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Capecelatro Ennio, Roccella Franco - 1 marzo 1981
LA PELLE DEL D'URSO: (2ter) I 33 giorni (terza parte)
di Ennio Capelcelatro e Franco Roccella

SOMMARIO: L'azione del Partito radicale per ottenere la liberazione del giudice Giovanni D'Urso rapito dalle "Brigate rosse" il 12 dicembre 1980 e per contrastare quel gruppo di potere politico e giornalistico che vuole la sua morte per giustificare l'imposizione in Italia di un governo "d'emergenza" costituito da "tecnici". Il 15 gennaio 1981 il giudice D'Urso viene liberato: "Il partito della fermezza stava organizzando e sta tentando un vero golpe, per questo come il fascismo del 1921 ha bisogno di cadaveri, ma questa volta al contrario di quanto è accaduto con Moro è stato provvisoriamente battuto, per una volta le BR non sono servite. La campagna di "Radio Radicale che riesce a rompere il black out informativo della stampa.

("LA PELLE DEL D'URSO", A chi serviva, chi se l'è venduta, come è stata salvata - a cura di Lino Jannuzzi, Ennio Capelcelatro, Franco Roccella, Valter Vecellio - Supplemento a Notizie Radicali n. 3 - marzo 1981)

(terza parte - segue dal testo n.1769)

Perché il silenzio stampa

Frattanto i giornali fanno a gara nel mantenimento di un rigoroso silenzio stampa e nel dar voce ai predicatori della fermezza. E' importante conoscere le motivazioni che i loro stessi direttori danno al "black-out" adottato. "Al di là di tante discussioni sui pericoli di amplificare attraverso i mass media i poteri ricattatori e la propaganda dell'eversione - dice Di Bella direttore del "Corriere" - le ultime mosse delle br dimostrano ormai, in modo indiscutibile, che l'obiettivo è proprio quello di guadagnare spazio sui giornali e alla televisione per recuperare il terreno perduto con gli arresti e le defezioni". Non molto diversamente Indro Montanelli, direttore del "Giornale Nuovo": "il comunicato delle br, nel quale si pongono le condizioni per liberare il giudice D'Urso, dopo averlo condannato a morte, fa capire quale sia il reale obiettivo del terrorismo: servirsi dei mass media per enfatizzare le sue imprese".

Ai lettori di questi e degli altri giornali del black-out si dice che i comunicati ed i messaggi delle br sono ``farneticazioni'', ``allucinazioni'' (e lo sono indubbiamente per le argomentazioni con cui esaltano l'assassinio e la violenza) ma al tempo stesso si impedisce loro di rendersene direttamente conto privandoli della lettura di quei testi nel timore che le br guadagnino spazio, si facciano pubblicità, in una parola convincano. E non si riflette che se così fosse, se davvero la semplice pubblicazione di due documenti dei terroristi comportasse l'ipotesi di un coinvolgimento della gente, allora non ci sarebbe scampo, bisognerebbe concludere che la democrazia è già finita lì dove vive in prima istanza, nella coscienza popolare; oppure concludere che, al di qua della violenza, ai terroristi in quanto protagonisti, sia pure assassini, della protesta qualche ragione andrebbe riconosciuta.

Nell'un caso o nell'altro, nel caso cioè che la qualità di quei messaggi si esaurisca nella farneticazione o che abbia qualche forza di persuasione, non ci sono ragioni valide per negarne la conoscenza alla gente che ha il diritto di confermare l'uno o l'altro giudizio, vanificando ogni ``valore'' di quei documenti se ne riconosce la sciagurata vanità, o cogliendone i motivi di meditazione. Nell'uno e nell'altro caso se ne avvantaggerebbe la lotta la terrorismo, che si avvarrebbe del rigetto di quella assurda violenza nella coscienza popolare o recupererebbe una riflessione preziosa in ordine alla forza democratica da opporre alla violenza terrorista.

E non è valida la precauzione di non far giungere ai giovani una suggestione pericolosa. Se questa suggestione dovesse incontrare qualche disponibilità, da parte di giovani che sappiamo esasperati dalla refrattarietà di una società politica e di una gestione del potere che non rispondono alla loro richiesta di esistenza e di libertà, o peggio che vi rispondono con l'ingiustizia, la corruzione, la falsificazione, le mistificazioni sistematiche, allora la pubblicazione di quei testi è un rischio obbligato per una democrazia che voglia misurarsi con se stessa iniziando dal solo punto di partenza credibile e convincente: la verità e il vaglio delle responsabilità. Né è lecito disperare che nella gente, di qualunque età e di qualunque livello sociale, si attutisca l'orrore per la violenza e la consapevolezza della sua tragica inutilità, quando vi sia una società politica che ne rispetti e ne ricerchi la coscienza umana e civile, mettendo in gioco se stessa nella professione di fiducia nei valori della non violenz

a, della verità, della onestà morale, intellettuale, politica. La preoccupazione di salvare la vita di D'Urso, la vita di un uomo, di rifiutarne l'olocausto, sarebbe stato un segno di questa autenticità e di questo affidamento nei valori democratici; un segno di forza. Con la pubblicazione di questi testi, intesa a salvare una vita, si sarebbe notificato il rispetto di quei valori, la disponibilità della democrazia a fare i conti non con le br, ma con se stessa e la coscienza di sé in quanto democrazia.

Non c'è dubbio che il terrorismo pone alla società civile e politica una domanda urgente e pressante: quale Stato, quale democrazia. Il terrorismo cioè ci pone di fronte ad una scelta senza scampo: scegliere quale Stato e quale democrazia, quali valori, istituti, comportamenti intendiamo opporre all'inammissibile violenza dell'assassinio, delle gambizzazioni, dei sequestri, se intendiamo la vittoria sul terrorismo come rafforzamento della civiltà democratica e come vittoria di valori, per loro natura coinvolgenti, sulla negazione dei valori. Sono lontani certamente da questi convincimenti le parole che il Presidente del Consiglio pronuncia nel corso di una cerimonia presso la scuola allievi ufficiali di via Arenula, a Roma, per l'inaugurazione di un corso per capitani dei carabinieri. Ad introdurre il discorso è il generale Cappuzzo, che con molto senso della misura fa rilevare che per la lotta al terrorismo, non basta la repressione, che quella lotta ``richiede un approccio strategico di natura globale'', c

he è necessario ``recuperare i consensi di quella frangia di giovani alla quale l'eversione attinge i suoi adepti'' e chiaramente recuperarli con una politica. Le parole del generale Cappuzzo risultano tanto più significative in quanto si contrappongono a quanto detto da Forlani che sembra trasferire all'arma dei carabinieri titoli e responsabilità di governo del paese.

Frattanto a denunziare le scelte della maggioranza della fermezza, che ha proceduto con coerenza dalla legge Reale (la legge che ha concesso alla polizia licenza di sparare), interviene un tragico fatto che non è nuovo nella cronaca della vita di tutti i giorni e agisce perciò, presso la pubblica opinione, come sciagurata conferma. Una giovane donna di 28 anni, sposata solo da quattro mesi, Laura Rendina, è stata ammazzata a un posto di blocco non avendo obbedito all'alt perché spaventata dall'intimazione. Salgono così a 85 le vittime di ``incidenti'' analoghi. ``Se qualcuno ha sbagliato - assicura il Viminale in relazione alla giovane uccisa - pagherà''. Ma l'assicurazione non convince, essendo anch'essa una consunta ripetizione che ha accompagnato, senza avere avuto sin qui alcun seguito, tutti gli ``incidenti'' del genere.

E tuttavia lo schieramento della fermezza invoca più che mai la logica dello stato di guerra contro le br (ma Almirante ne invoca coerentemente l'effettiva proclamazione) sulla spinta di una frase pronunciata dal Capo dello Stato ancor prima del rapimento del giudice D'Urso e ripresa in Parlamento dalla Presidenza della Camera, ponendo il fenomeno delle br, così enfatizzato, al centro della vita del paese.

``E' nel nome di questa guerra - commenta il 6 gennaio Pannella in una intervista apparsa sul "Messaggero" - che ormai si fanno e si disfanno governi e maggioranza, si misurano successi e insuccessi, si fanno delegare parole e immagini, attraverso la televisione e i mass-media, nelle case degli italiani. E' nel nome di questa guerra e delle sue pretese esigenze che si fanno leggi e si disfanno, che si fanno e si rinnegano scelte di civiltà giuridica''. E aggiunge: ``In un mondo in cui a tre ore d'aereo da Roma stanno agonizzando, perché gli si nega il cibo, una decina di milioni di bambini e di vecchi, di donne e di uomini, in un paese in cui a tre ore di macchina da Roma sono morti in migliaia, uccisi in piccola parte dal terremoto e in grandissima parte dalla mancata difesa dal terremoto e dal mancato soccorso, in questo mondo posti al centro della Repubblica gli assassini di meno di quaranta persone nel 1980. Per quale aberrazione?''. Al rilancio dell'interrogativo da parte dell'intervistatore Pannella ri

sponde: ``La causa profonda è che la cultura dominante, ad un tempo e per giustapposizione cattolica e comunista, ``antifascista'' e fascista, ritiene l'assassinio politico, o religioso, o bellico, ``naturale'', o a suo modo più ``nobile'' dell'assassinio occasionale o comune. Ma la causa più immediata, anche se strutturale, ormai, è nel fatto che non esiste letteralmente una "forza di governo", né forza di governo nelle ideologie e negli interessi dominanti: si governa e si sottogoverna l'esistente, consumandolo. Mentre si ignorano, si rimuovono, si censurano, da parte delle istituzioni o nelle istituzioni, le enormi realtà che si stanno formando, le scelte politiche, economiche, tecnologiche e ideali che condizioneranno per decenni la nostra vita e quella delle generazioni future, se vi saranno generazioni future. E' in questo vuoto politico che si fa il pieno, nei mass-media, di morte e di distruzione... A tutto questo urge rispondere: Basta! Vogliamo innanzi tutto governare in modo che chi assassina cent

o persone non abbia che il giusto posto nella cronaca nera, ma abbia posto nella cronaca nera, e non in quella delle istituzioni e del governo del paese, anche chi ne assassina migliaia o milioni. Vogliamo governare in modo che la cronaca nera abbia, in totale, uno spazio marginale rispetto alla cronaca democratica, alla cronaca fatta dalle istituzioni e dai 57 milioni di cittadini che non praticano assassini... Se non si scioglie questo nodo nulla può essere fatto. Se non si ha la capacità, la forza o l'interesse di mettere all'ordine del giorno del paese e dei governi i grandi, drammatici, problemi del nostro tempo (e non Moretti e Curcio), nulla è fattibile. Occorre comunque capire che le br e i terroristi minacciano e si affermano dove ingiustizia e tradimenti dello Stato forniscono alibi alle disperazioni e ai fanatismi, alla negazione di qualsiasi altra legge che non sia quella della giungla. Se invece di negarla e distruggerla, si fosse fatta la riforma carceraria conforme alla Costituzione e alla giu

stizia, all'umanità e alla ragione, se si fosse fatta la riforma degli agenti di custodia, e quella della polizia, cioè una riforma dello Stato nato negli anni del fascismo e tenuto in vita per trentacinque anni dall'antifascismo ufficiale, Moro non avrebbe scritto inutilmente le sue splendide, tragiche lettere invocanti Cesare Beccaria contro Francesco Cossiga e Ugo Pecchioli''.

Dal gruppo dei belligeranti si sono staccati in volata i repubblicani trainando la formazione verso il traguardo. ``In un solo giorno - dichiara sempre Pannella - dopo le farneticazioni cripto-fasciste di Forlani ("allusione al discorso rivolto dal Presidente del Consiglio ai carabinieri"), abbiamo ora quelle degli eredi crispini e trasformisti, i cosiddetti repubblicani. Chiedono, nei fatti, prigione a vita senza giudizio, invasione poliziesca nella responsabilità di amministrazione della giustizia, tribunali speciali appena mascherati. La storia ha poca fantasia. Così come il vecchio partito repubblicano, altrimenti nobile e vicino alle sue gloriose battaglie risorgimentali, dette un alto contributo alla formazione del regime e del partito fascista, il nuovo cerca di trovare oggi un analogo spazio di sopravvivenza. Fatto senatore a vita per meriti preistorici e pseudomilitari, il senatore Valiani, divenuto maitre e penser della catena giornalistica sindoniana e delle P2 ritrova oggi, con maggior successo,

linfa dalle sue vecchie radici dannunziane e poi staliniste''.

Frattanto mentre volge al termine la visita della delegazione radicale al carcere di Trani, dal carcere di Palmi giunge la notizia che il capo storico delle br, Renato Curcio, si sarebbe detto favorevole alla liberazione di D'Urso. La sorte del magistrato non ci interessa - avrebbero riferito i detenuti del gruppo Curcio - più di quanto ci interessi la nostra situazione di reclusi nelle carceri speciali. L'uccisione di D'Urso che ha collaborato è ``politicamente indifferente''. Lo si potrebbe rilasciare e rispedirlo alla famiglia.

Siamo all'otto gennaio, giorno in cui si conclude la visita della delegazione radicale composta dai deputati De Cataldo, Pinto, Teodori e dai senatori Spadaccia e Stanzani. I parlamentari radicali si sono scrupolosamente attenuti al mandato ricevuto dal Gruppo, riunitosi d'urgenza nella sede di Radio Radicale non appena giunta da Milano la segnalazione di Daniela del pestaggio che avrebbero subito i detenuti rivoltosi. Un comunicato del Gruppo così lo ha ribadito il 7 gennaio: ``I parlamentari radicali ritengono non superfluo ricordare alla stampa e all'opinione pubblica che le visite al carcere di Trani (e successivamente a quello di Palmi) già decise prima della pubblicazione del comunicato n. 8 delle brigate rosse, hanno come ragione l'accertamento della situazione carceraria attraverso tutti gli strumenti consentiti dalla legge per documentarsi in tale direzione. E' quindi evidente che di tale visita fanno parte primaria l'ascolto delle varie voci, da quelle dei detenuti a quelle del personale carcerario

; oltre, ben inteso, e nella misura in cui lo ritenga possibile, della Magistratura.

``I parlamentari radicali ricordano inoltre che il P.R. ed il Gruppo, concordemente, avevano annunciato l'intenzione di porre a disposizione, nei modi che riterranno più opportuni, i mezzi di comunicazione dell'area radicale per trasmettere le informazioni che i detenuti delle due carceri volessero dare all'opinione pubblica, ovviamente nei limiti consentiti e ammissibili, così come ricordato e auspicato dal giudice D'Urso nella sua lettera al suo diretto superiore del Ministero di grazia e giustizia''.

Come lasciava sospettare il racconto frammentario e scarsamente documentato di Daniela, gli abusi, le violenze e i pestaggi ci sono stati, e in modo e forme selvagge. Ecco come risultano secondo la prima sintetica esposizione fattane da Massimo Teodori in una conferenza stampa tenuta dalla delegazione all'hotel Holiday di Trani nel pomeriggio dell'8 gennaio: ``noi abbiamo potuto accertare con i nostri occhi che ci sono moltissimi detenuti di tutto il reparto che presentano tuttora fasciature o ferite, e abbiamo su questo interrogato i detenuti stessi e il personale penitenziario. Risulta che nelle 24 ore successive, a partire dalle ore 17 circa, sono ricorsi alla visita ufficialmente 41 detenuti, e sono quelli di cui si hanno documenti ufficiali del passaggio attraverso l'ufficio sanitario, o il cosiddetto pronto soccorso immediato. Di qui risulta che a tutti i 41 ricorsi alla visita è stato riscontrato un numero molto vasto (di cui non vi parlerò in dettaglio) di ematomi, ecchimosi, ferite lacero contuse, d

ebitamente verbalizzate. In 12 casi sono state riscontrate fratture per la maggior parte di mani, dita, falangi o dell'articolazione. C'è stato un ferito da arma da fuoco, il detenuto Piras, il quale tuttora è ricoverato in ospedale, fuori del carcere. Ci risulta che 5 detenuti sono stati inviati in ospedali della regione, in quanto bisognosi di cure impossibili a praticare all'interno del carcere; ma che gli stessi secondo le dichiarazioni loro o quelle dell'ufficiale sanitario, perfettamente concordanti, sono stati quasi immediatamente, tra le 12 e le 48 ore, rispediti indietro''.

Dopo aver descritto le condizioni di diversi bracci, dove si notano suppellettili o servizi igienici distrutti, e avere detto che allo stato i detenuti sono ammucchiati in gruppi di 8 o 14 in ogni stanzone, carente per quanto riguarda i servizi igienici, Teodori riferisce le voci raccolte circa la dinamica dei maltrattamenti. Innanzi tutto suppellettili e servizi igienici non sarebbero stati distrutti dai detenuti, ed anzi questi avrebbero sentito rumori di sopra mentre erano ammucchiati da basso. Inoltre i pestaggi si sarebbero avuti per circa tre ore a cominciare dalle ore 17, e ad effettuarli sarebbero state dapprima le forze dell'ordine e poi successivamente agenti di custodia. Infine i detenuti sarebbero stati per l'intera notte tenuti all'addiaccio.

Un comunicato del Gruppo e del Partito radicale annuncia contemporaneamente da Roma la decisione di rendere noto alle 17 dello stesso giorno un documento del ``Comitato di lotta'' dei detenuti di Trani, cioè dei detenuti delle br. ``A questo documento - aggiunge il comunicato - noi riteniamo inutile ed impossibile dare una qualsiasi risposta. Ci occupiamo di politica di diritti umani e civili. Il tragico e squallido gioco della guerra non ci interessa: riguarda purtroppo coloro che ci credono e lo proclamano, nelle carceri, nel paese e, purtroppo sempre più numerosi e prestigiosi, nelle istituzioni. Noi ripetiamo alle br: liberate D'Urso, senza condizioni! Noi ripetiamo: con chi ricatta, con chi ricatta nel modo più infame tenendo il grilletto pronto a sparare sulla nuca di una persona, non si tratta. E' un rifiuto che si deve anche a chi crede di essere forte perché può essere assassino o esserlo già stato, perché corregga questo suo tragico errore. Noi ripetiamo: è per noi titolo di onore non trattare, non

aver trattato, non tollerare trattative né da parte dello Stato né di chicchessia. Le br, esse per prime lo sanno. Checché la stampa, specchio fedele del potere corrotto e corruttore ne scriva noi non abbiamo trattato la liberazione di D'Urso. Diamo atto a quanti abbiamo incontrato, cui si può riconoscere una qualsiasi rappresentanza delle br, di aver tenuto con noi un analogo atteggiamento. Con noi non hanno trattato né tentato di trattare. Per questo ripetiamo che il dialogo non solo è possibile, necessario e tentabile, ma che è forse sul punto di essere avviato, è forse già avviato. Se così è, ne rendiamo grazie ai nostri compagni assassini, bestialmente troppo legati al fascino della morte...''

``Pubblicheremo a nostre spese su quotidiani il testo del documento, come atto dovuto e corrispondente a quello dei detenuti di Palmi che, se le notizie sono esatte, sono andati oltre a quanto era lecito attendersi in base al comunicato n. 8 delle br nella direzione della vita e del dialogo, quali che siano le ragioni per le quali lo hanno fatto''.

``Noi continueremo nel nostro lavoro per la democrazia, per il diritto, per i diritti umani e civili, per le riforme delle leggi, dei codici, delle carceri, delle pene, da democratici, da parlamentari, da nonviolenti, denunciando ancora una volta l'infamia di un potere, di maggioranza e di ``opposizioni'' parlamentari che hanno negato al Parlamento e al Paese di compiere quei doveri costituzionali, che debbono poi, in qualche misura, almeno riconoscere come tali quando la violenza che è la loro regola, rischia di rivolgersi contro di loro, e di ferirli''.

Nel pomeriggio, all'ora annunciata, il documento dei detenuti di Trani viene diramato alla stampa e trasmesso da Radio Radicale.

Il 10 gennaio Partito e Gruppo radicali rendono noto il documento dei detenuti di Palmi, del quale era giunta voce qualche ora prima che si concludesse la visita della della delegazione a Trani. E' il documento del gruppo Curcio che ``consente'' alla liberazione di D'Urso: ``Poiché - vi si legge - la forza del movimento rivoluzionario è tale da consentire atti di magnanimità, noi acconsentiamo alla decisione presa dalle br di rilasciare il boia D'Urso, alla condizione che questo comunicato, come quello dei compagni di Trani espressione del più generale movimento dei proletari prigionieri organizzati nei vari Organismi di Massa Rivoluzionari, vengano resi pubblici sui canali della comunicazione sociale''.

L'ultima decisione sulle sorti di D'Urso, dunque, ``spetta agli amici del boia: o ciò che ci è storicamente dovuto, e che comunque ci prenderemo, vale a dire spazio sui canali della comunicazione sociale, oppure un funerale di Stato che meglio sarebbe, a questo punto, definire un funerale dello Stato''.

La diffusione del documento chiarisce un equivoco insorto il giorno prima ad opera dell'avvocato Di Giovanni. Il quale, reduce dal carcere di Palmi aveva riferito di un consenso senza condizioni di Curcio alla liberazione di D'Urso. Le condizioni, al contrario, c'erano.

Marco Pannella e Franco De Cataldo, recatisi al carcere di Palmi, come deliberato dal Gruppo radicale che ne aveva deciso la visita unitamente a quella di Trani, avevano potuto prendere visione del documento e accertare la reale portata delle cose, pur non avendone avuta alcuna comunicazione dai detenuti.

Stando alla lettura di quel documento (``... sui canali della comunicazione sociale'') la condizione posta poteva forse ritenersi soddisfatta preventivamente per la diffusione che ne avevano deciso autonomamente e unilateralmente Radio Radicale e Teleroma 56 ancor prima di venirne a conoscenza: una diffusione ampia in conseguenza del collegamento all'emittente radicale chiesto e ottenuto da un numero considerevole di altre emittenti radiofoniche private. ``Pubblicando il comunicato che segue - avvertono il 10 gennaio il Partito e il Gruppo parlamentare radicali - e diffondendolo in questo momento in gran parte d'Italia a centinaia di migliaia di ascoltatori della rete delle Radio Radicali e delle tante altre radio private collegate, compiamo anche l'ultimo atto da noi dovuto per l'unilaterale impegno preso con l'opinione pubblica. Se le br intendono anch'esse mantenere gli annunzi fatti, la liberazione di Giovanni D'Urso dovrebbe essere questione di ore, e certa. Con il comunicato che ora diffondiamo, emanat

o dal ``Comitato unitario di Campo'' di Palmi, sono adempiute le condizioni alle quali le br dichiaravano di far dipendere la sospensione della condanna a morte del giudice D'Urso''.

Noi dichiarammo subito che la ``sospensione'' della condanna, così come preannunciata, poteva non significare nulla. Sospensione per quanto? Liberazione o commutazione della pena?

Rispondemmo subito, duramente, pubblicamente, procedendo nel tentativo di dialogo che contrapponemmo e contrapponiamo alla trattativa e alla fermezza nell'inerzia e nell'irresponsabilità.

``Dal comunicato di Palmi ci giunge una risposta: ``sospensione della pena'' equivale a ``decisione presa dalle brigate rosse di rilasciare il boia D'Urso''. Ne diamo atto, questa risposta è di enorme importanza... Se non avessimo verificato la grave inesattezza della notizia esplosa su tutta la stampa nazionale, secondo la quale ``Curcio ordina la liberazione di D'Urso'', se avessimo desistito dalla nostra rigorosa puntuale responsabile iniziativa, è matematico che sarebbe venuta a mancare la condizione, che ora si verifica, posta dapprima dalle stesse br e poi dal Comitato Unitario di Campo, con una iterazione significativa per la ``sospensione della pena di morte'' e per il rilascio di Giovanni D'Urso''...

``Aggiungiamo che Marco Pannella ha informato direttamente e personalmente Curcio che nel pomeriggio era stato diffuso il comunicato di Trani; che Curcio, per suo conto, e a due riprese, gli ha comunicato di non avere ``nulla da dire''; che analogo atteggiamento è stato assunto, in un'altra cella, da Delli Veneri. Conferma ulteriore che solo la testualità del documento poteva e doveva essere preso in considerazione.

``Si è così giunti, secondo logica e secondo quanto le stesse br hanno comunicato senza più possibilità di margini di dubbio, al penultimo atto di questa dolorosa infame vicenda. L'ultimo non ci è dato di profetizzarlo; ma abbiamo il diritto dovere di proclamare alto che solo giungendo a smentire se stesse, le proprie parole, i propri impegni unilateralmente presi, le br non possono ora fare altro che rilasciare Giovanni D'Urso, salvo e in condizioni che torni salvo alla sua famiglia e al suo lavoro''.

``Ripetiamo che tutto quello che abbiamo fatto, e anche tutto quello che abbiamo pensato, lo abbiamo fatto pubblicamente alla luce del dialogo con tutti, e dell'iniziativa pubblica. Opponiamo questo nostro modo di governare le evenienze più tragiche e aberranti, al modo di governare nella ``fermezza'' dell'inerzia e del cinismo che in primo luogo il Partito Comunista Italiano mostra di ritenere necessario''.

``Se D'Urso è salvo, se D'Urso sarà ora libero da una vicenda di allucinante violenza e aberrazione, la democrazia italiana avrà tratto la forza di conquistare adempimenti costituzionali e amministrativi, atti dovuti di giustizia, e la prova che i metodi che furono propri, nella vicenda Moro, dei due ``partiti'' che allora si costituirono, quelli delle trattative occulte e della pietrificazione dell'iniziativa dello Stato, portano alla morte e alla sconfitta; mentre il nostro può, ripetiamo, può portare alle speranze e alla vita. Ripetiamo alle br, anche oggi, come dal momento del sequestro: ``liberate D'Urso!'' senza trattative, senza condizioni''.

Un terzo documento verrà alla luce tra qualche giorno. Lo diffonderanno il 13 gennaio i parlamentari radicali Pinto, Spadaccia, Stanzani e Teodori. E' sottoscritto dai detenuti ``politici'' Giorgio Baumgartner, Luciano Ferrari-Bravo, Cipriano Falcone, Paolo Lapponi, Gianni Lucarelli, Antonio Negri, Luciano Nieri, Palmiro Spanò, Emilio Vesce, i quali si dichiarano estranei all'``ideazione, preparazione e gestione della rivolta di Trani'' ed estranei al ``progetto politico'' in cui essa si iscrive. I firmatari precisano di non riconoscersi ``in nessuna componente politica organizzata nel carcere'' pur ribadendo la loro volontà di lotta contro ``questo sistema carcerario'' con mezzi e metodi che nascono dal popolo carcerato e che siano capaci di coinvolgere l'intero movimento comunista e le forze sociali che esprimono i bisogni di trasformazione''.

La Magistratura - avverte Teodori - ``conosceva il documento ora reso noto''.

Dalla diramazione dei due documenti, provenienti da Trani e da Palmi, comincia il conto alla rovescia per la sorte di D'Urso. Si entra nella stretta finale, e se davvero gli si vuole salvare la vita occorre fare quanto è umanamente e praticamente possibile senza alcuna compromissione di trattativa, e senza che il governo si scomodi, né con la ``fermezza'' né senza.

A Montecitorio riprende il dibattito in un'atmosfera tesa; il governo deve rispondere ad una valanga di interpellanze e di interrogazioni. Franco Roccella vi pronuncia una requisitoria contro la ``fermezza'' ridotta alla sua reale essenza terroristica e macabra. ``In nome della ``fermezza'' e della guerra si concedono comportamenti inammissibili fino alla cosiddetta pistola facile della polizia (leggete stamane il "Messaggero": 24 morti e 52 feriti accidentali nel 1979, 17 morti e 30 feriti accidentali nel 1980). In nome della fermezza e dello stato di guerra sono stati criminalizzati quanti si sforzavano di capire se il terrorismo è quello che a noi appare essere; un fenomeno politico fisiologicamente inscritto in questa gestione dello Stato, del potere, della società politica e della società civile, e per niente affatto prodotto dai malefici di un demone, fisiologicamente inscritto nella storia di questa Repubblica e non per conseguenza di stregonerie''.

Roccella pone poi le due domande essenziali alle quali nessuno ha mai dato risposta o vuole darne. "Come si fa a non chiedersi dove possa attingere energia democratica antagonistica uno Stato amministrato con gestione fondata sistematicamente sulla violenza dell'ingiustizia, della disonestà, della falsificazione, del mercimonio, delle strumentalizzazioni, del privilegio, dell'impunità, dei corporativismi, delle clientele, delle lottizzazioni e via discorrendo?"... Poi, rivolto alla sinistra: "come si fa ad avere forza democratica antagonistica, colleghi della sinistra, quando alla lealtà democratica si sostituisce la logica di schieramento e di pattuizione, e ad essa si sacrificano sistematicamente le riforme, realizzandole solo in subordine al tornaconto degli accordi e dei patteggiamenti, tutti inscritti dentro una dimensione di sostanziale complicità unanimistica"?

Un successivo intervento di Boato ripercorre il cammino a ritroso compiuto dal Governo dal 16 dicembre in avanti, da quando cioè il Ministro dell'interno Rognoni, dichiarò con vigore, questa volta sì con ``fermezza'', che sarebbe stato fatto tutto quanto fosse umanamente possibile per salvare D'Urso, essendo l'obiettivo della difesa della vita prioritario. Ora possiamo constatare come certe aperture, che non sono aperture al terrorismo, ma ad una capacità di iniziativa politica rispetto al fenomeno terroristico laddove la fermezza coincide con la passività cadaverica delle istituzioni - ad una iniziativa politica, istituzionale, e costituzionale, legittima e legale da parte del Governo, siano state sembra - totalmente soffocate, evidentemente da ciò che si è verificato negli ultimi giorni.

Si entra ormai in una spirale convulsa di eventi. Il dibattito alla Camera prosegue nervoso, contrassegnato da incidenti a catena,, il più clamoroso dei quali è uno schiaffo vibrato dalla comunista Maria Ciai Trivelli al radicale Cicciomessere, reo di avere leso la maestà di Pajetta, dandogli dell'arteriosclerotico dopo che quello lo aveva gratuitamente e insistentemente insultato dandogli del nazista sulla semplice considerazione dei tratti somatici. La stampa di regime, unanime, mentre si vanta di non pubblicare i documenti dei detenuti consegnati ai loro redattori dai radicali, scaglia gratuite accuse o insinua altrettanti gratuiti sospetti, naturalmente a carico dei radicali, in quanto questi, con almeno la complicità tacita di esponenti del governo, starebbero direttamente trattando la liberazione di D'Urso. In una conferenza stampa a Roma simultanea all'altra a Trani, i radicali hanno detto esplicitamente di non trattare, anche perché sarebbe contrario alla logica e a tutta la loro linea politica. Pann

ella: "noi ripetiamo alle br: liberate D'Urso e senza condizioni. Con chi ricatta tenendo il dito sul grilletto, non si tratta e noi non trattiamo"; ma che importa, l'essenziale è versare olio sul fuoco.

Occorre dire che non manca chi si dissocia radicalmente dalla vergogna giostra. Oltre al "Messaggero, all'Avanti", e alla "Nazione", che non hanno abbassato le saracinesche si deve registrare il caso del "Lavoro" di Genova che si risolve con le dimissioni del suo direttore, Giuliano Zincone, in seguito alla pretesa dell'editore di imporre autoritariamente il "black-out". E ad un giornalista che lo intervista per chiedergli se lui pubblicherebbe i comunicati dei brigatisti, Zincone risponde testualmente: "io ritengo che i brigatisti delle br rappresentino un pericolo per tutti, una sciagura nazionale. Non credo invece che sia la sciagura maggiore, l'unica grande minaccia per gli italiani. Non comprendo, quindi le grandi mobilitazioni di opinione, le proposte di emergenza, i provvedimenti straordinari chiesti solo per questo pur temibile gruppo eversivo. Se questo accade vuol dire che si tiene conto delle pretese politiche di questa banda, il cui maggiore successo sarebbe proprio quello di impedire che chi gov

erna rinunciasse ad affrontare tutti i gravi problemi che affliggono il Paese per combattere sulla frontiera-ombra disegnata dal ricatto terrorista. Il giornalista deve quindi informare il pubblico di quello che accade, anche di quello che fanno e dicono i delinquenti. Può rinunciarvi soltanto in base ad una libera scelta personale. Se lo Stato, le istituzioni, i partiti, ritengono di dover imporre a tutti un unico comportamento valido e legale, devono assumersi le responsabilità esplicite di chiedere la censura della stampa".

E' un'analisi stringata, ma precisa, che coglie tra l'altro il rifiuto da parte del governo di assumersi precise responsabilità, in un senso o nell'altro. E in effetti in tutta questa vicenda, ma in particolare in questi giorni cruciali, il governo naviga nell'ambiguità al punto di lasciar supporre indifferentemente che ha agevolato le iniziative per la liberazione di D'Urso o che ha incoraggiato e sostenuto la ``linea della fermezza''.

Nell'infuriare della polemica, per i ``fermissimi'', che non demordono e premono per altri pacchetti di leggi infami, arriva un'altra ``mazzata''. Quattro procure della Repubblica (Milano, - Bologna, Firenze e Livorno) concedono la libertà provvisoria al leader di Azione rivoluzionaria Gianfranco Faina, conformemente ad una richiesta dei detenuti. Il professor Faina è già stato condannato a 19 anni e tre mesi di reclusione, ma altri processi, sempre di natura terroristica, dovrebbe affrontare. Contro il provvedimento si scaglia compatto il fronte della ``fermezza'', trascurando del tutto che la libertà provvisoria è stata concessa perché Faina è affetto da una grave forma di carcinoma polmonare con metastasi ossea diffusa, per la qual cosa i medici gli danno venti probabilità su cento di sopravvivere per un massimo di altri sei mesi. Tumore o no, doveva restare dentro. E ci resta poiché all'atto della liberazione Faina risulta intrasportabile. Morirà inesorabilmente un mese dopo. E' questa sprovvedutamente l

'occasione che il Ministro della giustizia Sarti coglie per accodarsi al fronte della ``fermezza'' indirizzando un'immediata reprimenda ai magistrati colpevoli di quel ``cedimento''.

In soccorso della ``fermezza'' tradita arriva con perfetta scelta di tempo il procuratore generale romano, Pietro Pascalino. Con l'autorità che gli viene dall'alto ufficio getta sul tavolo un mazzetto di proposte che possono così riassumersi: riforma della Costituzione, tribunale speciale, nuove leggi più severe, stato di guerra. Ecco un rapida antologia della "Summa" pascaliniana ricostruita con le sue parole, benché abbreviatamente: "la lotta all'eversione viene condotta con mezzi del tutto inadeguati"; "la Costituzione non è il Vangelo, e se le circostanze lo impongono deve essere modificata"; "nuove norme potrebbero essere varate"; "il Paese non è affatto diviso, penso che sopporterebbe le conseguenze di una politica d'emergenza così come sta sopportando con straordinaria pazienza lo spargimento di tanto sangue innocente. O il solo sangue da lacrimare è quello del terrorismo?"; "auspico l'istituzione di un unico ufficio, a livello nazionale, che si occupi dell'inchiesta sul terrorismo".

Però un dispiacere ai suoi amici necrofori, Pascalino lo dà; ed è proprio sull'affare Faina. Richiesto se condivide il risentimento di Sarti per la concessione della libertà provvisoria, risponde netto: "un intervento inopportuno, perché Faina è in condizioni gravissime, con un tumore al polmone, e in base a precise norme di legge, la magistratura può, per motivi umanitari, fargli lasciare il carcere, come è già avvenuto in casi analoghi".

A scanso di equivoci Sarti, intervenendo alla Camera, assicura che "il governo non ha in alcun modo compiuto atti che giustifichino le irresponsabili affermazioni di chi ritiene che le istituzioni del nostro Paese possano venire a colloquio con le organizzazioni terroristiche". Poi deplora con enfasi "il fatto che i radicali abbiano fatto della loro visita uno strumento per fare uscire dal carcere di Trani i documenti dei terroristi". E infine dice di respingere "con sdegno l'insinuazione che al provvedimento dei giudici di Firenze che hanno concesso la libertà a Faina, non sia stata estranea una pressione del ministero o del suo titolare, che l'avrebbero posta in essere per lanciare o per raccogliere segnali propiziatori di una trattativa".

Gli eventi precipitano. V'è un accavallarsi frenetico di fatti o notizie senza un ordine preciso, e senza che vi sa il tempo di verificarne il senso ultimo o l'attendibilità. I giornalisti dell'"Espresso" arrestati per favoreggiamento hanno rivelato il nome del personaggio con il quale hanno avuto contatti per avere il materiale delle br poi pubblicato, è il professor Giovanni Senzani, esperto criminologo, un nome al di sopra di ogni sospetto, che aveva avuto perfino una borsa di 15 milioni dal Consiglio Nazionale delle Ricerche con facoltà di accesso, appunto per i suoi studi, in tutte le istituzioni penitenziarie. L'unico suo legame con il terrorismo, per quanto di lui si sa, è suo cognato Enrico Fenzi (fratello di sua moglie), arrestato a Genova per ``partecipazione a banda armata'', ma poi assolto perché ``il fatto non sussiste''. Dopo questa avventura il professor Fenzi sarebbe entrato nella clandestinità. Senzani sarebbe il supposto brigatista organizzatore del sequestro D'Urso e quasi certamente avreb

be condotto l'interrogatorio del magistrato.

Contemporaneamente, contro Curcio, Negri e 83 detenuti nelle carceri di Trani vengono spiccati altrettanti ordini di arresto per il sequestro D'Urso. Il magistrato che li ha emessi contraddicendo una prassi univoca che vuole ingiustificati e inutili gli ordini di arresto a carico di chi è arrestato e prigioniero, dichiara il suo calcolo deliberato di calare il suo gesto nel vivo della vicenda D'Urso (questi detenuti sapranno che se D'Urso muore verranno processati) incurante della reazione delle br che potrebbero esserne indotte ad alzare il tiro e a subordinare a condizioni più onerose e non rispettabili la vita del giudice prigioniero. A Radio Radicale arriva la voce di molti giuristi, tutti concordi: è un gesto inspiegabile con la prassi procedurale, se il magistrato avesse atteso qualche giorno il procedimento giudiziario non ne avrebbe minimamente sofferto, visto che i prigionieri sono già a disposizione della giustizia e come tali sono già catturati. Ma al tempo stesso è un gesto che può riportare le s

peranze per la liberazione di D'Urso in alto mare. Se le br infatti chiedessero la revoca del provvedimento per liberare il loro prigioniero, sarebbe questa una condizione alla quale non si potrebbe ottemperare.

Come giudicare l'iniziativa del magistrato? Un apporto alla linea della ``fermezza'' che coerentemente scavalca ogni preoccupazione per la sopravvivenza di D'Urso e sollecita lo scontro e il confronto di forza? Lo scatto di un giudice della fermezza esasperato dall'ondata di ``cedimento'' alla quale pare risponda grandissima parte della magistratura? O un tentativo, anche se maldestro, di contribuire alla salvezza del rapito immettendo nel gioco una minaccia, un ``ricatto'' che dovrebbe condizionare le br? Ma in tal caso non sarebbe dovuto bastare il dubbio, un solo pur esiguo dubbio, di nuocere a D'Urso per fermare quell'intervento?

Arriva come una masso tombale il comunicato n. 9 delle br. E' l'ultimatum: non è il caso di ``prolungare la prigionia'' del magistrato ``oltre il necessario'', perciò se ``entro 48 ore'' i maggiori quotidiani italiani non pubblicheranno ``integralmente'' i comunicati ``che sono stati emessi dagli organismi di massa di Trani e di Palmi'' sarà senz'altro dato corso ``all'esecuzione della sentenza''.

La vita di D'Urso dipende dunque dai giornali. Poche colonne di piombo lo possono salvare o uccidere.

C'è in quel comunicato un aumento del prezzo da parte delle br? La risposta è semplice: c'è solo rivelato l'esatto significato che hanno sempre avuto per le br ``i canali della comunicazione sociale''.

Nascono interrogativi angosciosi. Da quando decorrono e quando scadono esattamente le 48 ore? Quali e quanti sono i maggiori quotidiani? Temporeggeranno le br se alla scadenza non tutto ma solo qualcosa sarà fatto, in attesa che il resto si faccia?

La signora D'Urso chiede disperatamente quelle poche colonne di piombo che equivalgono alla vita del marito. Lancia appelli, scrive lettere, inizia la sua via crucis toccando le redazioni romane dei più diffusi quotidiani italiani. Ma le risposte che riceve sono dinieghi cortesissimi, riguardosi, compunti. Non si arrende, insiste, scongiura, esplode: "voi, giornali della morte...". Ha questuato per le sedi romane dei quotidiani, ha raccolto vento e spesso il suo passo è stato fermato da rifiuti che hanno anticipato con solerzia le suo visite; ``no'' il "Corriere della Sera", ``no'' "Repubblica", ``no'' "La Stampa", ``no'' "Il Giornale Nuovo", ``no'' "Il Resto del Carlino", ``no'' "Il Mattino". Uno spiraglio si apre al "Messaggero" e al "Secolo XIX", più stretto alla "Nazione" e al "Giorno". Solo l'organo del PSI, qualche giorno avanti, prima del dibattito alla Camera, ha pubblicato stralci del documento di Trani. Ma tutto è finito lì. Craxi, subito aggredito dai fogli dai partiti della ``fermezza'', dentro e

fuori del Governo, se l'è cavata adducendo che l'"Avanti" è un giornale e non è il partito; e perfino Spadolini, fra gli alleati di governo, ha dovuto ingoiare il rospo: appena al di là della disapprovazione c'è in agguato la crisi e la probabilità corposa delle elezioni anticipate. Il caso PSI-"Avanti" si è riversato nel dibattito alla Camera pesantemente sottolineato dal PCI e dal MSI che hanno chiesto con duri accenti polemici quale sia la politica del governo: se quella testimoniata dall'organo del partito socialista, del ``cedimento'' e della ``complicità'', o quella sostenuta dal PRI, della ``fermezza'' ad oltranza, se della vita di D'Urso - traducono i radicali - o del suo assassinio, del recupero di forza democratica o dell'``emergenza'' gladiatoria. Il terrorismo - sostiene il PR - nella misura in cui determina l'obbligatorietà e l'urgenza di una risposta, pone alla società politica e civile una domanda incalzante: quale Stato e quale democrazia. Società politica e civile non possono eluderla; prim

a che doverla al terrorismo, la risposta la devono a se stesse. Nel dibattito a Montecitorio il Presidente del Consiglio se l'è cavata adducendo l'improprietà di un unanimismo della compagine governativa che sarebbe proprio di un regime totalitario.

E' una tesi ovviamente fragile poiché la non unanimità all'interno di una maggioranza, che si è saldata in un Governo in virtù di scelte primarie, non può ripetere la dialettica democratica tra maggioranza e opposizione e se il dissenso, un dissenso di questa portata, rompe gli schieramenti, la sola regola e salvaguardia, in democrazia, è quella di formare nuove maggioranze e minoranze. Per legge fisiologica, del resto, una maggioranza non può non scegliere le proprie ragioni e la propria linea: la scelta, per quanto ambigua, è comunque emersa in quel dibattito per la remissione della polemica di una parte, del PRI e, in misura meno clamorosa poiché meno esposto era stato il dissenso, della fascia oltranzista della DC coincidente con le aree di opinione democristiana della unità nazionale. E' un dato provvisorio ma colto subito dai deputati radicali: Franco Roccella contesta l'ambiguità del governo ma ne rileva al tempo stesso i margini ``di felice ambiguità''.

Ora, premendo la scadenza dell'ultimatum delle br, l'avarissimo tempo disponibile si consuma con drammatica rapidità, portando la tensione della polemica e l'emozione dell'attesa al limite. Dal punto di vista quantitativo, misurato sul metro degli schieramenti politici e giornalistici, il fronte del rifiuto di qualsiasi atto o gesto finalizzato alla salvezza di D'Urso è schiacciante ed è totalmente esposto. I socialisti si sono rintanati nell'ombra, dalla quale del resto non sono sin qui del tutto mai usciti: grava su di essi il vincolo dell'alleanza di governo, l'impegno della ``governabilità'', la minaccia di una crisi paurosamente incline ad elezioni anticipate. All'interno della maggioranza i repubblicani soprattutto e la parte zaccagniniana della DC, saldandosi alla pressione esterna del PCI e del MSI, li braccano per spingerli sul terreno scoperto. Molto meno i socialdemocratici, che evitano di tallonare il PSI, cercando anzi di coprirlo, ma che non nascondono la loro propensione per una scelta di ``fe

rmezza'', proiettata in termini di netta predilezione di leggi, provvedimenti e metodi operativi.

Per questo il governo scricchiola, tanto che nelle 48 ore che corrono verso la vita o la morte di D'Urso si sente parlare sempre con maggiore insistenza delle sorti del Governo, così che l'eventualità dell'assassinio del giudice prigioniero perde i tratti della sua propria sconvolgente drammaticità per configurarsi sempre di più come l'occasione per una vasta e profonda manovra politica.

E' ovvio che sui radicali, rimasti soli, converga la violenza di una polemica senza precedenti. "Il Corriere della Sera", forse per la prima volta nella sua storia, giunge a pubblicare contro di essi, in prima pagina un corsivo riquadrato, che è il corrispondente di una interrogazione parlamentare. Eccone il testo: "Chi ha autorizzato i radicale a visitare con tanta frequenza le carceri di Trani e di Palmi? E' stato rispettato pienamente lo spirito dell'articolo 67 della legge penitenziaria? E per quale motivo il Ministro di grazia e giustizia non è intervenuto per impedirlo, come avrebbe potuto in base all'articolo 90 dello stesso?".

Le accuse si fanno più che mai esplicite, corroborate da toni di estremo livore; non incontrano nessuna remora di plausibilità, di civiltà e di pudore: sono per la capitolazione dello Stato, sono complici delle br, ne sono i portavoce. Non esitano dinanzi a smaccate speculazioni ed evidenti menzogne coperte da una inaudita guarentigia offerta dai giornali della ``fermezza'' che garantiscono tutto lo spazio alle voci d'accusa e negano il minimo spazio alle voci radicali o a quelle che suonano, direttamente o indirettamente, a loro difesa. Lo scopo è chiarissimo: chiuderli in un ghetto di criminalizzazione, disarmarli con la violenza, vietarne l'ascolto non potendone mortificare la credibilità. Sorgono voci inquietanti che serpeggiano insidiose negli anfratti di Montecitorio. Si dice che siano pronti, nel caso D'Urso venga ucciso, i mandati di cattura per complicità in sequestro e assassinio a carico dei radicali componenti la delegazione di Trani e di Palmi nonché a carico di quelli che da Radio Radicale hann

o divulgato i documenti delle br e tenuto incessantemente per giorni e notti il ``filo diretto'' con gli ascoltatori. Voci, certo, non necessariamente rispondenti al vero ma che traducono in ogni caso una volontà di ricatto e di persecuzione minacciando una improbabile e assurda criminalizzazione giudiziaria oltre che la criminalizzazione politica.

Le accuse persecutorie, sopite al momento della liberazione del giudice D'Urso, riprenderanno fiato non molto tempo dopo, fronteggiate sempre dai radicali con la testarda coerenza della loro azione politica e con risposte esplicite sempre e comunque ignorate dalla stampa. Ne riportiamo due di Marco Pannella che, sebbene successive alla felice conclusione della vicenda D'Urso, sintetizzano felicemente i motivi della contropolemica radicale in tutto il suo percorso.

Con riferimento al PCI: "Le sordide, immonde insinuazioni, gli anatemi e le menzogne con cui la stampa comunista sta cercando di liberarsi dei radical-brigatisti oggi come dei radical-fascisti del partito d'azione ieri per cercare in qualche modo di salvarsi imbarbarendo sempre più la vita politica, mi costringe a prendere atto che, nel partito in cui per trent'anni si sono giustificate e esaltate le più ignobili pagine del secolo, quelle naziste e comuniste, gli stermini, i processi, le invasioni, le torture, la criminalizzazione di partiti e ideologie intere, qui riflessi sono di nuovo vivi, dominanti, tentano disperatamente di mantenere nell'ignoranza e nel falso la lotta politica.

"Non a caso, ormai è il direttore del "Corriere della Sera" (e quale direttore) ad auspicare che il Ministero degli Interni, e quanto del governo deve applicarsi all'ordine pubblico, sia tenuto da comunisti quali Pajetta e Pecchioli, a dichiararlo dalle colonne di "Repubblica" che colano lacrime e pietà, di fronte alle sventure del povero Di Bella. Il compromesso storico con il mondo cattolico e clericale, voluto dagli stalinisti e da Togliatti, ha impedito il sorgere della prima repubblica in Italia. Ciò che gli epigoni impazziti e frustrati stanno ormai cercando di realizzare con il ``capitale'' (salvando Calvi, Gelli, Agnelli, la finanza massonico-repubblicana e quella clerico-sindoniana, aprendo perfino i salotti romani al tentativo di sfruttare l'azione delle br per destabilizzare ulteriormente governi e Parlamento, per giungere al governo detto Visentini; sotto la sferza degli editori dell'"Espresso" e "Repubblica", e del capofazione Scalfari), ciò che tentano di realizzare gli ambienti andreottiani, p

unta ad affermarsi sulle macerie, e con le macerie, della Repubblica e della democrazia. Questi apprendisti stregoni e questi personaggi non di rado uniti da una vera e propria associazione sovversiva, lavorano da prussiani, per il Re di Prussia. Cioè per un intervento alla turca".

Con riferimento al PRI: la nota repubblicana che accusa il PR "di aver già praticato e di cercare per il futuro alleanza br" e che incita la magistratura a risolvere penalmente la vicenda radicale nel suo insieme, è, oltre che grottesca, ridicola. Se il PRI dovesse essere ritenuto responsabile dei fatti penalmente rilevanti e perseguiti cui si sono esposti da lustri i suoi dirigenti nazionali e periferici, si sarebbe già da tempo dovuto procedere al suo per associazione a delinquere. Dagli scandali (plurimi) dei petroli, con i segretari amministrativi salvati dall'ignobile Inquirente, a quelli connessi a molte vicende criminali e mafiose in Sicilia e altrove, è indubbio che solo una situazione di regime ha salvato il PRI da simile imputazione e condanna.

"Ma un fatto è certo: l'accusa ai radicali di essere alleati delle br e di ricercarne l'alleanza, è semplicemente da mentecatti che farneticano contro lo Stato dalle colonne finanziate da Sindona e compagni. Mentre quella di essere ladri, peculatori e corrotti, che elevo nei confronti della segreteria autrice del comunicato suddetto, è un'accusa già elevata da più magistrati, che per mio conto ritengo vera e ribadisco".

La polemica antiradicale non esita dinanzi a nulla e non rispetta nulla. La sera del 12 maggio Lorena D'Urso si presenta, armata solo del suo sgomento e della sua ansia, a una tribuna flash della seconda rete della televisione di Stato riservata ai radicali e da questa ceduta alla famiglia del magistrato prigioniero. E' un ennesimo tentativo disperato dei D'Urso per convincere le br a liberare il giudice e la stampa a procedere alla pubblicazione dei due documenti dalla quale i terroristi fanno dipendere la sorte del padre. Sono passati per Radio Radicale gli appelli della signora D'Urso e del cognato, fratello di Giovanni; è la prima e sarà l'unica volta che la famiglia D'Urso può usufruire della RAI-TV.

Lorena articola il suo intervento in tre fasi: si rivolge ai direttori dei giornali dai quali, dice, "oltre che dalle br, dipende la vita di mio padre"; alle br perché gli rendano il padre, diversamente, dice, "la responsabilità sarebbe pienamente vostra e di quelle persone che per ragioni incomprensibili o spaventose per la prima volta hanno deciso il "black-out"": e infine legge una frase di un volantino dei terroristi in cui suo padre è definito ``boia''.

Senza pensarci due volte i giornali accusano Pannella di avere ``costretto'' la figlia del magistrato a ``definire boia suo padre''. Sempre il "Corriere", che in questa campagna antiradicale fa da battistrada, pubblica un neretto riquadrato sotto il titolo di apertura in prima pagina così concepito: "Siamo dunque arrivati a questo: che sfruttando la tragedia di una famiglia, le debolezze di un governo, le divisioni di una maggioranza e il gesto da Pilato della televisione di Stato, si è portata una ragazza, la figlia del giudice sequestrato, straziata dal dolore, davanti alla televisione del secondo canale; sotto gli occhi di milioni di italiani, leggere la frase del volantino br ``il boia D'Urso'' e ad accusare di assassinio i direttori dei giornali che non intendono cedere al ricatto dei terroristi. Siamo dunque arrivati a questo: che la rischiosa dolente decisione dei massimi giornali nel respingere il ricatto dell'eversione (per sottrarre il Paese ad altri cento sequestri e ad altri mille ricatti) viene

definita un assassinio da coloro che mettono sulle labbra innocenti di una vittima un proclama di resa senza condizioni ai criminali".

L'insinuazione del "Corriere" è un falso. Sono stati i familiari di D'Urso a decidere come utilizzare tribuna flash che i radicali avevano offerto alla moglie del magistrato, e se hanno consigliato Lorena a leggere quel brano, lo hanno fatto per salvare al vita del loro congiunto, a qualunque prezzo, addivenendo alla richiesta delle br che avevano posto come condizione per la liberazione del giudice la divulgazione televisiva di quel testo.

Che alla salvezza del congiunto potessero anteporre motivi di suscettibilità o un rifiuto alla sofferenza o una preoccupazione della propria immagine o qualche parsimonia nello spendere se stessi è impensabile. La sottomissione di Lorena è dolorosamente umana, del tutto comprensibile e straordinariamente ricca nella sua umanissima mortificazione.

Sono, questi, elementi di valutazione immediatamente rilevabili. Ma la protervia e la volontà persecutoria sono tali da indurre alla ignobile utilizzazione di quella durissima prova. Alla pena di averla sopportata Lorena deve aggiungere l'altra pena di essere incompresa e penalizzata sia pure per interposta persona.

Ovviamente quella del "Corriere" e di tutto lo schieramento della ``fermezza'', che da questo momento è ragionevole chiamare schieramento del cinismo e della morte, è una menzogna. I fatti sono altri. Messo a disposizione della famiglia D'Urso il brevissimo spazio televisivo, che i radicali avrebbero potuto adoperare per rispondere alla violenza delle accuse mai potute confutare sulla stampa e dagli schermi TV, Pannella ha incontrato la famiglia solo nella sala dell'emittente di Stato pochi minuti prima della trasmissione.

Apprende qui che sarà Lorena a comparire sugli schermi e ascolta qui l'impostazione data al suo intervento. Ha più di una perplessità sulla decisione di leggere un brano del documento delle br: lo trova antieconomico, uno spreco, avendo le br chiesto la pubblicazione integrale dei due documenti, per leggere i quali occorrerebbe più di mezz'ora di tempo e non i quattro minuti disponibili.

Leonardo Sciascia, che conosce i fatti, dichiara in un'intervista a "Repubblica"; "devo ammettere che in questi giorni l'atmosfera si è molto arroventata rigenerando antiche intolleranze. Mi ha impressionato, per esempio, che i giornali abbiano attribuito all'infamia di Pannella la lettura del comunicato delle br da parte della figlia di D'Urso, in televisione. Posso dire che Pannella non c'entra per nulla, che si è trattato di una decisione della famiglia. Il PR ha offerto uno spazio televisivo a sua disposizione, e i D'Urso hanno deciso di far parlare la ragazza. Per quanto mi riguarda, ritengo che i milioni di telespettatori che hanno visto quella ragazzina leggere il comunicato in cui si dava del boia a suo padre, hanno segnato nel loro cuore la fine delle br. I giornali lo hanno preso invece come un'accusa rivolta a loro: il che poteva anche essere, in una certa misura, ma il fine era un altro, non fine polemico. Ora in presenza di queste accuse a Pannella, mi sembra di poter giustificare anche certe su

e risposte".

Giunge immediata una precisazione di Lorena: Pannella e i radicali non c'entrano, la decisione è mia e della mia famiglia. Ma è tutto inutile. I giornali non se ne danno per intesi, non raccolgono. Hanno sfruttato l'occasione e utilizzano ora la violenza dell'omissione per far valere la licenza di mentire e godere dell'impunità della calunnia.

Le 48 ore fissate dai brigatisti stanno per scadere, o forse sono già scadute. L'attesa consuma i suoi ultimi disperati minuti, se non li ha già consumati. Nelle redazioni dei giornali si sorvegliano i telefoni trepidante che squillino perché devono pure squillare, e diano l'annuncio liberatorio comunque sia, pur di farla finita. Sono solo i familiari del magistrato, o qualcun'altro come Sciascia, a non rassegnarsi, a utilizzare l'ultimo attimo. Continuano a trasmettere messaggi: ai giornali perché pubblichino, se si è ancora in tempo, e alle br perché non commettano un crimine, che anche politicamente, dallo stesso punto di vista terroristico, sarebbe un errore, un macabro errore. L'ultimo appello di Sciascia è del 14 gennaio ed è diretto da Radio Radicale, che non interrompe un solo attimo le sue trasmissioni, alle br. Ne ha fatti altri, diramati alla stampa, ma trasmettendoli sempre a viva voce da Radio Radicale, per scongiurare il black-out dopo la condanna a morte di D'Urso, per mobilitare la pietà atti

va della gente e sollecitare la razionalità nelle forze politiche. Hanno avuto il merito, i suoi appelli, di ottenere adesioni di altissimo significato umano e civile: hanno risposto aderendo alla speranza e all'auspicio della salvezza del magistrato prigioniero, e associatosi all'invito rivolto agli uomini e alle forze di buona volontà. Eleonora Moro, Stella Tobagi, Andrea Casalegno oltre a un nutrito numero di esponenti della cultura e della scienza giuridica.

I suoi appelli hanno certamente influenzato la parte più sensibile della stampa, e comunque contribuito ad incrinare il muro del silenzio e della determinazione ricattatoria della ``fermezza''.

Ora si rivolge alle br: ``non agli uomini delle brigate rosse ma a questa mostruosa astrazione che si è così denominata. E non mi ci rivolgo - precisa - in nome dei valori che da anni calpestano, né a nome dei loro pentimenti futuri. Mi rivolgo a loro ponendo questo semplice problema e lasciando che ne intravvedano, a loro momentaneo vantaggio, la soluzione. Voi avete respinto sdegnatamente di essere "strumento cieco di occhiuta" manovra altrui. Ma uccidendo a questo punto il giudice D'Urso, il dubbio, almeno il dubbio di esserlo, non vi assale? guardatevi intorno, guardatevi fra voi, riflettere se ne siete capaci. La vostra causa, la causa per cui dite di battervi, è già da tempo perduta; sarebbe una tragica beffa accorgervi domani di avere micidialmente operato per interessi da cui voi per primi sarete annientati''.

Ma un fatto imprevisto nel dettaglio e genericamente atteso al tempo stesso è accaduto il giorno prima. Giunge al direttore dell'"Avanti"!, Intini, una lettera personale di Giovanni D'Urso. La notizia trapela. Il testo della missiva si diffonde. Eccolo nelle sue parti salienti: "Signor direttore... se le scrivo è perché ritengo dover fornire a quanti possano, allo stato, non concordare con la linea da lei indicata, ulteriori elementi di concretezza, su cui potere responsabilmente meditare. Ebbene, mi sembra sia noto - ormai - che il processo a cui sono stato assoggettato si è concluso con la condanna a morte; la quale - per altro - potrà non essere eseguita qualora da parte dei più importanti quotidiani si faccia luogo alla pubblicazione dei comunicati provenienti dalle carceri di Palmi e di Trani; iniziativa, questa della pubblicazione, di cui sarebbe palese il carattere esclusivamente umanitario, sotto il profilo della necessità che caratterizza la contingenza che ne occupa, e che sarebbe di tal natura da

non coinvolgere punto alcunché o alcuno, al di fuori degli organi di stampa che intendessero realizzarla. Entrare, con argomenti, sulla questione, che presumo molto dibattuta della pubblicazione o no dei detti comunicati, non sarebbe, da parte mia, certamente opportuno. Mi sarà tuttavia consentito osservare che... il senso d'umanità dovrebbe prevalere. Da ultimo, una preghiera. Qualora non dovessi più vedere mia moglie voglia essere lei, direttore, a dirle della mia gratitudine per quello che ha fatto, su nient'altro poter contare che non fosse la forza del suo amore per me".

Contemporaneamente la signora D'Urso fa pervenire ai quattro giornali che non hanno aderito al black-out o che aderendovi in un primo tempo (è il caso del "Giorno") hanno retrocesso dalle loro decisioni, sia per pressione redazionale sia perché posti dinanzi alla possibilità di salvare, essi, la vita del magistrato ("Messaggero, Secolo XIX, Nazione, Giorno"), la richiesta di utilizzare spazi pubblicitari a pagamento per la pubblicazione dei due documenti delle br. La richiesta è difficilmente eludibile almeno per quei fogli che in passato hanno concesso spazi pubblicitari alle famiglie di altre vittime del terrorismo. Al romano "Il Messaggero", che, assieme al "Secolo XIX" di Genova, più degli altri è disponibile a concorrere alla salvezza del magistrato prigioniero, la lettera della signora D'Urso è recapitata da Franco Roccella e personalmente consegnata al vice direttore La Rocca che l'attende, mentre l'assemblea dei redattori è riunita per decidere. Il direttore del quotidiano romano si trova, così, in u

na situazione obbligata. Ed è quello che vuole. La lettera di Giovanni D'Urso a Intini dà quel segnale che egli aveva auspicato: la pubblicazione dei due documenti delle br può davvero servire, lo ammette il magistrato, a salvare una vita. La richiesta della signora D'Urso, alla quale non può rispondere negativamente per aver fatto il giornale analoga concessione in passato ai familiari di altre vittime del terrorismo, lo pone nella situazione di dover comunque ``assistere'' alla pubblicazione dei due documenti. La decisione è presa: sul numero dell'indomani "Il Messaggero" pubblicherà. E dà il via ad una analoga decisione del direttore del "Secolo XIX", che si tiene in stretto collegamento con il collega del "Messaggero" al quale si è legato nelle evenienze decisionali per la comune valutazione della vicenda e la comune determinazione operativa. Il black-out è rotto. Pubblicano anche, o hanno già pubblicato, "Il Lavoro Nuovo" di Genova, "La Sicilia" di Catania, "Il Quotidiano" di Lecce, e, salvo qualche ecc

ezione, la catena dei Diari. Non per il momento "Il Giorno", che si ripromette di pubblicare, cosa che puntualmente farà, a liberazione avvenuta.

Siamo al 14 gennaio. Forlani è atteso alla Camera per un rendiconto che potrebbe anche segnare la sua fine. Ma la maggioranza sembra orientata a tenere, sia pure formalmente e sempre sotto la minaccia di uno scioglimento anticipato del Parlamento. Pareva dovesse dilaniarsi, e si dilania, ma, sia pure con il fiato corto, si accinge ad affrontare la verifica parlamentare senza minacce esplicite di rotture.

E tuttavia, dietro la facciata, premono pur sempre contrasti e insofferenze a stento imbrigliate e comunque non mitigate da prudenze e cautele al di fuori della Camera. Nell'immediato sottofondo l'acqua ribolle. La minaccia di una rottura non è del tutto scongiurata. A meno che... Alle "13,30" arriva il comunicato n. 10 delle br: "Vi restituiamo il boia D'Urso... Non abbiamo niente né da chiedere né da barattare".

E' finita. "Abbiamo conquistato una vita - dice subito Pannella - è un giorno fausto per tutti, per tutti senza eccezione. Non abbiamo vinto ma convinto. Lo Stato non ha trattato, questa volta nemmeno con i Viglione, fino a prova del contrario. La legge non è stata violata, né contrattata. Nessuno ha ceduto nulla a nessuno. L'onestà intellettuale di qualche giornale, ultimi e primi "Il Messaggero" e "Il Secolo XIX", ha salvato anche l'immagine di una stampa che si è rivelata dominata dal partito della forca, che riunisce ormai, per la seconda repubblica, borbonici, giacobini e mestatori internazionali".

"Si stava tentando un vero e proprio golpe legale. In attesa di un cadavere, che doveva esser dato in olocausto, si stavano facendo appello perfino al Presidente della Repubblica".

"Con D'Urso vivo, la rabbia stalinista e fascista resta scoperta. Il fantasma ha preso corpo. Lo sconfiggeremo. Nelle istituzioni e nel paese. E ora si torni al regime, agli scandali del regime: questa volta le br non hanno potuto funzionare. Si raccolgano, ora, subito, le firme per l'incriminazione di Gioia, e si richiami in servizio il generale Lo Prete, per accusarlo di alto tradimento. I radicali sottolineano con gioia che ha vinto il dialogo, contro la trattativa, la fermezza e il potere. Mi si è chiesto cosa fosse il dialogo: è questo. Un atto di umanità in luogo di un assassinio".

Il fronte della fermezza è indubbiamente spiazzato. Vi pone riparo "Repubblica" che paradossalmente e in modo maldestro rivendica alla linea dura qualche merito di aver contribuito alla liberazione del magistrato. E ne chiede un grato riconoscimento tenendo fermo tuttavia il giudizio di demerito per quelli che hanno ``ceduto''. La protervia di tale giudizio, e l'ovvio bisogno di mitigare in qualche modo la smentita che alla linea dura dei giornali della ``fermezza'' oppure clamorosamente la sopravvivenza del magistrato, le cui condizioni sono state così evidentemente determinate dal ``cedimento'' della stampa ``capitolarda'', questa protervia difensiva avrà un riflesso in sede parlamentare, dove i repubblicani, con l'appoggio dei comunisti, tenteranno senza successo di proporre un o.d.g. di "riconoscimento" a favore dei giornali del black-out.

"Repubblica" - nota Franco Roccella rilevandone le contraddizioni e il paradosso - chiede un ringraziamento per aver sostenuto le posizioni che avrebbero comportato l'assassinio di D'Urso. Un grazie invece va reso a quei direttori e giornalisti che hanno dato non alla violenza assassina ma alle ragioni della vita alla democrazia il giusto e il dovuto, ricusando perciò stesso il ricatto del terrorismo, evitando di compiere gli atti di imbarbarimento sollecitati dalla strategia terrorista. Tanto più significativo il loro comportamento quanto più essi non partecipano al patto fra capitalismo parassitario - nelle due versioni del capitalismo bancarottiero sindoniano e rizzoliano e del capitalismo sofisticato della razza padrona - e schieramento della fermezza, che ripete il patto siglato fra pseudo capitalismo agrario e nascente capitalismo industriale protetto da una parte e Benito Mussolini dall'altra.

L'accenno di Pannella alla chiamata in causa del Capo dello Stato richiede un breve supplemento di resoconto. Ad invocare l'attenzione del Presidente della Repubblica in termini di attesa per un intervento non meglio precisato e motivato se non con le aspettazioni della ``fermezza'', è stato lo schieramento dei giornali di cui detengono la leadership il quotidiano di Scalfari e il rizzoliano "Corriere della Sera". Il richiamo a Pertini era per la verità ricorrente da tempo, come suggello di autenticità delle ``grida'' dello schieramento che andava dal PCI al MSI passando per il PRI, la parte zaccagniniana della DC e, sia pure in toni di maggiore prudenza, per il PSDI; e si era sempre agganciato, come abbiamo accennato, alla frase di Pertini che riferendosi al terrorismo aveva parlato di ``guerra''. A questo richiamo aveva dato nuovo alimento uno ``sfogo'' del Presidente della Repubblica che, nel corso della vicenda D'Urso, ipotizzando un suo sequestro, aveva ridotto il confronto con i terroristi ad una sfida

personale fra lui e ``loro''. Ma quello che in Pertini poteva essere una professione di forza morale, nutrita dal rigore della sua storia d'antifascista, diventava, come abbiamo detto, suggello di autenticità utilizzato a conferma senza appello di una politica di ``fermezza'' che disseppelliva le norme fasciste sull'ordine pubblico, il fermo e il potere di prevenzione della polizia, gli interrogatori discrezionali, le schedature, la facoltà di rastrellamento, la carcerazione preventiva, come condanna senza sentenza, le leggi e i tribunali speciali, la pena di morte, autorizzava e giustificava l'abrogazione di ogni area di dissenso in nome di uno stato di emergenza che Almirante, con definitiva coerenza, chiamava con più sincera proprietà, ``proclamazione dello stato di guerra''. Dell'inutilità di questa politica ai fini della lotta al terrorismo, ad eccezione di poche frange di opinione pubblica, erano consapevoli moltissimi, persino, dei suoi stessi sostenitori, che si appellavano all'opportunità e necessi

tà di dare alla esasperata inquietudine della gente una risposta. Ed altrettanto diffusa negli ambienti più avvertiti, era la consapevolezza dei suoi effetti perversi, e probabilmente irreversibili, sul nostro ordinamento democratico e giuridico, in aperta violazione dei principi costituzionali; consapevolezza non nuova dal momento che le forze di sinistra e di democrazia laica, e una parte autorevole dello stesso fronte cattolico, avevano sin qui impedito con estrema decisione che tentativi del genere andassero a segno.

Quella politica, in definitiva, finiva con l'utilizzare la motivazione anti terroristica per approdare a ben altri lidi. Che Pertini avesse in mente di autorizzare questo corso era cosa tutta da dimostrare; l'improbabilità di una ipotesi del genere, oltre che dalla coerentissima storia personale del Capo dello Stato, era smentita dalla sua costante e impietosa inclinazione a negare ogni copertura a quel malgoverno del paese e della società che aveva determinato la debolezza perdente delle istituzioni, a fronte del terrorismo come a fronte del terremoto, e cercava appunto copertura nella necessità comunque e ad oltranza della difesa dello Stato e nelle esigenze della governabilità.

La scoperta manovra di usare a questo fine l'autorità del Capo dello Stato e il credito personale di Pertini, sollecitandone l'intervento alla vigilia della soluzione del caso D'Urso e quando già si profilavano i segni propizi per la liberazione del magistrato è colta subito e senz'altro denunciata da Marco Pannella che ne rileva tutta la pericolosità.

All'appello di "Repubblica", e in genere a questa utilizzazione del Capo dello Stato, il leader radicale si oppone duramente chiamando in causa quanti intendono ricostituire ``l'atmosfera del 1921'': "da Almirante a Valiani, da Scalfari a Berlinguer il partito della forca, il partito dei giacobini e dei borbonici si è ricostituito, e ha bisogno, come il fascismo di allora, di inventare, creare, nutrire il caos, di sfornare e far sfornare cadaveri per legittimare il nuovo ``fascio'' delle forze sane e salvatrici dell'ordine.

"Solamente per questo gli assassini di non più di trenta persone in un anno sono stato posti al centro della vita del paese, della vita dello Stato. Per questo, esplicitamente, si è detto e scritto che D'Urso, ormai, serve come martire e vittima, e che si ha il dovere di non far altro che lasciarlo al suo destino. Per questo, in primo luogo Rizzoli, ha smentito in modo clamorosamente, dinanzi alla vita o alla morte di D'Urso, ogni sua prassi precedente".

"Comunisti e fascisti, un certo mondo finanziario e capitalistico internazionale, forze della P2, sindoniane, mafiose, puntano alla seconda Repubblica, al golpe strisciante che già stanno realizzando, anche con appelli espliciti al Presidente della Repubblica. Speriamo che sia la follia di un momento e che tutto questo non duri quanto la la follia delle unità nazionali che portarono lo Stato in ginocchio dinanzi al terrorismo ed allo sfascio".

Lo scontro si ripropone a liberazione D'Urso avvenuta ed è sempre Pannella a fronteggiare ``le reazioni invereconde e scomposte'' che seguono al rilascio del magistrato e che ``provano molto di più di quanto si era intuito e temuto''. "D'Urso - dice Pannella - serviva cadavere. Gli appelli martellanti al Presidente della Repubblica che venivano da due gruppi editoriali (quello sindoniano e quello che è giunto fino a pubblicare le autointerviste delle brigate rosse e i verbali degli immondi processi dei terroristi), perché intervenisse in modo straordinario nella vita delle istituzioni, non hanno questa volta potuto contare sull'infamia degli assassini. E hanno perso.

"Scalfari e Valiani, oggi, sono eloquenti. Il senatore a vita, catapultato per un errore che può rivelarsi gravissimo nella vita delle istituzioni, chiede oggi a gran voce la costituzione, in Italia, del Tribunale speciale, a somiglianza di quella Corte di Sicurezza francese che tutte le forze democratiche francesi denunciano, ormai, come intollerabile offesa alla giustizia ed alla Repubblica. Scalfari, come impazzito, mostra che il governo al quale puntava doveva aver poteri straordinari e dittatoriali contro l'opposizione radicale".

"Se non ci si intende censurare, il mio pensiero si sintetizza dunque in questo modo: Il partito della fermezza stava organizzando e sta tentando un vero golpe. Per questo, come il fascismo nel '21, ha bisogno di cadaveri. Ma questa volta, al contrario di quanto è accaduto con Moro, è stato provvisoriamente battuto. Per una volta, le br non sono servite".

Siamo alla mattinata del 15 gennaio, giorno segnato da emozioni e trepidazioni assai intense perché è venuto dalle br l'annuncio della liberazione di D'Urso ma non avviene la liberazione effettiva del magistrato che si attende invano di ora in ora.

Alla Camera si discute sul terrorismo. In questa atmosfera di tensione si apprende nel pomeriggio di una sibillina nota diramata dalla agenzia "ANSA", di questo tenore: Il Presidente Pertini segue con ``vivissimo interesse'' il dibattito in corso a Montecitorio nell'attesa che ne emergano indicazioni nuove per la lotta al terrorismo. Le domande che questa nota sollecita sono ovvie: a quali condizioni sono volte questa attesa e quest'interesse, che, contro ogni consuetudine, si vuole vengano notificati a fine scontato di sollecitazione? Cosa sollecita la nota? E quale ne è la provenienza? Pertini o genericamente il Quirinale? O l'uno o l'altro, ma in nessun caso può trattarsi di umori estemporanei colti accidentalmente dal giornalista poiché è arcinoto che l'"ANSA" si attiene scrupolosamente e rigorosamente all'autenticità delle fonti, trattandosi di quella fonte. E se è il Quirinale in che misura gli orientamenti del palazzo coincidono con quelli di Pertini? E quale è, comunque, il senso ultimo e certo di qu

ella notifica?

I radicali chiedono innanzi tutto una verifica delle fonti alle quali è stata attinta la nota. Il 16 gennaio la risposta dell'"ANSA" provoca la seguente dichiarazione di Pannella che puntualizza i termini della questione: "L'"ANSA" afferma che fonti autorizzate, istituzionalmente autorizzate, della Presidenza della Repubblica sono della nota diffusa ieri pomeriggio alle 14,32, non smentita da nessuno fino alla mia dichiarazione delle 18,30, cioè dopo 4 ore circa. Ci sono volute più di due ore ancora, perché l'ufficio stampa del Quirinale intervenisse non chiarendo nulla, limitandosi a confermare quanto già si sapeva: di non trattarsi di una ``nota ufficiosa'' della Presidenza né di un comunicato. Ribadisco quindi, più allarmato ancora, i miei interrogativi di ieri. Chi ha ieri, e perché, dato all'"ANSA" le informazioni che l'"ANSA" conferma? Perché le ha date? Perché si è ritenuto opportuno e necessario far sapere che il Presidente Pertini segue con ``vivissimo interesse'' il dibattito parlamentare, sin dall

a sera precedente, determinando unanimi interpretazioni politiche, anche se non univoche, che hanno in qualche misura gravato sul dibattito stesso? Cosa significa che dal dibattito vengono indicazioni nuove sulla lotta contro il terrorismo? Non si rende conto la ``fonte'' della Presidenza, di avere compiuto una indelicatezza e una indiscrezione, equivoche, nei confronti del Presidente e dato adito a ritenere che in qualche modo si intendesse così rispondere ai tentativi smaccati di coinvolgere il Presidente in una campagna politica di parte, di rispondervi accreditando questa campagna e i suoi oscuri obiettivi? Per tutto questo, ci pare, è necessario sapere di più. La ``fonte'' è stata anche per l'occasione specificamente autorizzata? Il silenzio su questo punto è forse assenso? Ci rifiutiamo di crederlo".

Ma le dichiarazioni di Pannella, in deroga alla prassi rigorosa seguita sempre dall'"ANSA", non vengono rilasciate né da questa né dall'altra delle due maggiori agenzie di informazione, l'"Italia". Solo la minore "AND-KRONOS" ne dà degli estratti.

La censura è evidente così come è del tutto inconsueta e del tutto ingiustificata dato lo spessore della questione. "E' difficile a questo punto - nota Pannella - credere che non sia lecito ritenere che, negli ambienti del Quirinale, vi sia chi sta cercando di impedire al Presidente di conoscere e accertare le responsabilità. Ed è allarmante il riflesso delle due Agenzie... Se la Presidenza della Repubblica non sa nulla di questa ultima parte della vicenda depreco ovviamente che la censura abbia funzionato in tutti i sensi. Ma gli interrogativi che ho posto esigono ora una risposta. Altrimenti dovremo chiedere all'opinione pubblica di sollecitarla anch'essa, informandola attraverso i mezzi di comunicazione liberi e democratici".

Pannella insiste l'indomani, 17 gennaio, precisando scopertamente e in modo definitivo la sua denunzia: C'è "più di una talpa, al Quirinale, che lavora per la seconda Repubblica contro quella cui Pertini cominciava a dar corpo, quella costituzionale e antifascista... Ma che ``La Repubblica'' sia lasciata sempre più millantare credito e informazioni, come se fosse ormai la Gazzetta Ufficiosa del Presidente, al punto che fra poco pubblicherà vere o false minute di minute presidenziali, e la raccolta di testi di pretesi messaggi e lettere scritti, pensati ma non resi pubblici diventa allarmante. Speriamo che non accada al Presidente Pertini di doversi un giorno accorgere, come quando era Presidente della Camera, che lo avevano circondato persone e metodi pericolosi e per lui intollerabili".

Questo inquietante capitolo della vicenda D'Urso si conclude il 16 gennaio. Pertini scrive a Forlani: "Caro Forlani, al termine del dibattito parlamentare che si è oggi concluso con la fiducia al governo che tu presiedi, constato che, mentre per opera di fuorilegge con il terrore si cerca di scardinare la democrazia nel nostro paese, le forze politiche democratiche, gli italiani, dimostrano di voler difendere con fermezza le nostre libertà. Desidero esprimere la mia piena solidarietà alle forze dell'ordine, carabinieri e polizia, che senza badare alle loro persone affrontano con coraggio il terrorismo. Il popolo italiano deve essere riconoscente a questi uomini devoti fino al sacrificio della propria vita al giuramento di fedeltà alla democrazia e alla Repubblica. Gratitudine esprimo anche ai magistrati che con intelligenza, coraggio e tenacia, in piena osservanza dei principi della nostra civiltà giuridica difendono quotidianamente contro l'attacco terroristico il nostro libero ordinamento. Riconfermando a

te la mia fiducia e la mia solidarietà ti saluto molto cordialmente". "La lettera del Presidente della Repubblica al Presidente del Consiglio - commenta Pannella - costituisce una volta di più un atto di immensa correttezza e sensibilità, esemplare. Coloro che hanno cercato o cercano di coinvolgere in giochi di fazioni il Presidente Pertini sono serviti, a iosa. Il 15 gennaio 1981 - aggiunge il leader radicale riprendendo una definizione coniata dal fronte della ``fermezza'' - è stato forse un 8 settembre: ma per loro, non per la Repubblica".

Il 18 gennaio Partito e Gruppo radicale chiedono al Presidente della Repubblica di essere ricevuti (e lo saranno di li a poco) "per esprimergli nuovamente le proprie convinzioni e i propri sentimenti di integra e profonda fiducia, per ringraziarlo di quanto egli ha fatto e fa per la vita della Repubblica e di tutti i suoi cittadini, per la fermezza con la quale tiene fede e incarna la Costituzione, e infine per fornirgli una ampia documentazione su fatti che profondamente preoccupano i radicali e i cittadini che essi rappresentano e che forse non sono stati resi noti al Presidente della Repubblica".

Torniamo all'annuncio della liberazione D'Urso e alla aspettazione tesissima del suo effettivo rilascio. Il magistrato sarà realmente recuperato la mattina successiva, 15 gennaio.

La mattina del 14 passa in un'attesa che via via si accentua e si carica di tensione e di crescente apprensione. La notizia del ritrovamento del prigioniero ``liberato'' in via di Valle Aurelia si smorza lentamente, agonizza e si spegne, a fine mattinata. Si è trattato di un equivoco. L'uomo ritrovato non è D'Urso; è un operaio ferito a seguito di una caduta da una impalcatura. Ma la precisazione si ottiene con enorme stento e risulta inspiegabile il lungo tempo adoperato per una facile identificazione oltre al silenzio ostinato che lo ha protetto. A casa D'Urso si brancola nell'ignoranza di notizie; e anche questo non si spiega facilmente. Le fonti che sanno temporeggiano navigando stranamente in risposte evasive. Le autorità che dovrebbero sapere non sanno e non riescono a sapere. L'improbabilità di una situazione del genere sollecita un'inquietudine crescente sino a suggerire diffidenza e sospetti. E' naturale.

Il pomeriggio del 14 è vuoto. Ed è in questo vuoto che l'apprensione si inspessisce trainando, trainando presagi tristissimi. Circola a Montecitorio la convinzione che l'annuncio delle BR si riduca ad una lugubre beffa. Ma non è lugubre né triste il tono di quanti, fra le fila dello schieramento della ``fermezza'', enunciano questa ipotesi. Non certo compiaciuta, ma di sollievo.

Allora dove è finito D'Urso? Già assassinato dalle br? Sarebbe la prima volta che i terroristi tradiscono il truce ed orgoglioso rispetto della loro parola. Che si tratti piuttosto di un diversivo da essi messo in atto per avere libertà di movimento nell'operazione di rilascio? Può darsi. O il rilascio è già stato eseguito? E in tal caso quali interessi occulterebbero l'avvenuta liberazione? E a quale fine?

E' il silenzio inspiegabile, ambiguo, inquietante di quanti sanno per avere le responsabilità operative dirette, che suggerisce la tentazione del sospetto. Sono i passi perduti del Ministro della difesa, Lagorio, e di Bettino Craxi, che vanno incessantemente su e giù per il Transatlantico con espressione chiusa e cupa, nella totale ignoranza di quanto realmente accade, che lasciano interdetti. E' il mutismo o l'evasività del Ministro dell'interno Rognoni, rintanato nel suo ministero, che disorienta.

E' in questa atmosfera che Marco Pannella dà voce all'inquietudine crescente: "in queste ore di attesa e di angoscia, perché nulla più sembra essere affidato alle nostre mani, alla nostra possibilità di impegno e di azione, ho misurato quanto devastata sia in ciascuno di noi, almeno in me, la speranza che il nostro sia uno Stato quale sappiamo che deve e può essere, quale dovrebbe e potrebbe essere, quale lottiamo perché sia, contro coloro che lo vogliono violento e putrido. Ho constatato che ora temo la morte per pallottola ma anche quella per pillola. E' un orrido pensiero che laicamente confesso, per superarlo, per sconfiggere quel tanto di disperazione rispetto al regime che un tale pensiero rivela. Se altri non ne sono sfiorati mi felicito con loro e, per una volta, li invidio".

L'attesa e l'angoscia dureranno sino al mattino dell'indomani, quando sopravvengono le conferme dell'avvenuto rilascio e del ritrovamento effettivo del magistrato. Senza possibilità di dubbio. Lo conferma il magistrato che predispone l'interrogatorio di D'Urso; lo confermano i familiari che lo hanno riabbracciato; lo confermano i giornalisti che hanno constatato di persona. Giovanni D'Urso è tornato; vivo.

Ci chiediamo: avrebbe avuto questa felice conclusione la sua avventura senza l'azione svolta dai radicali? Sarebbe sopravvissuto senza l'iniziativa testarda di chi ha posto il rispetto della vita di un uomo al di sopra di ogni rischio, di ogni tornaconto, di ogni strumentalizzazione? Sarebbe tornato senza l'ostinata presunzione dei radicali di portare su terreno scoperto il gioco delle responsabilità e il confronto dei convincimenti, la coscienza dei fini e il calcolo degli infingimenti, la lettura spietata delle strategie e delle manovre? Sarebbe andata come è andata se un gruppo di ``cialtroni'', di ``avventurieri'', di ``demagoghi'', di ``destabilizzatori'', di ``complici'' non avessero investito nell'azione politica i loro pregi e i loro difetti, i loro vizi e le loro virtù? Dei difetti e dei vizi soprattutto essi si fanno carico rivendicandoli come segno delle loro diversità, ``incomprensibili'' certo, ma solo perché respinge ciò che essa significa e configura: alternativa di scelte, di contenuti, di me

todi, di cultura.

Quest'urto del confronto ha certamente contribuito a determinare l'asprezza della polemica antiradicale in un caso che, come quello D'Urso, ha posto i termini della scelta in misura ultimativa.

Ma non tutte le funzioni e le prudenze sono cadute. L'epilogo polemico che ha investito il deputato radicale De Cataldo e il Ministro della giustizia Sarti ne è un indice evidente, tranne che il comportamento di Sarti sia stato ispirato alla semplice e mediocre prudenza del barcamenarsi, con ovvia indifferenza verso la posta che era in gioco.

Questi i fatti. Intervenendo alla Camere il Ministro in questione formula la minaccia di un ricorso alle vie legali a carico dei radicali che hanno visitato le carceri di Trani e di Palmi ed esprime sui comportamenti da essi tenuti in quella visita giudizi di riprovazione. De Cataldo chiarisce subito che l'atteggiamento dell'on. Sarti è contraddittorio avendo questi, senza alcuna sollecitazione da parte radicale, incoraggiato quelle visite. Un comunicato dell'"ufficio stampa del Ministro" diffonde il 19 gennaio la seguente dichiarazione: "il Ministro Sarti respinge nettamente le illazioni che l'on. De Cataldo tenta di suggerire con la sua dichiarazione, né riconosce a De Cataldo il diritto di mettere in dubbio la serietà della sua condotta politica e personale. Come chiunque può facilmente immaginare, nelle scorse settimane il Ministro ha incontrato numerose persone, nella propria abitazione, per inciso assai prossima a quella di De Cataldo, o al Ministero, e, con cortesia a quanto pare mal indirizzata, anch

e l'avv. De Cataldo. Ma con nessuno, né con De Cataldo né con altri, il Ministro ha assunto posizioni diverse da quelle illustrate al Parlamento: posizioni che si riassumono nella linea della difesa della legalità e del fermo, rigoroso rifiuto di ogni e qualsiasi tipo di rapporto con i terroristi. Come lo stesso De Cataldo è costretto ad ammettere, il Ministro Sarti, proprio nella sua responsabilità di Ministro della Repubblica, invitò De Cataldo a non pubblicare alcun documento dei terroristi. Non si vede, dunque, a che cosa risponde, se non a un tentativo di strumentalizzazione che il Ministro respinge seccamente, l'odierna dichiarazione di De Cataldo. Il Ministro conferma, infine, il suo giudizio negativo sul comportamento tenuto dai radicali nelle carceri di Trani e Palmi: un comportamento sul quale, accanto agli organi competenti, è soprattutto il Parlamento che deve pronunciarsi, poiché i parlamentari, a norma dell'art. 67 della legge carceraria, possono accedere liberamente agli istituti penitenziari"

.

Pronta risposta di De Cataldo, che riportiamo integralmente per la cronaca che contiene: "Il 23 dicembre 1980, su suo invito, alle ore 17,45, mi sono incontrato con il Ministro Sarti, in via riservata, per sua richiesta. Tale incontro, malgrado l'ora del tutto normale per ogni attività di ufficio, avvenne nell'abitazione privata del Ministro. In tale occasione, il Ministro mi informò che l'indomani mattina avrebbe iniziato un primo sgombero dell'Asinara, chiese e sollecitò i nostri e miei consigli. Gli ribadì che non si trattava di ``trattare'' né di ``cedere'' alcunché, ma di adempiere quanto era obbligo del Governo adempiere, e - sul piano politico - ``dialogare'', cioè avere iniziativa politica e propagandistica nei confronti e contro le br.

"Il Ministro auspicò che il contatto così preso fosse mantenuto".

"Il 28 dicembre, alla notizia della rivolta di Trani, cercai il Ministro. Parlai telefonicamente con lui a fine mattinata, mi sembra mentre egli era a Palazzo Chigi, e gli anticipai la nostra intenzione di riunirci - come Gruppo - malgrado le ferie natalizie - per eventualmente recarci a Trani. Commentò che questa poteva esporci a pericoli, vista la gravità della situazione".

"Il 6 gennaio, mentre ero nel carcere di Trani, con i colleghi Teodori, Pinto, Spadaccia e Stanzani, fui raggiunto da un messaggio urgente del Ministro, che chiedeva di parlarmi. Ero all'interno del carcere, all'infermeria. Lo chiamai più volte al numero lasciatomi, con qualche ritardo, finché - alla presenza del direttore del carcere - potemmo parlarci. Mi chiese della situazione e gli esposi il mio punto di vista, con riferimento alla situazione dei detenuti. Restammo d'accordo d'incontrarci l'indomani a Roma".

"A Trani un detenuto, nel corso della visita, alla presenza del direttore del carcere e altri (agenti di custodia) mi consegnò un foglio di carta, che non lessi sull'istante".

"Era il ``comunicato''. Quando potei, con i miei colleghi, gettarvi uno sguardo, annunciai al direttore che era mia intenzione, l'indomani, darne conoscenza personalmente al Ministro, lasciandone solamente copia fotostatica, in busta chiusa al direttore stesso".

"L'8 gennaio alle 9,45 sempre a casa del Ministro, sempre per sua scelta, avvenne un altro colloquio. Gli mostrai il ``comunicato'', annunciandogli che nel frattempo il Gruppo radicale aveva deliberato di renderlo pubblico, sotto la sua responsabilità. Il Ministro, sorridente, mi sottolineò che quale Ministro della Repubblica non poteva non chiedermi, invece, di astenerci dal pubblicarlo. Gli ribadii la nostra decisione (che fu posta in essere solo dopo diverse ore): non vi fu nessuna insistenza, nessuna esposizione di merito dei motivi per i quali la pubblicazione veniva sconsigliata. Gli comunicai che avremmo immediatamente iniziato la procedura per realizzare anche la visita a Palmi, dove in effetti mi recai, con Pannella, alla fine della settimana".

"Questi i fatti. Anzi alcuni fatti che, essendo del tutto leciti, del tutto relativi a fatti assolutamente leciti e anzi doverosi, del tutto estranei a qualsiasi trattativa o patteggiamento o cedimento né dello Stato né di altri, per noi avevano il significato di quella unità responsabile e democratica che, su eventi di fondo, riguardanti il diritto e la vita, in una Repubblica di democrazia politica non può non unire opposizione e governi".

"Il Ministro Sarti ritiene ora di dichiarare a chi cerca di linciare il partito e il Gruppo parlamentare radicale che più di ogni altro hanno concorso a salvare la vita di D'Urso, e - per quanto possibile - la stessa dignità dello Stato che il nostro comportamento non è stato né lecito né leale".

"Dinanzi a tale squallida mancanza di pudore e di senso dello Stato e della dignità civile e personale, non abbiamo difficoltà - noi - a fornire al giudizio dell'opinione pubblica ed a quello politico del Parlamento i fatti sui quali è ora necessario fare interamente luce".

"Ora, al Ministro Sarti, non resta che l'arduo compito di dimostrare quanto afferma e che diciamo il falso, o di dimettersi".

"Il Ministro Sarti - aggiunge Pannella lo stesso giorno - respinge quel che gli scomoda. E' comprensibile ma anche patetico e risibile. I fatti che egli conferma sono questi: 1) che egli ha invitato a casa sua il deputato radicale De Cataldo; 2) che egli ha comunicato (non al Parlamento, non al Governo, non ad altri gruppi - a meno di smentita) che l'indomani avrebbe evacuato - finalmente? - dei detenuti dall'Asinara, sensibile alle richieste delle br tanto quanto era stato sordo a quelle dei radicali e in definitiva del Parlamento; 3) che egli ha seguito lo svolgimento della visita, del tutto legale e legittima, non solo nel principio ma nella conduzione, dei parlamentari radicali al carcere di Trani; 4) che egli ha avuto tutto il tempo ed il modo di preavvisare l'autorità giudiziaria della esistenza di un documento che avrebbe potuto essere sequestrato, prima che venisse reso pubblico; 5) che egli ha usufruito da parte della opposizione radicale di una preconcetta fiducia, relativa quanto meno alla sua lea

ltà sia nei confronti dello Stato sia nei confronti dei radicali, a quanto pare mal riposta, così come la cortesia di accettare di incontrarlo nella sua privata abitazione, invece che nel suo ufficio; 6) il Ministro conferma, anche, il suo tentativo di pregiudicare l'inchiesta ministeriale, per ciò stesso ormai invalidata, sull'operato dei parlamentari radicali a Trani, che il Ministro ha direttamente seguito, e incoraggiato finché la sua viltà non l'ha ora indotto a cercare di sconfessare".

Fermiamoci qui, per economia di cronaca, anche se il caso D'Urso è tutt'altro che chiuso.

Conclusa certamente è la vicenda del magistrato e gli accadimenti politici che l'accompagnano. Ma il sequestro e la sopravvivenza del giudice hanno dato valore ultimativo, nel nostro Paese, ad uno scontro di civiltà e di culture, e dunque a uno scontro politico destinato a durare.

 
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