di carceri specialissime e di massima sicurezza, il comunista Fracchia è poi l'unico che almeno ha il dono della sincerità in ordine all'atteggiamento che dovrebbe avere il Governo verso il terrorismo e la vicenda specifica del sequestro. Per lui non ci sono dubbi, l'atteggiamento deve essere ``di decisione, di fermezza, di rigore e di coerenza'', come fu in occasio

ne del sequestro dell'onorevole Aldo Moro.

Br: ``dov'è il piano segreto?''

Con il dibattito del 16 dicembre a Montecitorio la vicenda D'Urso si fa sorda. Subentra un clima di suspence, che potrebbe essere di riflessione, come comunemente si dice, ma che più spesso tradisce il vuoto d'iniziativa. Le indagini proseguono, ci si dice, a ritmo serrato, ma non progrediscono minimamente: la speranza di venire in possesso di qualche indicazione utile è rimessa alla possibilità che ``i pentiti'' forniscano qualche elemento nuovo che permetta di seguire una pista meno vaga di quelle fin qui ipotizzate. Alla stampa che chiede incessantemente notizie alla magistratura, carabinieri e Digos si limitano ad assicurare di muoversi su precise direttrici, ma non hanno tuttavia un solo dato da fornire. Contemporaneamente si accertano alcune circostanze di contorno: la prima è che ai magistrati sono state assegnate soltanto 330 auto blindate su 1200 promesse, e questo smentisce ampiamente l'efficientismo protettivo vantato da Rognoni nel suo intervento alla Camera; la seconda è che il giorno del rapime

nto D'Urso si recò in ufficio per sostituire un collega che glielo aveva richiesto: se i brigatisti lo hanno braccato e catturato proprio in tale giorno potrebbero voler dire che avrebbero ricevuto una tempestiva segnalazione dall'interno (si prospetta insomma la solita ipotesi di talpe annidate nella pubblica amministrazione).

Ad accentuare il clima di suspence contribuisce anche l'incertezza sulle intenzioni e sull'orientamento del Governo. L'atteso vertice di Forlani con i quattro segretari dei partiti della maggioranza c'è stato lo stesso giorno del dibattito a Montecitorio, ma non appare chiaro se sia stato decisivo o interlocutorio. Al termine viene diramato questo secco e protocollare comunicato: "Il Presidente del Consiglio dei ministri si è incontrato con i segretari dei quattro partiti della maggioranza governativa. I segretari dei quattro partiti hanno assicurato il sostegno solidale al Governo nell'affrontare con determinazione i problemi di emergenza come la lotta al terrorismo, la ricostruzione delle zone terremotate, gli impegni di programmazione economica".

Tutto qui. Sulla base di quanto è emerso nei giorni precedenti alcuni azzardano l'ipotesi che forse un qualche accordo per la chiusura immediata dell'Asinara sia stato raggiunto; tuttavia proprio mentre è in corso il vertice, Mammì ci tiene a ribadire che il PRI "è favorevole alle supercarceri intese come luoghi dove detenere criminali partecipi di una criminalità organizzata che potrebbero perciò più facilmente evadere se fossero rinchiusi altrove". Molto probabilmente questa posizione deve essere stata mantenuta nel corso della riunione dei segretari con Forlani. Certo essa non è ostativa in assoluto, per cui l'ipotesi di una disposizione a chiudere l'Asinara resta valida, ma costituisce sempre uno scoglio che il Governo deve in ogni modo superare per evitare i clamorosi contrasti all'interno della maggioranza. D'altra parte la partita non è tra un Forlani neutrale e un PRI intransigente sulla cosiddetta linea della fermezza; il conto va fatto con i quattro partiti della maggioranza, e tra essi la DC, lo s

tesso partito di Forlani, che sembra avvertire il richiamo dei repubblicani. Da indiscrezioni trapelate, infatti, Piccoli avrebbe convenuto con Spadolini sulla necessità della massima intransigenza di fronte a qualsiasi richiesta dei terroristi, pena la perdita di ``credibilità dello Stato'', che sarebbe stata fatalmente compromessa ``dal più piccolo cedimento''.

Dall'esterno i comunisti infittiscono le iniziative per far prevalere la linea della fermezza contrapponendola ad una inesistente linea della trattativa. Il 19 dicembre "L'Unità" pubblica una lunga e dettagliata intervista al magistrato Pietro Calogero, l'autore del ``teorema Negri'', nella quale si sostiene che soprattutto oggi, più che all'epoca di Moro, bisogna respingere ogni ipotesi di trattativa e cedimento, proprio in considerazione dell'obiettivo politico minore, e di più facile percorribilità, perseguito con l'odierno sequestro. "Scegliendo un obiettivo politico meno importante - afferma Calogero - e richiedendo implicitamente allo Stato di trattare con modalità meno onerose, le br mirano, probabilmente, ad infrangere quel fronte della fermezza che, nel '78, fu causa della loro sconfitta. Ritengo che anche questa volta il rifiuto di trattare sia indispensabile non già per un'astratta questione di principio o per una antistorica ragione di Stato, ma perché solo quel rifiuto impedisce alle br di raggi

ungere un obiettivo che è strumentale alla realizzazione di una strategia di sovvertimento. Il sequestro D'Urso è, a mio parere, il primo atto, riveduto e corretto rispetto a quello del '78, di una programmazione graduale e inesorabile, che punta a scompaginare lo Stato, spingendo il Paese nel vortice di una guerra civile".

L'intervistato dava per scontata l'autorità dello Stato coniugandola in termini di forza e bandiva da sé la preoccupazione di recuperare allo Stato la sua forza in termini di tensione democratica per derivarne una autentica capacità di efficienza. La stessa ostinazione a porre la trattativa come una obbligata alternativa alla fermezza, a chiamare cioè, con allarme ed esecrazione, trattativa ogni sforzo di individuare le vie percorribili per conservare allo Stato la sua consapevolezza di Stato democratico, tanto più consapevole di sé e della sua autorevolezza quanto più non mutuava una pretesa di forza da un olocausto (la vita di D'Urso), questa stessa ostinazione era l'indice più smaccato di una violenza logica e morale, come se la società politica non avesse responsabilità nei confronti del fenomeno terroristico, come se essa non fosse chiamata in causa e investita dalla ipotesi di morte che incombeva su un uomo, di fronte alla quale altra risposta non sapeva dare se non l'ostinazione non a misurarsi con se

stessa, i propri doveri e i propri valori, ma a proiettare una immagine gladiatoria della sua ``vittoria'' in un match con le br. In ultima analisi, Calogero e chiunque si affidava a quella logica, trovava del tutto naturale che un uomo fosse immolato sull'altare dell'inadempienza e delle omissioni dello Stato.

Lo smantellamento dell'Asinara era stato da tempo riconosciuto autonomamente dal Governo e dalle forze politiche come atto giusto e dovuto alla democrazia; non si era tempestivamente provveduto al conseguente e già deliberato adempimento; si voleva ora lasciare che un uomo del tutto innocente pagasse con la propria vita questa sorda e colpevole pigrizia; si trovava naturale che Stato, Governo, partiti e società politica scaricassero sulla vita di D'Urso le proprie inadempienze.

Le dichiarazioni di Calogero erano all'unisono con la disinvoltura allarmistica del PCI, che, sincronizzata sintomaticamente sulle apocalittiche enunciazioni dei comunicati terroristici, dava per scontata l'ipotesi di comodo della trattativa, in effetti neppure avanzata, che consentiva di ignorare lo spessore politico che comunque conservava il confronto fra democrazia e terrorismo. Ne sembravano invece avvertiti consistenti settori della magistratura che dalle tesi di Calogero, cominciavano a prendere le distanze.

Nei documenti delle br, secondo Neppi Modona, "vi sono segni di forza, ma per fortuna anche molti sintomi di debolezza e di contraddizioni politiche senza via d'uscita: è dall'analisi di queste debolezze e di queste contraddizioni che bisogna prendere le mosse per dare alle br una risposta che consenta di salvare una vita umana e di sconfiggere politicamente la nuova strategia del terrorismo"; e ciò è possibile soltanto "superando la sterile contrapposizione tra partito della trattativa e partito del rigore".

E' a questo punto della polemica che le brigate rosse si rifanno vive con un terzo comunicato lasciato in tre copie in un cestino dei rifiuti di via Merulana, all'altezza del cinema Brancaccio. Della sua esistenza ne è informato per il primo "Il Messaggero" da una telefonata effettuata questa volta da una donna. Il testo è ciclostilato di una cartella e dieci righe, diviso in tre capitoli numerati.

Ancora una volta i brigatisti non avanzano alcuna richiesta, né tanto meno propongono trattative. Il motivo centrale è sempre lo stesso: ``chiudere l'Asinara'', ma è enunciato come un imperativo categorico, o un'istanza irrinunciabile di cui è lo stesso partito armato a farsi carico. L'impostazione e il tono sono semmai di chi pretende dalla controparte una resa incondizionata, senza trattative. Non a caso sulle polemiche al riguardo dei giorni precedenti, e sulle stesse prospettive di effettiva chiusura del supercarcere comunque affiorate, si parla con ironia e disprezzo, rincarando la dose delle accuse, non certo per tentare una possibile aggregazione al carro procedente sul sentiero favorevole.

"Dopo la cattura di D'Urso - si legge nel comunicato - stiamo scoprendo che l'Asinara non è di gradimento a nessuno. Non riusciamo a capire perché fino a venerdì 12 dicembre questo campo era invece quello prediletto. Ha sempre funzionato a pieno ritmo a tal punto che vi hanno concentrato i più sadici carcerieri, vi hanno messo a direttore quella specie di belva di nome Massida che si è fatta un'esperienza di torturatore a Nuoro. Le ridicole messinscena dei democratici da baraccone al servizio del regime DC non ci riguardano; noi su questo piano non abbiamo che da ripetere che il movimento dei Proletari Prigionieri ("le maiuscole sono nel testo, e sottintendono un giudizio di valore contrapposto a quello che potrebbe essere dato sui democratici e torturatori, trattati infatti con minuscole") da anni dice nella sua lotta: chiudere immediatamente e definitivamente l'Asinara".

Quanto a D'Urso vi si dice soltanto che è un "macabro ed efficiente esecutore della filosofia imperialista". Questo "buon padre di famiglia era al vertice degli infami aguzzini preposti al genocidio delle centinaia di migliaia di proletari condannati da questo regime all'unico sistema di vita che sa offrire: la galera... Coloro che chiedono la liberazione del capo degli aguzzini D'Urso sappiano che non rinunceremo mai a sostenere il perseguimento del programma del proletariato prigioniero".

Sbeffeggiante, infine, è il giudizio sulle indagini convulse condotte dalle diverse polizie e dalla magistratura per scoprire la ``prigione del popolo'' e i sequestratori. L'opinione è che si giri a vuoto, e si speri soltanto di carpire notizie mettendo sotto torchio i terroristi detenuti, soprattutto i cosiddetti ``pentiti''. "Viene propagandato dalla stampa - scrivono i brigatisti - un piano segreto, formidabile, che i carabinieri starebbero attuando. Ed ha anche un nome: tortura dei prigionieri comunisti. Gli sgherri dei corpi speciali stanno organizzando in grande stile l'applicazione di quello che hanno sperimentato sulla pelle di molti compagni nell'ultimo anno... Ma ai tentativi di provocazione criminale, alle torture, risponderemo con la rappresaglia".

Una bomba da Parigi:

arrestato Marco Donat Cattin

Dopo questo terzo comunicato brigatista, che non presenta sostanziali novità rispetto ai precedenti, e lo si direbbe diramato quasi per un bisogno di recupero sulla caduta di attenzione, si ripiomba relativamente nel silenzio in relazione allo specifico caso D'Urso.

D'latra parte non v'è alcun segno di iniziativa politica, anche se, pare, proseguono segretissimi conciliaboli tra il Presidente del Consiglio e i quattro segretari dei partiti della maggioranza, né la polemica si arricchisce di nuovi spunti, né infine le indagini segnano qualche progresso, essendo rimaste incagliate alle magre rilevazioni del primo giorno, per cui non resta che rilanciare sempre lo stesso pastone di notizie, fingendo di rinfrescarlo rinnovando quotidianamente l'enfatizzazione dei singoli dettagli.

A scongiurare il pericolo di un assopimento e che dalla monotonia ripetitiva intervengano una serie di fatti collaterali coinvolgenti sempre il fenomeno del terrorismo nella sua globalità.

La bomba arriva da Parigi nella notte del 19 dicembre. Alle ore 22, si legge nei dispacci di agenzie, all'esterno di una "brasserie" degli "Champs Elysées", è stato arrestato Marco Donat Cattin, figlio dell'ex ministro democristiano Carlo, colpito da numerosi mandati di cattura per cinque omicidi, almeno altrettanti sequestri e un nutrito contorno di reati minori. La sua latitanza durava da circa tre anni, durante i quali è risultato più imprendibile della "primula rossa". Lo si dava a Londra, a Parigi, sulla Costa Azzurra, negli Stati Uniti e in capo al mondo, benché molto più probabilmente stesse nella sua Torino, dove del resto non è mancato chi l'ha più volte incontrato. A bloccarlo sarebbero stati agenti del controspionaggio francese e carabinieri italiani del nucleo antiterrorismo. Il giovane leader di "Prima Linea" era in compagnia di una ragazza, e appena fermato ha esibito un passaporto falso. Ma non gli è servito a niente poiché i carabinieri lo avrebbero riconosciuto senza possibilità di dubbi. Co

ndotto alla "Sureté", visto ormai che la sua identità era stata accertata, ha preannunciato clamorose rivelazioni a mezzo di un materiale che si riservava di consegnare.

Anche se non si sa assolutamente niente di dove possa essere D'Urso, l'arresto di Marco Donat Cattin è l'occasione per recuperare parte della credibilità perduta in una settimana di indagini a vuoto introno al rapimento del magistrato. Non a caso le veline diramate dagli organi ufficiali esaltano il ruolo avuto dai carabinieri in tutta l'operazione e soprattutto accreditano la circostanza secondo cui l'azione sia conclusiva di un programma di indagine messo a punto ed eseguito dalle autorità italiane. Di "Prima Linea", dopo i numerosi arresti effettuati in precedenza, sarebbero rimasti in circolazione Donat Cattin e Maurice Bignami. Il primo aveva scelto la via dell'espatrio, mentre il secondo sarebbe confluito nelle brigate rosse. Quindi di fatto il figlio del notabile democristiano sarebbe stato l'ultimo rappresentante della componente nordica di "Prima Linea": la sua cattura quindi segnerebbe la liquidazione della pericolosa formazione terroristica.

E' possibile che le cose, nelle loro linee generali, si siano svolte così come sono state raccontate dagli inquirenti; anche se dalla Francia giunge una smentita circa la partecipazione delle nostre forze di polizia alla cattura. Ma la modalità dell'arresto, di una semplicità esemplare, autorizza anche il sospetto che il giovane sapesse di dover essere arrestato, o che abbia lui stesso propiziato l'opportunità del suo arresto, scegliendo a questo fine Parigi per confermare soprattutto una latitanza ferrea della quale la famiglia sarebbe stata sempre all'oscuro.

Delle forze politiche, soltanto i radicali sviluppano u'azione che in coerenza con obiettivi che sono parti essenziali dei loro programmi, può avere presumibilmente effetti positivi anche sulla vicenda D'Urso. Franco De Cataldo, Adelaide Aglietta e Marco Boato inviano infatti al Ministro di grazia e giustizia una lettera per ricordare che da tempo politici, sociologici, magistrati e operatori del diritto concordano sulla necessità di chiusura della sezione speciale dell'Asinara. "La circostanza dolorosa del dottor D'Urso - è scritto nella lettera - non deve indurre a comportamenti che sono contro il diritto, oltre che la morale, ma deve anzi consigliare di perseguire la strada della corretta applicazione delle leggi e dei regolamenti. Nessuno potrà mai interpretare come segno di cedimento la prosecuzione di un'opera che contribuisca a rendere la società più matura e lo Stato più civile".

Qualche giorno prima (15 dicembre) Franco De Cataldo ha scritto al socialista Felisetti, presidente della Commissione giustizia della Camera, di cui il deputato radicale fa parte, per chiedere l'immediata convocazione della commissione al fine di evitare che sulla vicenda D'Urso si stenda il silenzio inerte del Parlamento così come avvenuto sulla vicenda Moro. La risposta di Felisetti (19 dicembre) sarà negativa, e inevasa resterà una ulteriore richiesta telegrafica dello stesso De Cataldo (26 dicembre) che chiedeva quanto meno una riunione dell'ufficio di presidenza della Commissione. La risposta di Felisetti appare a prima vista contraddittoria con l'operato dei socialisti che premono per la chiusura dell'Asinara e non sono indifferenti alla sorte di D'Urso. Meno contraddittoria si rivela non appena ci si rende conto che l'azione socialista, come già avvenne nel corso della vicenda Moro, tende ad esaurirsi nell'ambito riservato dei rapporti all'interno della maggioranza di governo, mentre l'iniziativa dei

radicali tende a portare tutto sul terreno scoperto, dove ogni atto comporti una conseguente, esplicita responsabilizzazione, senza esclusioni o sotterfugi, totalmente esposta al giudizio della coscienza popolare.

Un falso comunicato

Tuttavia non manca chi surrettiziamente, benché ne sia intuibile l'identità, si adopera per gettare discredito sulle iniziative radicali. In concomitanza con la lettera radicale al Guardasigilli viene diffuso un comunicato delle br che chiama in causa i radicali ma che risulterà subito agli inquirenti della Digos assolutamente falso. Il messaggio, lasciato nel solito cestino dei rifiuti in piazza Armellini, davanti all'accademia della guardia di finanza, è raccolto da un redattore del quotidiano "Vita", accorso sul posto su indicazione telefonica di un giovane anonimo senza inflessioni dialettali. Lo stile e il linguaggio, oltre che il materiale adoperato e gli strumenti usati per la confezione, risultano del tutto impropri: "Organizzare la liberazione dei compagni di galera (``"il proletariato prigioniero"'', definizione rigorosamente d'obbligo del "nuovo corso brigatista, è dimenticato"). Smantellare il circuito della differenziazione, costruire e rafforzare i comitati di lotta, chiudere i "lager" di Stato

. Creare i presupposti per dibattimenti inerenti carceri speciali con partecipazione attiva e corretta di organi del partito radicale; inoltre smantellare la tesi di infamia attribuita al compagno Jannelli (il giudice D'Urso collabora e partecipa al nostro interrogatorio). Jannelli è un compagno comunista da non ritenere collaboratore. Saranno ritenuti responsabili tutti coloro che si avvaleranno ("sic") di concetti di legalità arbitraria. Libertà per tutti i compagni caduti combattendo".

Pur consapevole e avvertita del falso, la stampa utilizza il comunicato avanzando, ``onestamente'', l'ipotesi della sua falsità, ma lasciando intendere che potrebbe essere naturale la richiesta di mediazione radicale specie da parte dell'ala più politica, o in via di deterroristizzazione, del brigatismo. "A parte il fatto - commenta De Cataldo, appena gli si parla di questo comunicato - che nutriamo seri dubbi sull'autenticità di questo messaggio, il nostro atteggiamento non cambia. Non si serviva questa richiesta per interessarci delle condizioni di vita nelle carcere".

Una indagine tuttavia sarebbe stata opportuna, oltre a quella condotta per accertare l'autenticità del comunicato, per cercare di capire chi poteva avere interesse nella diffusione di un testo del genere, che appariva scopertamente diretta ad indebolire l'azione dei radicali e ad impedire la chiusura dell'Asinara. E' infatti sintomatico che questo pseudo comunicato copia quando cominciano a circolare voci di una prossima chiusura dell'Asinara, alla quale pervicacemente contrari sembrano essere i comunisti ed altrettanto i repubblicani e le destre, e quasi contemporaneamente alla convocazione da parte di Forlani di una riunione, per lo stesso pomeriggio, del Comitato interministeriale per la sicurezza (Cis).

A latere dell'iniziativa radicale concretatasi nella lettera al Guardasigilli v'è una lunga dichiarazione di Bettino Craxi con riferimento diretto sia alla vicenda D'Urso che alle radici e soprattutto ai possibili collegamenti internazionali del terrorismo, tema riemergente, ma sempre in termini nebulosi: "Ho già altre volte ricordato - afferma Craxi in un'intervista al "Corriere della Sera" del 21 dicembre - la sentenza della corte suprema tedesca sul caso Schleyer, in particolare laddove essa afferma che il peculiare modo della difesa contro i ricatti terroristici che minacciano la vita umana è contrassegnato dal fatto che le misure dovute non possono che corrispondere alla molteplicità delle situazioni singolari, restando fermo che la vita umana rappresenta un "bene supremo" e che lo Stato ha un obbligo di tutela completo. Penso che si deve fare tutto ciò che è ragionevole per liberare il giudice D'Urso".

Riferendosi poi all'esistenza di centrali straniere che in qualche modo piloterebbero il nostro terrorismo, Craxi dice di non pensare tanto "alla esistenza di un vero e proprio pilotaggio straniero quanto piuttosto ad un complesso di connivenze, di complicità internazionali e probabilmente anche di protezioni, di cui una parte almeno del terrorismo italiano ha potuto avvalersi in diversi periodi della sua crescita e della sua ramificazione organizzativa. Continuando a ricostruire la storia di questi anni, possibilmente sulla base di elementi di fatto e non di elucubrazioni fantastiche, continuando a scavare e ricercare con scrupolo, verranno alla luce anche tutti gli aspetti sui quali ha continuato per varie ragioni a gravitare una fascia d'ombra".

Il suicidio di Buonoconto

L'impasse carica di tensione per la vicenda D'Urso è percorsa però da eventi altamente drammatici, che rinviano l'attenzione alla condizione carceraria. Nel pomeriggio del 20 dicembre Alberto Buonoconto, considerato uno dei capi storici dei nuclei armati proletari, consuma l'ultimo atto della sua tragica odissea impiccandosi nella sua casa di Napoli in via Nennella Di Massimo al Vomero. Profittando dell'assenza dei suoi anziani genitori e della sorella Paola si annoda un lenzuolo introno al collo, ne lega l'estremità al gancio di una porta e si lascia penzolare nel vuoto.

Lo psichiatra professor Manacorda, che periodicamente visitava il giovane, e l'avvocato Enzo Siniscalchi, che era il suo difensore, non hanno dubbi: "questo suicidio - affermano - è la conseguenza della lunga carcerazione speciale cui Buonoconto è stato sottoposto. Le turbe psichiche di cui soffriva sono derivate dal grave degrado organico subìto, che lo ha portato alla paralisi ossea".

Alberto Buonoconto, che al processone ai Nap di Napoli era stato condannato a otto anni di reclusione, era già in precarie condizioni di salute al momento della cattura. Ma fu inviato egualmente nelle carceri speciali, dove inesorabilmente andò aggravandosi. La diagnosi redatta dai medici parlava di "sindrome ansioso-depressiva di natura reattiva in soggetto neurolabile con turbe comportamentali". Per questo fu presa in considerazione la sua eventuale liberazione in cambio della restituzione di Aldo Moro allora prigioniero delle br. Senonché il 9 maggio 1978 il corpo di Moro fu ritrovato crivellato di colpi. Buonoconto, che egualmente doveva essere liberato essendosi visibilmente ridotto ad una larva, fu spedito nel carcere di Poggioreale, dove, secondo gli stessi medici, si andava spegnendo lentamente.

Alle numerose istanze per la sua scarcerazione si rispondeva con riunioni e rinvii, finché le reiterate istanze di un comitato costituito per la sua liberazione indussero il procuratore generale a concederla.

Conseguito un effimero miglioramento Buonoconto si trasferì a Roma, dove fu arrestato due volte: una prima per essere stato trovato a dormire in un'automobile, ed una seconda per essere stato trovato a vagare in stato confusionale con un coltello tra le mani. Inviato a Regina Coeli, fu posto sotto controllo neurologico, ma per il precipitare di un deterioramento che minacciava di essere irreversibile, il 20 novembre scorso fu scarcerato e inviato a casa, dove purtroppo esattamente un mese dopo l'avrebbe fatta lui stesso finita.

Ma nel suicidio Buonoconto, che proietta luce sinistra sul sistema carcerario, la maggioranza dei giornali parla sommessamente, relegando per lo più la notizia tra le cronache d'imbottitura; mentre grandi titoli, di prima pagina, sono riservati agli arresti di presunti esponenti di formazioni armate, che proprio tra il 20 e il 22 dicembre susseguono numerose e puntuali. A Napoli agenti della Digos travestiti da netturbini e venditori ambulanti, dopo una sparatoria, catturano Marco Fagiano, considerato altro capo di "Prima Linea", e Federica Meroni, mentre altri quattro riescono a fuggire. Quasi contemporaneamente sono arrestati a Caserta Armando De Matteis e Maria Rosaria Frangipane e a Capua l'operaio Luigi Bucchierato, ritenuti fiancheggiatori; a Roma due studentesse, Rita Iacomino e Antonella Pacchiarotti, entrambe, secondo gli investigatori, collegate in qualche modo alla colonna romana delle brigate rosse. Ad arricchire il bottino contribuisce il giorno successivo l'arresto dei genitori di Fagiano per

complicità.

Il 21 dicembre un altro colpo clamoroso. In un bar di corso Brescia a Torino sono bloccati e arrestati Vincenzo Guagliardi e Nadia Ponti, della direzione strategica delle brigate rosse. Il primo sarebbe il luogotenente di Curcio, e la seconda sarebbe responsabile di sette omicidi. La loro cattura potrebbe permettere di aprire un varco percorribile per arrivare alla prigione di D'Urso: "Li abbiamo già interrogati - dice uno dei magistrati inquirenti. - Ovviamente la nostra prima preoccupazione è il sequestro del collega D'Urso. Abbiamo chiesta la loro collaborazione...", ma non aggiunge che questa è stata rifiutata, come risulterà più evidente in seguito.

In casa D'Urso, frattanto, si vivono ore di angoscia. "Non sappiamo nulla" - dice il fratello del magistrato rapito - "viviamo nel dolore, attendiamo un cenno di speranza, un messaggio, una telefonata che possa aiutarci a capire. Siamo al buio, invece: dopo quella fotografia pubblicata sui giornali, è calato il silenzio". Le indagini ristagnano, e col trascorrere infruttuoso dei giorni i magistrati accentuano il loro normale riserbo. Nel pomeriggio del 22 dicembre Forlani s'incontra a palazzo Chigi con Rognoni. Del colloquio, riservatissimo, non trapela nulla. Una notizia dal Viminale assicura che si è trattato soltanto di un aggiornamento della situazione.

Pannella alle br:

"compagni assassini, liberate D'Urso"

Giunge il quarto comunicato delle br, che s'incrocia con un messaggio diffuso frattanto dalle due figlie del magistrato rapito nella speranza che sia consegnato al padre. "Papà caro questo santo Natale trascorre con tristezza senza di te, ma noi ti stiamo lo stesso vicine con tutto il nostro cuore e i nostri pensieri. Crediamo fermamente che il nostro amore e le nostre preghiere ti diano la forza di resistere. Stiamo facendo tutto quello che ci è possibile per la tua salvezza".

Il quarto comunicato dei brigatisti, come i precedenti, non contiene richieste o proposte di trattative; pur tra le minacce, traspare però che la sorte del magistrato rapito potrebbe cambiare, in senso positivo, intervenendo fattori di rovesciamento circa le carceri di massima sicurezza. "Chi pensa che D'Urso possa essere rimesso in libertà perdurando la politica di annientamento dei proletari prigionieri e di censura sulla loro lotta, non ha capito niente della giustizia proletaria". Dovrebbe conseguire che non perdurando "la politica di annientamento" D'Urso potrebbe essere rilasciato.

Comunque quest'alternativa è per adesso una semplice proiezione logica. I riferimenti più specifici e diretti al magistrato non autorizzano l'ottimismo. "Noi non abbiamo alcun dubbio che D'Urso stia bene dove sta: in un carcere del popolo. Ma noi siamo contrari alle carceri; alle carceri di ogni tipo. Non prolungheremo la sua detenzione oltre il tempo necessario a valutare le sue responsabilità che peraltro sono fin troppo chiare. La giustizia proletaria avrà quindi rapidamente il suo corso senza esitazioni". Dopo di ciò si ribadisce ossessivamente il tema di fondo: lo smantellamento dell'Asinara. "Quest'arma di ricatto e di tortura deve essere cancellata una volta per tutte e senza discriminazioni per nessuno. Le chiacchiere mistificatorie che vorrebbero cambiare questi termini del problema le consideriamo delle inutili provocazioni".

Ma a stimolare un'iniziativa politica, ad avanzare una proposta che rompe il rigore della ``fermezza'' e l'ambiguità del trattativismo, arriva una lettera di Pannella alle brigate rosse attraverso il quotidiano "Lotta continua", che la pubblica la mattina del 24 dicembre. La lettera oscilla tra la requisitoria e l'esortazione, e porta alle estreme conseguenze la logica della non violenza, sostituendo alla logica della trattativa la logica del dialogo. "Dialogo, dialogo, dialogo - dice Pannella ai brigatisti, che chiama ``compagni assassini''. - Nessuna trattativa. Non c'è trattativa possibile e degna di rispetto da qualsiasi parte se imposta dalla violenza, con la paura, con il ricatto. Non si collabora con chi compie la violenza: è un dovere. Non vi sono regole di guerra da seguire: per fortuna e per volontà del popolo la guerra è bandita dalla Costituzione, dettata dall'antifascismo della Resistenza, e tradita dall'"antifascismo" e dal "neofascismo" dei partiti parlamentari, dal 1947 ad oggi, con la sola e

ccezione del partito radicale".

Coerente con questa impostazione Pannella chiede la liberazione di D'Urso senza condizioni. Un cadavere legittimerebbe la violenza del potere, offrirebbe su un piatto d'argento il pretesto per perpetuare il tradimento della Costituzione e delle stesse leggi dello Stato in atto dal 1947. In fondo è quel che si attende, e non fosse altro che per questo bisognerebbe negarlo. "Ma siete sicuri, compagni, se tali vi ritenete, che già ora non convenga, non vi convenga, liberare, rilasciare Giovanni D'Urso?" - chiede Pannella ai brigatisti, invitandoli a riflettere su quest'agghiacciante verità: "in realtà non lo desiderano, non se l'aspettano. Non ne sarebbero felici. Se l'aspetta, invece, ne sarebbe felice, invece, e lo sapete, "la gente", noi, voi stessi". Uccidere D'Urso sarebbe un tragico errore anche per questo: "perché il potere desidera morte, e D'Urso gli serve martire, non vivo".

Certo v'è il presidente Moro, e non a caso ora lo scenario ne riproduce per le grandi linee la trama e lo svolgimento. "Ma con una differenza grande, che nessuno sembra avere vagliato; il 16 marzo si assassinarono, per catturare Aldo Moro, gli uomini della sua scorta, gli umili lavoratori di polizia che compivano la loro fatica. Liberare Moro, il potente, il nemico, dopo avere assassinato a via Fani i quattro agenti costituiva una difficoltà politica, ideologica, "umana" anche, una contraddizione pericolosa".

Pannella si cala nella logica del partito armato spingendola al punto di non ritorno proprio per invertirne la direzione. Lungo questa logica, portata ai suoi estremi di ``umanità'' è possibile allora "che la vita, e non la morte, di Giovanni D'Urso, vita che gli appartiene, vita sacra almeno quanto quella di coloro che lo sequestrano e minacciano di assassinarlo, si muti in una occasione di vittoria e di crescita per tutti, da una parte e dall'altra, nella sola direzione in cui può esservi crescita e speranza, non disperazione e fine. E' possibile "convincere, vincere" - cioè - "assieme", sempre, e oggi. Non vincere contro. Nemmeno in chi sequestra D'Urso questa è fatalità, schiavitù, necessità".

Mi auguro che nel Parlamento italiano - prosegue Pannella - "vi sia chi pensi, ora, subito, oltre ai compagni radicali a proporre una mozione, uno strumento di dibattito per un indirizzo nuovo e fecondo di risposta politica al pericolo in cui tenete D'Urso. Non si tratta di sconfiggere "voi", come questi imbecilli lugubri e violenti credono o sentono, ma di sconfiggere quel che in voi può far crescere e determinare il peggio, un ennesimo grido di viva la "muerte", disperato e sempre anche suicida, se viene da chi si ritiene o sia "compagno"". Il problema è di potersi interrogare "pubblicamente, con la televisione e i giornali che per una volta non censurino totalmente o quasi i dibattiti parlamentari (e quelli partitici) sicché quale che sia la risposta quotidiana che si darà, essa sia data secondo quanto chiede la Costituzione e da chi la Costituzione esige".

Ma non è il ricatto che può favorire questa prospettiva. "Consentitemi di dirvi che oggi la chiusura dell'Asinara, se non molto più lontana è almeno molto più difficile di quanto non lo fosse prima del sequestro D'Urso. Nello Stato dominano infatti, non di rado, istinti e riflessi che sono molto simili ai vostri, che forse voi stessi avete ereditato e condividete con tanta parte della classe di regime. E non è questo, ne sono certo, che volete. Non è questo, non è sulla vita delle centinaia di vostri compagni reclusi per terrorismo che vorrete edificare non si sa quale "vittoria tattica", o quale altra "esecuzione" da "giustizieri"". (*)

* (Il testo integrale della lettera di Pannella è riportato tra i documenti.)

(continua al testo n. 1769)

 
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