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Capecelatro Ennio, Roccella Franco - 1 marzo 1981
LA PELLE DEL D'URSO: (2bis) I 33 giorni (seconda parte)
di Ennio Capelcelatro e Franco Roccella

SOMMARIO: L'azione del Partito radicale per ottenere la liberazione del giudice Giovanni D'Urso rapito dalle "Brigate rosse" il 12 dicembre 1980 e per contrastare quel gruppo di potere politico e giornalistico che vuole la sua morte per giustificare l'imposizione in Italia di un governo "d'emergenza" costituito da "tecnici". Il 15 gennaio 1981 il giudice D'Urso viene liberato: "Il partito della fermezza stava organizzando e sta tentando un vero golpe, per questo come il fascismo del 1921 ha bisogno di cadaveri, ma questa volta al contrario di quanto è accaduto con Moro è stato provvisoriamente battuto, per una volta le BR non sono servite. La campagna di "Radio Radicale che riesce a rompere il black out informativo della stampa.

("LA PELLE DEL D'URSO", A chi serviva, chi se l'è venduta, come è stata salvata - a cura di Lino Jannuzzi, Ennio Capelcelatro, Franco Roccella, Valter Vecellio - Supplemento a Notizie Radicali n. 3 - marzo 1981)

(seconda parte - segue dal testo n. 1768)

E' possibile il dialogo?

La stampa di regime è disorientata. Capisce il rifiuto categorico alla trattativa, ma stenta a capire l'appellativo di ``compagni assassini'' e l'invocazione del dialogo.

Così se la cava parlando genericamente di una "nuova iniziativa di Marco Pannella", oppure, come fa la stampa comunista, di "proposta sconcertante". Diverso però è l'accoglimento nel mondo intellettuale, che pur tra riserve trova percorribile la strada indicata da Pannella e ne avverte la suggestione. In un filo diretto di Radio Radicale, condotto in studio dal Lino Jannuzzi e Roberto Cicciomessere, si ha un dibattito molto articolato, che rivela soprattutto consensi unanimi sulla diagnosi contenuta nella lettera di Pannella, e semmai qualche dubbio non sulla chiarezza della proposta di dialogo ma sulla reale possibilità di attrarvi i brigatisti.

Per Ernesto Galli Della Loggia, l'ostacolo al dialogo sarebbe la natura stessa dell'organizzazione politica delle br, dell'insieme, non dei singoli militanti, "che nei suoi tratti antropologico-ideologico è di tipo nazista. Gli elementi di somiglianza sono impressionanti e tutta l'attività dei brigatisti sta a testimoniare tale coincidenza". Le br, come organizzazione armata, da cinque anni "operano scientemente per distruggere la democrazia con il corollario dei diritti civili. Su quali basi, allora, potrebbe aversi il dialogo?". Pannella presuppone un dialogo fondato sul rispetto di alcuni principi, ma le br "operano in aperto dispregio proprio di tali principi".

Il filosofo Norberto Bobbio è meno pessimista, o più possibilista, se si preferisce. "Se il dialogo con le br deve intendersi come l'enunciazione di argomenti razionali per dimostrare che i loro atti sono non solo delitti condannati dalla morale, ma anche errori politici, come debbono ritenersi, in quanto gli effetti finora sono stati contrari ai fini perseguiti, questo è un discorso fatto tante altre volte, ma senza alcun successo. Malgrado ciò, non viene meno il dovere del buon democratico di tenere aperto il dialogo con chiunque, e, per dirla con Pannella, di convincere piuttosto che di vincere".

Lo scienziato Adriano Buzzati-Traverso è invece categorico. Per lui il problema è di salvare comunque D'Urso, "se il dialogo può condurre alla sua liberazione fa benissimo Pannella a prendere la posizione che ha presa". Consenziente lo storico Salvatore Sechi che compie un'analisi molto articolata. A suo avviso, la lettera di Pannella "è un documento assolutamente non equivoco, respinge la trattativa, respinge la legge del cedimento, esorcizza il mercato della vita, chiede il rilascio puro e semplice del giudice D'Urso, e pone un problema che si poneva anche durante la vicenda Moro, dare cioè più trasparenza al dibattito parlamentare, quindi maggiore pubblicità e apertura al dialogo tra la gente e le istituzioni, e tra le stesse bande armate, i cittadini e le istituzioni". Inoltre, secondo Sechi, il testo di Pannella pone una questione cruciale: "D'Urso appare come un uomo solo, non ha alle spalle organizzazioni, né un prestigio tale che possa funzionare come potere di veto. Da questo punto di vista le reazi

oni della coscienza laica e cattolica mi sembrano caratterizzate dall'indifferenza. Mi sembra che ci sia il tentativo di affidare tutto allo Stato, alla sua capacità operativa. Io penso che lo Stato non possa trattare con i giustizieri di ieri, che poi si sono pentiti, magari sotto la spinta delle garanzie di clemenza, e intanto non preoccuparsi di chi non si è pentito, forse perché il proprio pentimento non coincidesse con la condanna alla vita o alla morte dei propri compagni". Il problema, prosegue Sechi, è complicato, ma bisogna porselo, e sicuramente la strada è questa del dialogo, che è un tentativo di capire e di conoscere chi sono costoro. Sembra però che il documento accrediti al terrorismo di puntare, sebbene con metodi aberranti, alla produzione di decisioni riformatrici. "Ma la mia personale impressione è che il terrorismo si muova nel senso di bloccare qualsiasi innovazione e trasformazione della democrazia. Direi che tra la politica del terrorismo, consistente nell'aprirsi la strada producendo

una stretta autoritaria dello Stato, e il sistema di potere dc, che vive sul blocco del sistema decisionale, cioè sul non-governo e sulle non-riforme, ci sia un rapporto di integrazione, sia pure senza nessun piano concreto".

A Gianni Baget Bozzo, al contrario, la proposta non è chiara. Che cosa vuol dire dialogo, se non trovare una posizione di comune rispetto tra due persone dialoganti? Se è così, afferma, "allora dialogo e trattativa sono la stessa cosa, perché anche nella trattativa sono di fronte due posizioni. Quindi non riesco ad afferrare che cosa di specifico abbia la proposta di dialogo, né come possa avvenire e in che sede. Mi sembra una dichiarazione di principio, di metodo, ma mi resta oscuro, ripeto, il senso specifico della proposta, poiché dialogo vuol dire riconoscere un qualcosa in comune con la controparte, e in tal senso va oltre la trattativa, che in definitiva non suppone nessun punto comune".

Maurizio Costanzo, direttore de "L'Occhio", trova molto importante proprio la differenza che Pannella coglie tra trattativa e dialogo, il quale ultimo "può essere durissimo, fino in fondo, con il peggiorare dei nemici, col quale la trattativa non può esserci mai, non deve esserci. La trattativa è ambigua, sbagliata". Per Lanfranco Pace l'iniziativa di Pannella è comunque importante perché frattanto "smuove le acque della palude politico-istituzionale, in cui pare prevalga la volontà di non decidere". Sarebbe tuttavia da verificare l'efficacia operativa della proposta, capire che cosa significa, nel quadro di un atteggiamento e una volontà riformista, nei confronti del fenomeno del terrorismo. "Da questo punto di vista mi pare piuttosto un appello ai buoni sentimenti che una proposta politica efficace. C'è un elemento di debolezza, perché non si vede quali canali potrebbero mettere in contatto la ragione della non-violenza con quella della violenza".

Su quest'ultimo punto risponde indirettamente lo stesso Pannella, intervenuto casualmente nel dibattito. Non esiste una forma di dialogo, ma infinite, e va bene qualsiasi forma. Ma badate - egli dice ai brigatisti - "nessuna di quelle, che magari per omissione, mi porti a complicità o connivenze con voi". Il dialogo è l'arma assoluta, ma non solo contro il terrorismo, contro il Leviatano rosso. "Non a caso, come parlamentare europeo, io vado dicendo che stiamo conducendo una politica alla Monaco, alla Chamberlain". Per abbattere il Leviatano rosso non occorrono guerre sterminatrici, basta "un'arma tecnologica che permetta di bombardare di informazioni il popolo russo perché questo si destabilizzi". E in realtà anche questo è dialogo.

Brutto colpo al partito della ``fermezza'':

chiude l'Asinara

Col progredire dell'azione di Pannella e dei radicali, che mirano a un coinvolgimento delle coscienze e delle intelligenze e spingono per un concreto seguito dell'impegno preso da Rognoni alla Camera il 16 dicembre per la salvezza comunque della vita di D'Urso, sempre nel solco della legalità, si incupiscono gli interventi dei fanatici della linea della fermezza. Ancora il comunista Picchioli, in un'intervista a "Rinascita", critica pesantemente quanti ritengono che siano possibili atti che salverebbero la vita al magistrato, senza che questo presupponga una trattativa o significhi cedimento. "Né il problema delle carceri di sicurezza né alcun altro problema - dice - deve essere affrontato sotto la spinta del ricatto; in questo momento nessuna pretesa dei terroristi può essere presa in esame. Guai se si facesse sapere loro che esiste anche una minima predisposizione ad ascoltarli".

Quest'esortazione alla durezza arriva però quando il fronte umanitario si sta enormemente ampliando. Alla sortita di Pecchioli fa da contraltare immediato un appello sottoscritto da numerosi intellettuali, tra i quali Sabino Acquaviva, Gianni Baget Bozzo, Marco Boato, Cesare Cases, Oreste Del Buono e Franco Fortini, volto a chiedere che "si proceda subito alla chiusura del carcere dell'Asinara, nella serena consapevolezza non di cedere ad un ricatto, ma di attuare quanto riconosciuto giusto e opportuno in piena libertà".

Il rispetto del ``giusto e del dovuto'', come lealtà verso la democrazia e forza della legalità era stato in quei giorni incessantemente ripetuto da Radio Radicale a proposito della chiusura dell'Asinara.

Successivamente, proprio nel giorno di Natale, un comunicato della direzione del PSI chiede esplicitamente l'immediata chiusura dell'Asinara, in quanto da diverso tempo, si dice nel documento, "si iniziò a disporre la chiusura delle carceri speciali come Favignana e Termini Imerese, e così avrebbe dovuto essere o dovrebbe essere per l'Asinara... Il fatto che la chiusura dell'Asinara sia ora richiesta dall'organizzazione terroristica che tiene prigioniero il giudice D'Urso in forma di ricatto non cambia e non deve cambiare la natura di fondo del problema, semmai aggiunge solo una motivazione alle altre già esistenti. Il carcere dell'Asinara doveva e deve essere chiuso, e ciò può essere fatto senza pregiudizio delle esigenze di sicurezza che possono essere altrimenti assolte".

Se tale decisione "nelle circostanze attuali può apparire una concessione fatta al ricatto terroristico in cambio della liberazione del giudice D'Urso", in realtà "essa coincide con un adempimento assolutamente giustificato e da più parti, ivi comprese fonti governative e amministrative, richiesto e sollecitato"; quindi la decisione "non comporta alcun indebolimento e rinuncia", ed il PSI è convinto che sia "necessario offrire subito ai rapitori del giudice D'Urso l'occasione di evitare un ennesimo barbaro crimine".

Le reazioni a caldo dei "duri" sono molto aspre, ma anche molto confuse. Per prima cosa si insinua che Craxi sarebbe stato indotto al gesto da un disperato messaggio del prigioniero inviato a lui e a Pannella, oppure da una lettera di analogo tenore dei familiari del magistrato. Il comunicato socialista sarebbe pertanto anche il frutto di patteggiamenti segreti tra Craxi e Pannella o tra socialisti e radicali. Poi si versa olio sul fuoco affermando che comunque la mossa socialista potrebbe rompere la maggioranza e determinare una crisi di governo che potrebbe risolversi soltanto con l'anticipato ricorso alle urne.

Ed infatti, a giudicare dalle dichiarazioni di esponenti parlamentari dei partiti di governo, l'ipotesi di una possibile spaccatura nella maggioranza non è peregrina. "Non abbiamo ceduto per Moro, chiudere l'Asinara sarebbe cedere a un ricatto", dice la democristiana Maria Eletta Martini; le fa eco il solito repubblicano Mammì, affermando perentoriamente: "l'Asinara non va chiusa". Infine il socialdemocratico Puletti aggiunge: "trattare oggi per D'Urso significherebbe gettare un'ombra sulla linea della fermezza che al tempo del rapimento di Moro servì a salvare le istituzioni".

Senonché 24 ore dopo, nel giorno di santo Stefano, una nota del Ministero di grazia e giustizia, concordata pare in una riunione a palazzo Chigi tra Forlani, Rognoni e Sarti, annuncia che il programma per la chiusura della sezione speciale del carcere dell'Asinara "è da tempo predisposto, e viene progressivamente attuato, tanto che i detenuti della sezione Fornelli ("appunto la sezione speciale"), già considerevolmente inferiori rispetto alle possibilità effettive di accoglimento, risultano oggi in numero di 25 e scenderanno a 18 entro la settimana... il completamento del piano di sgombero impegnerà tempi brevi".

In precedenza il direttore generale degli Istituti di prevenzione e pena, Ugo Sisti, in una dichiarazione trasmessa all'"Ansa" aveva fatto sapere che "il carcere dell'Asinara tornerà ad essere un colonia penale agricola", e questo non come cedimento al ricatto delle brigate rosse, ma in attuazione "di un programma precedente al rapimento, programma al quale aveva lavorato lo stesso D'Urso"; comunque, aggiungeva concludendo, se i terroristi "dovessero porre ricatti e condizioni per mettere fine a questo rapimento privo di qualsiasi logica allora la decisione non spetterà alla direzione generale ma al Governo".

Il successivo comunicato del Ministero di grazia e giustizia ufficializza questa decisione, spiazzando completamente gli esponenti dei partiti di maggioranza, che vengono del resto sconfessati dalle rispettive segreterie. Il democristiano Piccoli, spiazzando la Martini, avalla la posizione di Forlani, definendola "ferma ed equilibrata", sulla quale, si augura, si riformerà l'unità e la solidarietà tra i partiti. Longo e Saragat, smentendo il loro compagno di partito Puletti, diffondono una dichiarazione congiunta di questo tenore: "la decisione del Governo di procedere all'attuazione del programma carcerario è un gesto di saggezza e di responsabilità e dà forza e credibilità alle istituzioni democratiche". Il PRI è più cauto, continua a mantenere delle riserve, soprattutto verso Craxi in quanto avrebbe rotto "un impegno di riserbo e di consultazione", ed a dichiararsi contro ogni trattativa "diretta o indiretta". Assicura tuttavia che non farà un dramma della decisione di chiudere l'Asinara, poiché "la quest

ione Asinara è di stretta competenza del Ministero di grazia e giustizia e quindi del Governo".

I radicali, che hanno senz'altro avuto un ruolo trainante in questa direzione, e sono inoltre da sempre fautori dello smantellamento delle carceri speciali e soprattutto fautori di un generale riassetto penitenziario, anche per quanto riguarda la posizione degli agenti di custodia, non possono non condividere la decisione del Governo successiva al comunicato della direzione del PSI. Essi anzi convocano una riunione del consiglio federativo del partito per la domenica successiva, al fine di individuare "un ulteriore e più largo pacchetto di richieste di umanizzazione e civilizzazione del sistema carcerario". Nello stesso tempo Marco Pannella, sviluppando l'azione per indurre le brigate rosso al dialogo, dagli schermi televisivi della prima rete indipendente chiede di voler sapere "come posso essere utile a questa gente, e se è più utile a noi e a loro convincersi della scelta della vita, e che qualcun altro si sostituisca a D'Urso".

A parte i missini, le cui posizioni sono scontate, restano soltanto i comunisti arroccati in un'intransigenza senza sbocco, e convinti tra l'altro che la decisione di chiusura dell'Asinara, nonostante le prove in contrario, confermi l'esistenza di una spaccatura nella maggioranza. "Comunque lo si osservi, l'episodio torna a proporre, da un lato, i fini veri degli eversori, e dall'altro l'esistenza di una divisione, di un disorientamento, di una confusione, forse di manovre politiche dentro la coalizione governativa. E' troppo chiedere una parola chiarificatrice che rassicuri gli italiani e tolga ogni illusione ai terroristi".

Sabato 27, in una conferenza stampa, Forlani azzera le polemiche ribadendo che la chiusura dell'Asinara, essendo già decisa da tempo, non compromette la fermezza di comportamento del governo; e a chi manifesta dubbi sulla scelta del momento, che configurerebbe l'adempimento come cedimento ad un ricatto, ribatte: "ritengo che nessuno di noi debba concorrere a ridurre le possibilità di salvare la vita di un uomo". Va da sé che non si possono escludere "giudizi di opportunità diversi in ordine ai tempi e alle modalità di certe comunicazioni, ma sottolineo il carattere autonomo delle decisioni del Governo: i provvedimenti erano già in corso di attuazione e continuano. Non c'è alcun collegamento tra le decisioni che sono state confermate ieri con la strategia complessiva contro il terrorismo". Né, infine, come più degli altri i comunisti avevano ipotizzato, l'iniziativa socialista incrina il fronte del governo: "il segretario del PSI ha espresso preoccupazioni comuni a tutti. Nel merito l'iniziativa socialista no

n contraddice gli impegni assunti dal Governo".

La rivolta di Trani

Il colpo di spugna sui contrasti nella maggioranza non frena a lungo l'emorragia polemica. A tirare la corda è l'opposizione comunista, che sfrutta le titubanze repubblicane nella speranza di farle esplodere. Lo sviluppo degli eventi all'esterno, che acquista ritmo sempre più incalzante col trascorrere dei giorni, fa il resto.

Il capogruppo comunista Di Giulio ritorna alla carica e giudica una ``concessione ai ricatti'' il comportamento del Governo; e Pecchioli aggiunge: "non convince proprio nessuno la dichiarazione del Governo che la decisione di chiudere il carcere dell'Asinara è stata assunta autonomamente". Il segretario repubblicano Spadolini, imbarazzatissimo, cerca di uscirsene per il rotto della cuffia: ribadisce la condanna ai socialisti per aver rotto "la linea del riservo", perché così ora "tutto è più difficile", ma nega un collegamento tra iniziativa del Governo e richieste dei brigatisti.

Il democristiano Piccoli scende in campo a favore del Governo molto più nettamente del giorno precedente, e ai comunisti pone questa domanda: "per quale oscura ragione si vuole riconoscere ai terroristi un'affermazione che non hanno avuta, indebolendo le ragioni del Governo?"; e lui stesso si risponde: "se il Governo non avesse dichiarato ciò che stava facendo, gli stessi critici d'oggi lo avrebbero accusato di aver trascurato un dovere fondamentale". Gli danno man forte Longo e Lagorio, il primo dicendo che "uno Stato democratico è forte se attua i suoi programmi senza lasciarsi intimorire dai terroristi", il secondo che "lo Stato democratico deve avere un volto umano, e faccia quello che ritiene giusto e doveroso fare. Il fatto che i terroristi sollevino la stessa questione non deve impedire allo Stato di compiere un gesto che lo Stato stesso considera un atto di giustizia".

Ma più che dalle polemiche, il 28 dicembre l'ambiente è messo a rumore da una successione di fatti che danno anche la sensazione di non essere episodici, anzi di preludere ad eventi sempre più drammatici. Nel supercarcere di Trani i detenuti si rivoltano prendendo in ostaggio 19 agenti di custodia, e contemporaneamente i rapitori di D'Urso diramano un quinto comunicato, con acclusa una lettera di D'Urso al direttore degli istituti penitenziari.

Con il quinto comunicato si comincia a profilare, sia pure indirettamente, la correlazione che le br pongono fra la sorte di D'Urso e le loro richieste.

La concessione con la rivolta nel supercarcere di Trani, che alcuni vi leggono, è frutto di interpretazione di talune espressioni che rientrano comunque nell'economia del contesto e di tutto il discorso delle Br a prescindere da quel riferimento.

Ribadita la necessità di una chiusura ``immediata e definitiva'' dell'Asinara, si afferma che ``il programma dei proletari prigionieri ha potuto essere così incisivo perché sono sorti gli organismi che lo hanno guidato'' e si aggiunge che ``l'iniziativa di partito'' è collegata al programma dei proletari prigionieri, ai quali si rivolge un appello affinché ``il movimento nelle carceri e le sue espressioni organizzate esprimano i termini del loro programma''. E' questa la frase che fa pensare alla connessione fra azione esterna dei brigatisti, culminata nel rapimento D'Urso, e la rivolta scoppiata a Trani. E' più convincente invece intenderla come un coinvolgimento nella vicenda D'Urso, a livello di protagonisti politici, dei terroristi detenuti e come indicazione dell'intento delle br di configurare il partito carcerario; elementi strategici del resto, tutt'altro che nuovi. In realtà le note salienti di quel comunicato sono due: la lettera di D'Urso che vi è acclusa, e che esplicitamente indica nella chiusur

a dell'Asinara la condizione per la sua sopravvivenza, e gli accenni alla decisione del Governo di smantellare quel carcere. Sono espressioni di diffidenza che suonano non come svalutazione dell'oggetto della delibera governativa ma come una richiesta di garanzie: non c'è da fidarsi delle ``promesse dello stato imperialista''; ``nei covi del potere c'è chi crede che sia possibile fare trucchi cinicamente con i comunicati equivoci'' (allusione al comunicato apocrifo).

Dalla missiva di D'Urso, indirizzata al direttore degli istituti penitenziari, Sisti, suo diretto superiore, sembrerebbe che il magistrato non sia ancora informato delle decisioni del Governo circa l'Asinara o che se ne mostri disinformato per invocarne l'esecuzione da chi detiene la responsabilità operativa. Il destinatario della lettera è sollecitato a muoversi speditamente: "poiché sarà consapevole che dalla chiusura definitiva della sezione speciale dipende la mia vita, sono certo che vorrà fare tutto quanto in suo potere per far sì che tale provvedimento possa essere realizzato nel breve tempo possibile. Del resto mi si dice che, in questi giorni, le richieste per la chiusura delle sezioni, da più parti arrivate, si sono fatte più incisive e numerose".

Ci sono - rileva D'Urso - per realizzare questo obiettivo vie "praticabili nell'ambito consentito dalla normativa vigente". E' noto del resto come il mantenimento delle strutture di quel carcere "abbia costituito per l'amministrazione un punto di tensione. Ciò sia per l'eccessivo allontanamento sentito dai detenuti dai luoghi dei propri affetti o dei propri interessi, sia privati che anche processuali, sia per le grandi difficoltà riscontrate dai familiari nel tenere frequenti rapporti con i ristretti, sia infine perché la posizione estremamente periferica del luogo, col rendere difficili controlli costanti, tempestivi e approfonditi, avrà potuto favorire applicazioni devianti della normativa penitenziaria". Mi pare quindi - conclude - "che una sollecita chiusura della sezione possa rispondere a ragioni di opportunità alla luce di criteri tecnico-penitenziari". Ma bisognerebbe anche - aggiunge il magistrato recependo esplicitamente una rivendicazione dei brigatisti, secondo la quale occorrerebbero "spazi di

espressione e lotta per i detenuti", contatti più frequenti tra prigionieri e mondo esterno - "bisognerebbe favorire frequenti visite alle carceri di giornalisti, ovvero consentire ai detenuti la trasmissione di comunicati che non siano di rilevanza penale o di pregiudizio alla sicurezza".

Secondo i comunisti l'insieme del comunicato starebbe ad indicare che i brigatisti non sono soddisfatti della decisione del Governo, e visto che c'è stato un primo ``cedimento'', ora ``alzano il prezzo''. Senonché l'acclusa lettera di D'Urso, diretta al dottor Sisti, ammesso, come è probabile, che sia stata revisionata dai carcerieri, non conferma né l'una né l'altra ipotesi.

Ma più che su questi due documenti l'obiettivo degli organi di stampa è puntato sulla rivolta di Trani. Le notizie circa la dinamica, le modalità e le motivazioni della rivolta sono scarse, o vogliono essere tali. I dati che sembrerebbero sicuramente acquisiti sono soltanto due: diciannove agenti sono tenuti in ostaggio dai detenuti, i quali chiedono di parlare, o ``trattare'', secondo alcuni, con la direzione del penitenziario e un sostituto della procura di Trani; e uno degli agenti è ferito. Infatti le cronache sono piuttosto rapide e approssimative, ed unanimemente volte a suggerire, in forma esplicita o meno, il ricorso alla maniera forte. La possibilità di una composizione indolore, di un riassorbimento pacifico, pur nella salvaguardia delle esigenze di sicurezza, tenuto anche conto che i detenuti in rivolta dispongono di mezzi di offesa rudimentali, non è minimamente presa in considerazione. E' l'occasione invece per compensare con gli interessi il cosiddetto ``cedimento'' avutosi con la decisione di

chiusura della sezione Fornelli dell'Asinara.

Il blitz

All'unisono con questi umori i fautori della ``fermezza'' esercitano una forte pressione per un intervento immediato. I repubblicani trasmettono tempestivamente una nota a palazzo Chigi di questo tenore: "un filo comune lega la rivolta di Trani al sequestro del giudice D'Urso. Nessun cedimento è concepibile in queste condizioni. Il limite toccato con la dichiarazione del Ministro della giustizia non può essere superato in nessun caso e per nessuna ragione". Di rincalzo Tina Anselmi, alla zaccagniniana, ripete con enfasi che "se si accede al principio che si deve trattare per uno, si deve trattare per chiunque altro. Ma allora si deve accettare che lo Stato sia sottoposto ogni ogni giorno al ricatto dei brigatisti". Forlani convoca un vertice d'emergenza con i ministri addetti alla sicurezza dello Stato, Rognoni, Sarti e Lagorio, e dopo una breve seduta decide, come si apprenderà in seguito, per l'intervento immediato a Trani con reparti speciali dei carabinieri. La decisione, naturalmente, è custodita dal pi

ù assoluto riserbo.

Siamo a lunedì 29 dicembre. L'Italia al ``Mundialito'' ha perso, e la tifoseria nazionale non punterebbe una lira sull'efficienza del paese. Alle 14 o poco più si conclude il vertice dei ministri della sicurezza, e qualche minuto dopo il Ministro Sarti detta il fonogramma col quale invita il direttore del carcere di Trani a richiedere "il necessario intervento delle forze dell'ordine". La risposta, nel senso desiderato, arriva in meno di un'ora. Scatta quindi l'operazione che segue un ``no'' secco alle possibili soluzioni per le vie normali alle quali potrebbero condurre i colloqui in corso in carcere tra detenuti rivoltosi, il giudice di sorveglianza Noviello e il senatore socialista Gaetano Scamarcio disponibili a ciò sul posto. I delegati dei rivoltosi, tra i quali non figura Toni Negri, hanno presentato due documenti, uno, noto già da domenica sera, contenente la richiesta più che altro programmatica di chiusura delle carceri speciali e abolizione del fermo di polizia, e un altro contenente richieste per

lo più previste dalla legge penitenziaria, come il ripristino della luce nel settore occupato, possibilità di acquistare cibo e giornali allo spaccio, la pubblicazione di due documenti e la possibilità di tenere una conferenza stampa. Da notare che alcune di queste richieste investivano prestazioni e concessioni dovute; rivelavano quindi un comportamento omissivo della controparte.

Ormai il carcere è una fortezza assediata. Il senatore Scamarcio e il deputato radicale Mimmo Pinto non possono fare altro che gli inerti spettatori dall'esterno.

Sono le 16,15 o poco più quando da tre elicotteri discendono sui terrazzi del carcere i famosi carabinieri del gruppo di intervento speciale (GIS), i quali si fanno strada a colpi di bombe al plastico, raffiche di mitra e colpi di pistola. Bastano meno di due ore per concludere l'operazione, battezzata abbreviatamente "blitz", per sottolinearne la rapidità e la obiettiva efficienza.

Il "Corriere della Sera" scrive testualmente in un sommario: "tutto si è risolto senza danno: ventisette feriti". Evidentemente, in quanto detenuti, questi feriti non rappresentano un danno. Comunque i dati sui feriti per il momento sono contraddittori; vedremo meglio, in seguito, che i feriti sono stati molto più di ventisette, ma i danni li hanno subiti nel dopobliz, ad ordine ristabilito e non durante l'operazione condotta dai carabinieri.

La correttezza con cui è stata condotta l'operazione dai carabinieri, con capacità ed efficienza intese a ristabilire nel carcere le condizioni di normalità, in nome e nel rispetto della legalità, viene celebrata ed idoleggiata da buona parte della stampa con esaltante compiacimento come manifestazione di pura forza e raffigurazione di vindice ``fermezza''. Dei Carabinieri del gruppo di intervento speciale (GIS) vengono descritti minuziosamente le superdoti e i supercorredi in armamenti e strumenti della tecnologia. Gli agenti ne risultano connotati come artificiali prodotti di un delirante laboratorio di perfezione genetica. L'equilibrio e l'efficienza dell'operazione vengono messi in risalto invece da un comunicato del gruppo parlamentare radicale.

In questo clima vengono sbandierate le dichiarazioni di Pertini che, tacendo sulla chiusura dell'Asinara, in quanto provvedimento amministrativo di competenza del Governo, sottolinea la differenza di comportamenti registrati sul caso Moro: ``con Moro si agì diversamente''. E aggiunge: ``Lo Stato non deve cedere; perché i terroristi non si accontenteranno di questa vittoria. Chiederanno altro''. Rincarando la dose avverte significativamente: "se dovessi finire sequestrato mia moglie e il Segretario generale del Quirinale renderanno pubblica una lettera in cui esprimo fermamente la mia volontà; nessuno dovrà patteggiare coi terroristi, sarà una faccenda tra me e loro".

Qualche ora prima dell'inizio del blitz era arrivato però il sesto comunicato brigatista, datato 29 dicembre, con allegato il comunicato numero 1 del ``Comitato di lotta dei proletari prigionieri di Trani'', recante questo la data del giorno precedente e giunto non si sa come nelle mani delle br. Che ci sia un collegamento tra terrorismo clandestino e terroristi detenuti è indubbio; dubbio appare che questo collegamento adombri una collaborazione operativa e decisionale, anche se a dare in qualche misura l'avallo a questa ipotesi concorrono gli stessi rapitori di D'Urso che egualmente inseguono il mito della forze e dell'efficienza, e sono rapidi nel cogliere ogni occasione che diffonda di loro una simile immagine.

Infatti nel comunicato n. 6, scritto alcune ore prima del blitz, si dice che la rivolta di Trani "dà la misura della grande unità e mobilitazione che il movimento dei proletari prigionieri ha raggiunto", con "al fianco incondizionatamente le brigate rosse", le quali "nella valutazione del proseguimento della battaglia iniziata con la cattura del boia D'Urso, si atterranno strettamente ai termini politici con cui i proletari prigionieri esprimono i loro bisogni".

L'intervento dei corpi speciali è tuttavia previsto, anzi prospettato in termini di sfida: "qualunque cosa il Governo sta tramando per reprimere le lotte dei proletari prigionieri a Trani, sappia che troverà un'immediata risposta anche dalle brigate rosse. Finora alle legittime richieste dei comitati di lotta il Governo ha risposto con la minaccia di fare intervenire i sicari dei corpi speciali. Questo oggi non vi sarà permesso impunemente". Segue pertanto un'intimazione che può suonare come una minaccia per D'Urso, a sostegno di una precisa richiesta: "i comunicati emessi da Trani e da Palmi devono essere pubblicati immediatamente e integralmente. Ciò che hanno da dire sul loro programma i proletari di questi due campi va raccolto dalla loro viva voce. Se quanto detto verrà disatteso, in tutto o in parte, trarremo la conclusione che la vostra politica omicida non ammette da parte delle forze rivoluzionarie alcuna esitazione: agiremo di conseguenza".

Le Br diffondono l'interrogatorio di D'Urso

Qualcosa nell'aria fa però presentire che i tempi incalzano. L'ansia di farla finita predispone anche al peggio. A mettere a rumore la mattinata del giorno di San Silvestro, è la notizia di un formidabile "scoop" del settimanale romano "L'Espresso": la pubblicazione nel successivo numero, che sarà in edicola sabato 3 gennaio 1981, del verbale d'interrogatorio del magistrato prigioniero, e di una intervista alle brigate rosse, articolata su 54 domande, che poi si ridurranno di parecchio, e soprattutto sembreranno più suggerite dagli intervistati che avanzate dagli intervistatori. Sono documenti eccezionali, dei quali il sostituto procuratore Nicolò Amato ha già preso visione, dopo di che ha sequestrato gli originali e si è riservato di approfondire le indagini per accertare secondo quali modalità e attraverso quali canali il giornale è venuto in possesso del prezioso materiale.

Secondo le prime informazioni alle 20,30 circa del 19 dicembre un anonimo ``delegato'' dei terroristi, dopo essersi fatto fissare un appuntamento per telefono, si sarebbe presentato a casa del redattore Gianpaolo Bultrini, per offrirsi come tramite, assicurando di esserne in grado, con le br, per ottenere il testo dell'interrogatorio di D'Urso e un'intervista. Bultrini, non occupandosi di terrorismo, telefona a Mario Scialoja per informarlo dell'offerta, così viene fissato tra i tre un appuntamento per il giorno dopo in piazza del Popolo, presso il bar Canova. L'incontro lascia Scialoja diffidente, quindi ne viene fissato un altro in piazza San Pietro; qui finalmente, sono consegnate all'ignoto emissario 54 domande che dovranno essere restituite con altrettante risposte dei brigatisti unitamente al famoso verbale.

La mattina del 30 dicembre Bultrini telefona trionfante a Scialoja in redazione per comunicargli di aver ``ricevuto posta''; poco dopo si presenta al giornale e rovescia sul tavolo, tra gli sguardi esterrefatti dei riceventi, uno spesso incartamento così suddiviso: 1) 13 cartelle costituenti la promessa intervista (le domande sono ridimensionate e adattate, si dice in redazione, ma in effetti traspare un rifacimento integrale, per cui più che di intervista occorrerebbe parlare di autointervista); 2) 33 fogli contenenti ``brani'' tratti dai primi interrogatori di D'Urso (come assicurano i mittenti in una nota di avvertenza a parte); 3) una copia della risoluzione strategica delle br datata ``ottobre 1980'' (data storica poiché indica l'obiettivo prioritario della nuova fase di lotta, del quale il rapimento del magistrato sarebbe il punto di più alta tensione); 4) copie ciclostilate dei primi cinque comunicati; 5) una nuova foto a colori del magistrato rapito. Il settimanale non ha dubbi sull'autenticità del m

ateriale e pubblica.

Questa, relativamente ai canali e alle modalità che avrebbero permesso a "L'Espresso" di entrare in possesso del materiale, la prima versione fornita all'opinione pubblica. E' probabile che lo stesso racconto sia stato fatto subito al magistrato recatosi al giornale per visionare il malloppo prima della pubblicazione.

Il testo dell'interrogatorio di D'Urso trasmesso all'"Espresso" conferma quanto già si sa attraverso precedenti comunicati brigatisti, nei quali si rivela che il prigioniero ``collabora'': il magistrato ha risposto senza resistenza - che d'altronde non avrebbe avuto senso, e forse sarebbe stata vana - alle domande che gli sono state rivolte da interroganti molto bene informati, illustrando i meccanismi burocratici che assumono e filtrano i provvedimenti di ``maggior sicurezza'', e fornendo anche i nomi, quando li conosce, dei diversi personaggi e funzionari scaglionati a lungo la linea verticale di gestione della vita carceraria. L'intervista, o autointervista, invece, è l'insieme, a parte gli accenni a episodi specifici, un breviario dell'ideologia e strategia delle brigate rosse, che però non presenta alcuna novità, se si esclude un'organizzazione più o meno sistematica dei concetti, rispetto alle teorizzazioni frantumate nella miriade di comunicati e messaggi già trasmessi.

L'assassinio di Galvaligi

Ma non si fa in tempo ad occuparsi di questa ``clamorosa vicenda'', della quale, però, si dovrà riparlare prestissimo per la piega che prenderà sul piano giudiziario, che un altro più grave evento si abbatte sul Paese: l'assassinio del generale dei carabinieri Enrico Galvaligi, rivendicato cinquanta minuti dopo con questa secca telefonata al "Messaggero": "Qui brigate rosse. Abbiamo giustiziato il generale Enrico Galvaligi del coordinamento dei servizi di sicurezza delle carceri". Più tardi arriverà un'altra rivendicazione da parte di ``unità combattenti comuniste'', ma sarà subito scartata come falsa, e se ne avrà irrefutabile conferma con l'arrivo, alcune ore dopo, del volantino n. 7 del commando che ha rapito D'Urso.

La dinamica del crimine è di una semplicità strabiliante, ma rivelatrice di uno straordinario sangue freddo e di una sicurezza esecutiva dedotta da una scrupolosa messa a punto del piano. I due killer vanno a colpo sicuro, in veste di ``sprovveduti'', segno evidente che non temono di doversi scontrare con una scorta che il generale Galvaligi aveva sempre rifiutato. Usano il trucco più vecchio del mondo: fingendo di essere dei fattorini si presentano nell'abitazione del generale, in via Girolamo Segato 13, all'Ardeatino, per consegnare un pacco natalizio. Sono poco più delle ore 15. Il portiere li ferma dicendo che il generale non c'è, che rientrerà verso le 18,30. "Non importa - rispondono - effettueremo prima altre consegne e poi ritorneremo".

Alle 18,30, puntuali, si presentano con la stessa disinvoltura e con lo stesso pacco dal quale emergono colli di bottiglie di spumante, e involucri luminescenti di dolciumi. Il generale non è ancora rientrato; pazienza, aspetteranno, dovrebbe essere a minuti. Il generale, ma questo i killer forse non lo sanno, a quest'ora è con la moglie nella Chiesa di Santa Francesca Romana per assistere a una funzione e comunicarsi. I due coniugi sono di ritorno alle 19,15. Mentre il marito parcheggia, la signora si dirige verso la palazzina e si avvia per le scale. Pochi secondi dopo anche il generale infila l'androne della palazzina. A bloccarlo, umilmente, s'intende, come un subordinato, è il giovane con il pacco: ``generale Galvaligi?'' - chiede timido - ``ecco un omaggio per lei''. Sorpreso, ma in fondo lusingato, il generale fa per estrarre dalla tasca una moneta da dare in mancia, quando un colpo colpo di pistola proveniente dalla tasca dell'eskimo del donatore lo raggiunge alle gambe. Ormai ha capito; ma è troppo

tardi. In rapida successione lo raggiungono altre pallottole che lo fanno stramazzare al suolo. Il killer gli si avvicina, e come il capo di un plotone di esecuzione gli spara il colpo di grazia diretto al cuore.

L'operazione ha richiesto un paio di minuti. Sono le 19,18. Quando arrivano di lì a pochissimo polizia, carabinieri, ambulanze, magistrati, che in un batter d'occhio predispongono posti di blocco, controlli, pattugliamenti, e procedono a meticolose perquisizioni, è già tardi: dei killer neanche l'ombra. Tutto quel che resta è il volantino numero 7 delle br, nel quale si dice esplicitamente che l'assassinio del generale Galvaligi è la risposta al blitz di Trani. Si ammette che "il potere ha inferto duri colpi al movimento di classe"; ma proprio per questo "occorre sferrare colpi dieci volte maggiori e più terrificanti". "La battaglia iniziata con la cattura del boia D'Urso - conclude il comunicato - continua".

Poi cominciano le congetture: i killer erano soltanto due o c'era un terzo a distanza ad aspettare? Hanno sparato con un revolver di grosso calibro a tamburo, o disponevano addirittura della terribile Magnum? Come hanno fatto a sapere che il generale Galvaligi, mai ricorrente nelle cronache, e quasi nella clandestinità nonostante la rilevanza dei suoi compiti, era un personaggio chiave dei servizi di sicurezza carceraria?

Scialoja arrestato

Mentre i fattorini gironzolano con la loro strenna mortale intorno alla palazzina di Galvaligi, i magistrati della procura di Roma perquisiscono la sede dell'"Espresso" ed interrogano a lungo il direttore Livio Zanetti e il redattore Giampaolo Bultrini. Nella notte a Siusi, presso Ortisei, dov'era giunto da poche ore per trascorrere una breve vacanza di fine anno, Mario Scialoja è raggiunto da mandato di cattura nel quale gli si contestano i reati di favoreggiamento personale e falsa testimonianza. Sono le quattro del mattino quando vanno ad arrestarlo, dopo di che lo traducono a Bolzano e di qui proseguirà immediatamente per Roma.

Dalle motivazioni della cattura si deduce che il magistrato deve aver riscontrato la non veridicità della versione dei fatti fornita dal giornalista in ordine soprattutto al modo in cui aveva ottenuto il materiale e all'identità di chi glielo aveva consegnato; depistando di conseguenza o comunque intralciando le indagini e coprendo in qualche modo il mediatore con la falsa testimonianza resa. Poiché Bultrini in questa prima fase conferma il racconto del suo collega, a sua volta percorre la stessa strada delittuosa, e infatti pochi giorni dopo sarà anch'egli arrestato.

L'episodio "Espresso" sollecita vaste polemiche e pone corposi interrogativi in ordine all'esercizio della libertà di stampa, al dovere di informare la gente perché partecipi alla vita democratica in forza di giudizi autonomi, al comportamento della stampa di fronte al terrorismo. Ed è sull'onda di questo dibattito che comincia a prendere quota l'ipotesi di un black-out, di un rifiuto cioè a pubblicare oltre il limite dell'indispensabile notizie fornite dai terroristi, in conseguenza di una regola etico-professionale che dovrebbe indurre il giornalista a non informare o a farsi giudice delle opportunità dell'informazione.

La questione assumerà uno spessore altamente drammatico quando, più tardi, si saprà che dalla pubblicazione di due comunicati dei terroristi dipenderà la vita o la morte del giudice D'Urso e ci si chiederà se i giornali possono negare alla vita di un uomo molto meno di quanto l'"Espresso" ha concesso all'ambizione di uno "scoop" giornalistico e all'interesse di aumentare il proprio prestigio sul mercato e la conseguente resa economica in favore dei suoi azionisti (nel novero dei quali c'è il direttore del giornale ``La Repubblica'', Eugenio Scalfari).

La filosofia della ``fermezza'' dei repubblicani, o per meglio dire della enfatizzazione della ``fermezza'', che fa da puntuale contrappunto a quella comunista, assumendo anzi nei confronti della strategia del PCI un ruolo di avanscoperta, emerge ormai con sufficiente chiarezza: sul piano giuridico ripristino delle leggi fasciste, notevolmente peggiorate, con accantonamento della Costituzione; sul terreno amministrativo concessione di ampi poteri discrezionali alla polizia con accantonamento della preminenza delle funzioni del giudice; sul piano politico instaurazione della logica del puro scontro polizia-terrorismo e proiezione della eccezionalità del momento nei termini dell'``unità nazionale'' con accantonamento della dialettica democratica e dell'iniziativa politica. Il dramma di D'Urso assume in questo quadro di riferimento un valore subordinato e una funzione di pretesto, la responsabilità nei confronti della sopravvivenza del magistrato si esaurisce in una marginale concessione di pietà, l'eventuale m

orte di D'Urso si configura come un olocausto sull'altare della fermezza di uno Stato compromesso da trentacinque anni di malgoverno e incapace di fronteggiare il terrorismo con la forza della democrazia. La eventuale morte di D'Urso, come già quella di Moro, finisce con l'essere il segnale della fermezza, il costo ovvio del ``non cedimento'' a un terrorismo idoleggiato come un mito e neppure conosciuto se non per la teoria dei suoi assassinii e delle sue violenze.

L'assassinio del generale Galvaligi dà ovviamente fiato ai duri della linea della ``fermezza''. Il primo a scendere in campo è il socialdemocratico Longo, che chiede subito di ``provvedere con nuove leggi all'insufficienza di quelle che il libero Parlamento ha votato'' (il ``libero Parlamento'', giova ricordarlo, ha votato fermi di polizia su semplici ipotesi discrezionali di sospetto, dodici anni di carcerazione preventiva, facoltà di rastrellamento ecc.). Il repubblicano Spadolini ammonisce che la democrazia non potrebbe sopravvivere su una linea di cedimenti.

Sono già trascorsi tre giorni dall'assassinio di Galvaligi, e tre giorni, con i tempi che corrono, possono bastare per un "parce sepulto".

I blitz non era ``pulito''?

Mentre si riordinano le carte per gli appuntamenti a breve, comincia però ad apprendersi che il blitz di Trani è stato tutt'altro che indolore. La prima denuncia si ha in un filo diretto del 4 gennaio di Radio Radicale, condotto in studio da Franco Roccella. Da Milano telefona la convivente di Vaccher, del comitato dei familiari dei detenuti del carcere di Trani, dice di chiamarsi Daniela, rifiutandosi di rivelare il suo cognome. Chiede di leggere, e le è consentito, il seguente appello: "i familiari dei detenuti del carcere di Trani fanno appello per sollecitare l'immediato intervento della commissione medica esterna perché verifichi direttamente l'attuale condizione fisica dei detenuti dopo la rivolta avvenuto domenica 28 dicembre". Le notizie finora raccolte, prosegue Daniela, "parlano di torture, di pesanti pestaggi subiti indistintamente da tutti. Sappiamo che molti dei nostri sono stati presi e torturati, e molti hanno subito trauma cranico. Maria, ad esempio, ha dieci punti in testa; un altro ha le di

ta delle mani fratturate, Mastropasqua ha mani e polsi fratturati, Baumgartner ha il setto nasale fratturato. Comunque non sono i soli, perché sono stati tutti pestati. Io vi ho fatto soltanto gli esempi di quelli che sappiamo con certezza, però ce ne sono altri. Sapete ad opera di chi è stato questo?". E Daniela ipotizza che potrebbero essere stati sia i carabinieri dei reparti d'assalto sia successivamente le guardie carcerarie per rappresaglia, ma specifica di non avere in proposito alcuna notizia. Tuttavia, chiarisce, l'appello da lei lanciato deve servire soltanto a tranquillizzare i familiari. Alcuni di questi, relativamente a tre detenuti, sono stati autorizzati a visitare i loro congiunti, ma li hanno visti soltanto per cinque minuti attraverso un vetro, né hanno potuto comunicare non funzionando i citofoni. Comunque, anche questi tre avevano ferite alla testa e occhi pesti, e sono stati loro a far capire che tutti gli altri erano nelle stesse condizioni.

Il racconto di Daniela riverbera una nuova luce sul blitz di Trani, un aspetto sicuramente da accertare, come sottolineano subito Marco Pannella, che interviene nella trasmissione, e lo stesso Franco Roccella.

I parlamentari del PR avevano già in programma una visita a Trani; sulla spinta di questa notizia vi si recheranno subito, è loro ``dovere'', tanto più in quanto il Gruppo parlamentare radicale aveva con un comunicato elogiato il comportamento dei carabinieri nel blitz, cogliendo in esso il valore di un raro esempio di efficienza dello Stato democratico. E' necessario ora accertare non soltanto se le violenze ci siano effettivamente state, come sembra fuori discussione, essendo da escludere che il racconto di Daniela sia frutto di pura fantasia, ma come, quando e da chi tali violenze sono state compiute.

"Certo - osserva Pannella - quello che dice il comitato dei familiari dei detenuti di Trani non può essere ovviamente inventato, e sarebbe ancora più preoccupante nel caso in cui si accertasse che i carabinieri nel blitz non hanno operato queste violenze, perché dimostrerebbe che le violenze sono state usate a freddo, quindi sono soltanto punitive e vendicative. Il che è inammissibile, perché non si pesta la gente, chiunque essa sia, non si pesta in nessun caso, anche perché sarebbe una stupidaggine e oltretutto un gravissimo errore politico. In ogni caso noi opereremo la verifica recandoci a Trani: ripeto, è un nostro dovere".

D'Urso condannato a morte

E' a questo punto della trasmissione che giunge improvvisamente un dispaccio "ANSA" con questa drammatica e angosciante notizia: le brigate rosse, con il comunicato numero 8, annunciano di aver condannato a morte il magistrato rapito il 12 dicembre scorso, aggiungendo che eventualmente l'esecuzione potrà essere sospesa ``se non sarà impedito al comitato dei prigionieri di Trani, al comitato di campo dei prigionieri di Palmi, di esprimere integralmente, senza censurare neanche le virgole, le loro valutazioni politiche e il loro giudizio. Questo vogliamo sentirlo dai vostri strumenti radio-televisivi, leggerlo sui maggiori quotidiani italiani, così come avevano chiesto i proletari di lotta di Trani''.

I brigatisti spiegano che "la condanna a morte del boia D'Urso è un atto necessario di giustizia proletaria, ed è anche il più altro atto di umanità che questo regime ci consente". Tuttavia, aggiungono, se "la condanna a morte di D'Urso è sicuramente giusta, l'opportunità di eseguirla o di sospenderla deve essere valutata politicamente. Questo spetta, oltre alle br, esclusivamente agli organismi di massa rivoluzionari dentro le carceri". Significativamente, poi, dopo l'enunciazione dell'ipotesi di sospensione della pena, si rivolge un appello "a chi tra le file della borghesia ha ancora un minimo di ragionevolezza". Né lo Stato né il governo sono chiamati in causa, dipendendo dagli organi di stampa, ufficialmente o teoricamente non governativi, benché dalla loro omogeneità al regime traggano i miliardi per coprire i passivi che allegramente accumulano, la pubblicazione o meno dei documenti dei comitati dei prigionieri di Trani e Palmi.

Il comunicato numero otto modifica la ``motivazione'' della condanna del magistrato prigioniero: D'Urso "ha confermato il ruolo infame di massacratore di proletari. Di fronte alla morte fisica e politica di centinaia di proletari prigionieri che D'Urso ha cinicamente perseguito in questi anni, e alla piena consapevolezza che aveva del suo ruolo, la sentenza non può che essere di condanna a morte".

L'alibi delle ``farneticazioni''

E' normale, per tutti gli organi di stampa ed anche per la gran maggioranza di parlamentari ed esponenti dei partiti di Governo, o dell'opposizione comunista, liquidare i comunicati dei brigatisti definendoli ``deliranti'', ``farneticanti'', ``allucinanti''; e in realtà lo sono, ma il delirio di quelle parole e argomentazioni non può essere un facile e sbrigativo espediente per assolversi dall'impegno politico di conoscenza, di intelligenza e di iniziativa, nei confronti del terrorismo rifugiandosi nell'indignazione, né può essere un alibi per coprire i guasti morali e politici che in questo Paese hanno concorso alla sollecitazione del terrorismo e vi concorrono ancora, e per coprire sia le responsabilità che questi guasti comportano sia la responsabilità di perpetuarli.

Quel delirio non può costituire il tetto sotto il quale far passare l'omissione della democrazia o addirittura norme, comportamenti e miti antidemocratici, compensativi dell'incapacità di dar forza reale alla democrazia. Adoperando in questo senso è un ricatto che coincide con il ricatto del terrorismo.

Nel caso specifico le farneticazioni dei terroristi e le loro violenze sono state adoperate per sommergere nell'ombra uno scenario carcerario che costituisce da sempre un problema di riforma, uno scenario dell'amministrazione della giustizia che da sempre pone un problema di intervento, uno stato del processo penale che si è ritenuto unanimemente di dover profondamente correggere con una riforma che giace da anni ed anni negli scaffali delle commissioni parlamentari, provvedendovi invece con il varo di singoli leggi mutuate dal fascismo. Se si allarga il discorso ci si imbatte nella cosiddetta ``questione morale'' e nella sciagurata mistificazione di darla per risolta perché posta. Tutto questo spiega in parte ma non giustifica il terrorismo; ma è anche vero che il terrorismo non può giustificare l'ignavia, gli errori, le colpe, le omissioni della classe politica, né può essere addotto a giustificazione il ricatto terroristico.

L'enfatizzazione del ricatto e l'invocazione di leggi speciali sono i temi ricorrenti nelle dichiarazioni del mondo politico sul comunicato numero otto. Il segretario democristiano Piccoli dichiara subito al "Corriere": ``Siamo dinanzi al più grave e inaccettabile dei ricatti''. Il segretario repubblicano Spadolini: ``Ricatto inaccettabile e mostruoso''. Il socialdemocratico Longo: ``Nella nuova fase di attacco dei brigatisti rossi, riconfermiamo il nostro indirizzo di sempre: lotta fino in fondo e con tutti i mezzi nei confronti del terrorismo, anche adottando quei provvedimenti eccezionali che risultassero necessari''. E i comunisti: "si punta alla resa della Repubblica", scrivono sull'"Unità". Quindi con sottintesa allusione ai radicali, ed anche ai socialisti, in quanto hanno voluto l'"atto dovuto", si sbilancia in una fosca minaccia: "tante cose dovranno essere chiarite a cominciare dai prossimi dibattiti parlamentari. Ci basti dire ora che l'eversione ha talmente alzato il suo mirino da far pesare l'om

bra del tradimento su qualsiasi incertezza o calcolo furbesco". Le br "pensano alla ripresa, all'allargarsi del partito del cedimento. Chi ha dato loro una simile speranza?".

Il black-out della stampa

Siamo al 5 gennaio. Comincia alla Commissione giustizia e interni del Senato, riunite in seduta congiunta, il dibattito sul terrorismo. Il Ministro della giustizia Sarti, illustrando a nome del Governo la risposta ufficiale da dare al comunicato numero 8 delle br, afferma a sua volta: "le sinistre procedure proposte dai terroristi non hanno alcuna possibilità di essere accettate e stanno soltanto a testimoniare la criminale pretestuosità della loro ideazione"; in più i brigatisti chiamando in causa i ``terroristi'' di Trani e Palmi, "intendono caricare sulle spalle di detenuti per crimini nefandi anche la responsabilità di concorrere nell'assassinio del giudice D'Urso".

Contemporaneamente, capitanati dal quotidiano romano "Il Tempo", che rivendica in questa direzione con orgoglio la leadership, e dal montanelliano "Giornale Nuovo", gli organi di stampa e perfino la RAI, decidono ``il completo silenzio stampa sulle richieste dei terroristi rapitori di D'Urso''. E' il "black-out", nel momento in cui il silenzio stampa appare decisivo per la vita di D'Urso. "Al black-out" dà la sua adesione "Il Corriere della Sera" che adopera per primo l'espressione inglese. Non mancano i giornali che si dissociano; lo fanno il "Messaggero", l'"Avanti" e più tardi altre testate; ma lo schieramento è abbastanza massiccio; vi partecipa la maggioranza delle testate saltando a piè pari l'obbligo dell'informazione che non si assolve né fermamente né mollemente, si assolve e basta, senza limitazioni che non siano quelle della correttezza, o verità, della notizia e di una facoltà di critica in ogni direzione. L'ideologo per eccellenza di questa linea di fermezza che investe indifferentemente Governo

, società politica e giornali, che trasferisce anzi ai giornali la fermezza chiesta al Governo e alle forze politiche, è il repubblicano senatore a vita Leo Valiani. In un editoriale sul "Corriere della Sera", collocato proprio sotto il comunicato con cui il giornale annuncia la sua ``macerata'' decisione del silenzio stampa, il vecchio senatore repubblicano così scrive: ``sono ammiratore degli argomenti di Beccaria contro la pena di morte e la tortura. Ma ciò non significa la rinuncia alla durezza nella repressione delle bande di assassini''.

Ed ecco la ``fermezza'' in spiccioli: 1) il fermo e l'interrogatorio di polizia, del quale bisogna fare frequente uso per impacchettare, individuare, perquisire, sorvegliare telefonicamente, pedinare le centinaia di violenti che inscenano manifestazioni eversive; 2) aumentare i termini massimi dell'istruttoria sommaria e della custodia preventiva; 3) ``i procedimenti nei confronti di costoro dovrebbero essere concentrati in poche sedi giudiziarie affinché i magistrati inquirenti e giudicanti abbiano una visione globale, nazionale...''.

Si può pensare o dire quello che si vuole di Valiani, e degli organi di stampa, "Corriere della Sera" in testa, che mostrano di condividerne le dottrine; ma il merito di un così crudo "strap-tease" della ``fermezza'' bisogna riconoscerglielo.

Il black-out emerge emerge nel momento in cui si indurisce, sino ad assumere una carica ricattatoria, la posizione della ``fermezza'': al di là di essa c'è solo il cedimento, che si risolve nella complicità con il terrorismo. La motivazione che giustifica il silenzio stampa è tutta mutuata dalle motivazioni addotte dai protagonisti politici della ``fermezza'', che chiedono di opporre alla violenza dei terroristi la violenza dello Stato, che assumono il rifiuto di chiudere l'Asinara come contrapposto alla richiesta brigatista di chiuderlo, così che l'Asinara diventa al tempo stesso simbolo della forza delle br e simbolo della fermezza dello Stato.

Leo Valiani ha invocato sul "Corriere" un comportamento della magistratura che, a prescindere dagli elementi di indizio e di prova, non proceda a troppi proscioglimenti di ``presunti terroristi'', non conceda libertà provvisorie, pronunci sempre e comunque condanne onerose, faccia valere la giustizia non istruendo con alacrità i processi ed emettendo tempestive sentenze, ma utilizzando la più lunga durata possibile della carcerazione preventiva che, allo stato dei fatti, può trascinarsi per dodici anni anche nel caso di ipotesi di condanna a un periodo di carcerazione notevolmente breve. Una magistratura, cioè, che non amministri giustizia ma ``guerra'' al terrorismo senza preoccupazioni di giustizia. Per la polizia, sempre Valiani, invoca mani libere nell'uso del potere di prevenzione, del fermo di polizia, degli interrogatori e delle schedature, al riparo da ogni controllo della magistratura e con piena licenza di agire al di fuori di una strategia democratica dell'ordine pubblico.

Altra voce della fermezza è quella del senatore comunista Pecchioli: ``In questo momento nessuna pretesa dei terroristi può essere presa in considerazione'', nessun atto e gesto deve essere compiuto che possa essere inteso come ``una forma di riconoscimento politico delle br, da parte dello Stato'', qualunque sia, ovviamente, il prezzo che questo ``rifiuto'' comporta.

Le tesi della fermezza poggiano su un insistente riferimento al caso Moro: ``la DC - ha scritto Spadolini - non può oscillare. Essa resisté con coraggio nei 54 terribili giorni della detenzione di Moro... Pagò un prezzo elevato ma tale da consentirle di conservare il diritto alla guida del Governo... La democrazia laica fu altrettanto ed esemplarmente ferma. I comunisti non hanno cambiato opinione''. Il riferimento è eloquente; non importa se l'esemplare fermezza di allora comportò la morte di Moro (il ``prezzo elevato''); non importa se l'esemplare fermezza di oggi potrà comportare un prezzo analogo (la morte di D'Urso).

Questa esigenza pregiudiziale di opporre al terrorismo un atteggiamento di ``fermezza'' indifferente ai contenuti che esso assume è la stessa che si pone alla base del black-out. Non importa se con il silenzio stampa i giornali tradiscono il loro dovere di informare lasciando agli informati l'autonomia e la responsabilità esclusive di un libero giudizio, che si pone in rapporto dialettico con i giudizi e gli orientamenti della classe politica, non importa se l'informazione è il primo fra gli ``atti giusti dovuti'' (chiusura dell'Asinara, liberazione di Faina) non ai terroristi ma alla democrazia; importa che si dia comunque luogo ad una risposta al terrorismo. Il black-out nasce cioè come integrazione e proiezione della politica della fermezza e non da un travaglio dei giornalisti. Che non c'è stato. Tanto è vero che sin qui (caso Moro compreso) i giornali hanno pubblicato con straordinaria ampiezza notizie e resoconti sul terrorismo, senza limitazione alcuna, con avidità, anzi, tutta ``giornalistica''; tant

o è vero che la pubblicazione dell'interrogatorio di Giovanni D'Urso sull'"Espresso" non suscita immediate reazioni negative, ne suscita, solo dopo, di mediate, in conseguenza delle condanne pronunciate dagli esponenti politici della fermezza; tanto è vero che di fronte a quel colpo giornalistico dell'"Espresso", "Repubblica" analizza minuziosamente l'interrogatorio mostrando di apprezzarne il valore documentario (``per la prima volta le br parlano, con simile ampiezza...'') e quindi la pubblicazione; tanto è vero che lo stesso giornale ("Repubblica") prendendo le distanze dal settimanale dopo l'arresto di Scialoja, lo fa esprimendo riserve, per altro blande (``ci dispiace che non l'abbiano fatto''), di opportunità (non dovere) morale (opportuno sarebbe stato che i giornalisti dell'"Espresso" avessero messo la polizia su ``una traccia'' delle br) affrettandosi tuttavia a precisare che Scialoja e Bultrini non sono ``perseguibili'' dal ``punto di vista giuridico'' né sono ``criticabili dal punto di vista della

deontologia professionale''; tanto è vero che Eugenio Scalfari si precipita alla sede dell'"Espresso" per festeggiare con un brindisi lo scoop.

Il black-out dunque nasce improvvisamente, contraddicendo il comportamento che la stampa ha sempre e costantemente tenuto, proprio quando la partita si gioca sulla vita di un uomo e mettendo in conto l'ipotesi della sua morte. Avrà buon gioco la signora D'Urso nel chiedere ai giornali, che negano ogni spazio ai due documenti di cui le br hanno chiesto la pubblicazione, se due colonne di piombo possono valere la vita di un uomo; ha ragione Franca D'Urso dal momento che ai terroristi si nega spazio soltanto ora, quando questo diniego comporta la morte del marito. E' Giovanni D'Urso e non le br che paga il black-out, ed è la libertà di stampa, non le br, che lo subisce. (*)

(*) Per un resoconto esauriente del comportamento della stampa rinviamo ad altra parte del volume dedicata specificatamente a questo argomento.

Mentre un coro di voci plaude al "black-out" proclamato dai giornali (o dai giornali del sistema assistenziale e di lottizzazione) Pannella tiene una conferenza stampa per illustrare la posizione del Gruppo radicale, in coincidenza con la partenza per Trani di una delegazione di parlamentari del partito al fine di procedere ai seguenti adempimenti, come è stato concordato in due precedenti riunioni, la sera del 4 gennaio nella sede di Radio Radicale e la mattina del 5 nella sede del Gruppo parlamentare: 1) accertare nell'ambito rigoroso dell'art. 67 della legge 26 luglio 1975, n. 354, le condizioni del carcere e quelle dei detenuti dopo la rivolta sedata dall'intervento dei GIS il 28 dicembre 1980; 2) rendersi interpreti, se ne fosse rilevata la necessità, delle voci dei detenuti, nel rigoroso ambito della norma citata.

``La nostra posizione è diversa'' - dice Pannella nella sua conferenza stampa - ``da non violenti riteniamo che non si debba mai, in nessuna forma, collaborare o offrire omaggio di qualsiasi tipo alla violenza; di conseguenza ribadiamo che le posizioni trattativiste, come le altre cosiddette dure, di fermezza, furono i due volti della stessa politica che portò all'assassinio di Moro e che continua a provocare lo sfascio dello Stato. La democrazia è anche una questione di procedura, e sin dal primo giorno del caso Moro, ma anche da prima, noi dicemmo che il problema innanzi tutto è di rispettare le responsabilità e gli alvei costituzionali per arrivare alla formazione delle volontà politiche dello Stato e dei governi, nonché dell'amministrazione dello Stato in tutti i suoi momenti. Meno che mai, quindi, di fronte a violenze o assassini, lo Stato può eludere e cedere sulle sue leggi''.

Invece, prosegue Pannella, ``si è creata nel nostro paese una situazione mostruosa, in modo particolare attraverso le politiche di unità nazionale fra il '76 e il '79, che hanno messo sempre più duramente fuori legge lo Stato. Settori fondamentali, come quello della giustizia, lo abbiamo difeso palmo a palmo contro i rigurgiti feroci e giacobini di sfascio, che venivano in particolare assicurati grazie all'efficienza del partito comunista nel nostro Parlamento; abbiamo lottato palmo a palmo contro l'imbarbarimento ulteriore delle nostre leggi e delle nostre strutture. Alle "realpolitik" dei difensori delle leggi Reale e altre, ai difensori cossighiani e pecchioliani, strettamente uniti nel sabotaggio della riforma carceraria e di ogni altra indicazione tardiva e inadeguata nata con il centro-sinistra, noi opponemmo e opponevamo che lo Stato non avrebbe potuto che raccogliere altra violenza, e che i riflessi autoritari ed efficientistici in realtà stavano producendo lo sfascio del diritto e della giustizia''.

Pannella illustra ancora il senso del dialogo da lui proposto ("noi dialoghiamo ogni giorno, con la nostra vita, il nostro mestiere di non violenti e di parlamentari, con questo Stato, perché la legge e il diritto siano rispettati; vogliamo dialogare con le br nello stesso modo''), che in riferimento al comunicato numero 8 delle br potrebbe essere questo (illustrativo anche delle ragioni della visita di parlamentari radicali a Trani): "le br, con tale comunicato, sembrano farsi carico di un diritto, come scrisse Moro dal carcere, e credo giustamente abbia ricordato D'Urso, ed è il diritto pieno, nell'ambito del rispetto della legge e del codice penale, del detenuto, di esprimere il proprio pensiero, di manifestare le proprie idee, di informare sulle condizioni carcerarie; e questo il detenuto deve farlo, anche quando ha paura di farlo, poiché è un diritto che ha conquistato, e non una licenza che gli si elargisce. Bene, diciamo alle br, non abbiamo difficoltà, fino a prova contraria, nel credere in quello ch

e diciamo, e i delegati radicali si fanno carico dei diritti di Trani e di Palmi".

Ed è significativo, secondo Pannella, che in realtà la decisione di una verifica nelle carceri di Trani e Palmi è venuta molto prima del comunicato numero 8 delle br, in coincidenza con la telefonata della giovane Daniela che denunciava le gravi violenze sui detenuti di Trani, durante o dopo il blitz. La visita, specificamente prospettata immediatamente dopo, rientra del resto nel programma di visita alle carceri già deciso dal Gruppo radicale. Dopo la telefonata di Daniela se ne anticipano solamente i tempi e se ne precisa la duplice finalità, come si evince chiaramente dal comunicato che annuncia la partenza per Trani della delegazione radicale: accertare se davvero i detenuti avevano subito violenze, e come, dove, quando e da chi, nonché se dopo erano stati almeno curati; conoscere dai detenuti stessi quali fossero le loro istanze in ordine ai loro diritti, di carcerati, certo, ma comunque egualmente diritti costituzionalmente sanciti, in quanto diritti umani inalienabili.

Né fa da ostacolo a questa impostazione l'insistenza delle br sulle perversità del trattamento differenziato nelle carceri, sì da apparire che questo per loro sia il punto più importante, poiché anche al riguardo, dice Pannella, i radicali hanno preceduto di parecchio le br. "Noi siamo stati sempre contrari ai trattamenti differenziati - spiega - anche perché semplicemente non capiamo come mai il Governo debba garantire unità di tempo e di spazio alle organizzazioni terroristiche, cioè organizzare direttamente le brigate in carcere".

Fra il pubblico che assiste alla conferenza stampa ci sono Paola Negri, mogli di Toni, e la moglie di Baumgartner, l'autonomo condannato con Pifano per il trasporto del missile. In particolare Paola Negri ha ricordato che suo marito è stato selvaggiamente picchiato, nonché che concordemente, gran parte della stampa, ha tentato di farlo passare come il capo o l'organizzatore della rivolta. La moglie di Baumgartner, invece, segnala che nelle carceri esiste un ambiente composito, un arco di orientamenti politici differenziato, ed anche per questo la visita dei radicali è quanto mai opportuna. Le br - dice - non possono appropriarsi della leadership di tutti i detenuti.

Analogo giudizio esprime il vicesegretario liberale Biondi, benché mantenga riserve formali, non di sostanza, sulla singolarità e sui modi sorprendenti di maturazione e formazione delle decisioni e iniziativa radicali. "I radicali - egli dice - si muovono su posizioni e con iniziative particolari, sicché non stupisce che dal loro punto di vista la provocazione obbedisca a criteri anche importanti e tali da smascherare la propaganda delle br con una contropropaganda di stampa, appunto, radicale". Egli riconosce che l'odierna iniziativa è "una specie di contropiede politico e istituzionale in un paese dove il ritardo e la stagnazione sono regole. Gli stimoli radicali possono stupire, ma come liberale non sono di quelli che si indignano".

(continua al testo n. 1770)

 
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