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Vecellio Valter - 1 marzo 1981
LA PELLE DEL D'URSO: (4) I Giornali siete voi (prima parte)
di Valter Vecellio

SOMMARIO: L'azione del Partito radicale per ottenere la liberazione del giudice Giovanni D'Urso rapito dalle "Brigate rosse" il 12 dicembre 1980 e per contrastare quel gruppo di potere politico e giornalistico che vuole la sua morte per giustificare l'imposizione in Italia di un governo "d'emergenza" costituito da "tecnici". Il 15 gennaio 1981 il giudice D'Urso viene liberato: "Il partito della fermezza stava organizzando e sta tentando un vero golpe, per questo come il fascismo del 1921 ha bisogno di cadaveri, ma questa volta al contrario di quanto è accaduto con Moro è stato provvisoriamente battuto, per una volta le BR non sono servite. La campagna di "Radio Radicale che riesce a rompere il black out informativo della stampa.

("LA PELLE DEL D'URSO", A chi serviva, chi se l'è venduta, come è stata salvata - a cura di Lino Jannuzzi, Ennio Capelcelatro, Franco Roccella, Valter Vecellio - Supplemento a Notizie Radicali n. 3 - marzo 1981)

I Giornali siete voi

di Valter Vecellio

"Lettori di questi giornali della morte, che oggi si erigono a giudici del destino di mio marito, vi chiedo di farvi sentire... Gridate forte con la vostra voce, ché i giornali siete voi, voi che li comperate, voi che li leggete, voi che li scrivete".

Franca D'Urso"

(telefonata a Radio Radicale, 13 gennaio)

"Chi fa la professione del giornalista compie delle scelte sulle informazioni ogni istante della sua giornata di lavoro e pubblica non più del 50% delle notizie che arrivano sul suo tavolo... Fare dunque appello in un caso come questo alle responsabilità e alla selettività dei giornalisti è pleonastico, poiché responsabilità e selettività (spesso sbagliando, s'intende), fanno parte integrante della nostra professione... Proprio perché pleonastico esso può nascondere un'insidia. Ci s'invita alla cautela, all'accertamento scrupoloso delle fonti, alla verifica dell'autenticità dei documenti? Cioè ci si invita ad applicare i canoni della nostra professionalità? Giusto ma ovvio. O ci s'invita invece a non pubblicare notizie sgradite, inquietanti, che possono dividere gli animi e accrescere lo smarrimento?... Ma quali potrebbero mai essere le notizie ``che possono dividere gli animi''? Non quelle dei metodi efferati che i terroristi impiegano... Non le eventuali ``confessioni'' che Moro potrebbe fare nel corso del

l'infame processo... non costituirebbero comunque alcuna prova e non confermerebbero alcuna tesi... Il timore è che, dietro il pretesto dell'eccezionalità s'invochi e si pretenda un unanimismo che valga non solo per il presente ma sopra tutto per il futuro e per il passato...".

E' un brano di un editoriale di Eugenio Scalfari, il direttore de ``La Repubblica'', scritto nel marzo del 1978, in pieno sequestro Moro. ``La Repubblica'', allora, condusse un'inchiesta, pubblicata il 22 marzo, sulla questione: pubblicando i messaggi - più propriamente, allora, si parlava di una ``confessione'' di Moro - i giornali, si riducono a cassa di risonanza dei terroristi?

Furono interpellati i direttori di undici quotidiani. La domanda: "Che cosa fareste, se in redazione arrivasse un nastro con la ``confessione'' di Moro?".

Soltanto Arrigo Levi, all'epoca direttore di ``La Stampa'', e Alberto Sensini, che dirigeva ``La Nazione'', risposero che non lo avrebbero pubblicato. Levi, in particolare, rispose con un'altra domanda: "Se il nazista Goebbels ti mandasse l'interrogatorio del leader socialdemocratico, fatto nel campo di sterminio di Buchenwald, tu lo pubblicheresti? Io tratterei la ``confessione'' di Moro allo stesso modo, poiché verrebbe da una fonte, le BR, altrettanto screditata quanto Goebbels... Darei la notizia dell'interrogatorio e basta, senza il testo". Non dissimile, la risposta di Sensini: "Mi limiterei a dire ai lettori: ci è arrivata una confessione che riteniamo estorta con la violenza o con gli psicofarmaci. Questa ``cosa'' non è una notizia, bensì un falso. E come tale, non va pubblicato". In sostanza: una notizia (è quello che dice Sensini) non è tale se viene da una fonte ``screditata'' e/o se è considerata falsa. Come principio non è male, peccato che né Sensini né Levi si preoccupano di risolvere la lieve

questione: quali sono, i criteri per cui si decide se una notizia è falsa, e chi poi lo decide?

Degli altri nove direttori, sette (e si tratta dei direttori del ``Secolo XIX'', ``Paese Sera'', ``Resto del Carlino'', ``Giornale Nuovo'', ``Giorno'', ``Messaggero'') rispondono che pubblicherebbero la ``confessione'', con un preambolo in cui si avvertirebbe il lettore che Moro è stato sottoposto a violenze fisiche e/o morali, ecc. I direttori del ``Tempo'' e di ``Stampa Sera'' rispondono con un evasivo ``non lo so''; il direttore del ``Corriere della Sera'' Di Bella, dice: "Valuterei sul momento, tenendo presente ciò che fanno gli altri giornali... E' un caso di coscienza che va molto al di là delle forze di una singola testata... Siamo tutti in trincea. Siamo esposti alle pallottole... Le BR non sparano solo con le pistole Nagant: sparano con il ``Corriere'', con ``Il Giornale'', con ``La Repubblica''...".

Siamo, dicevo, nel marzo 1978, nel mezzo del sequestro Moro.

Ora, credo sia opportuno fare un salto fino ai giorni nostri. Quello che veniva dibattuto astrattamente (vale a dire la pubblicazione di un interrogatorio di un ``prigioniero'' delle Brigate Rosse), diventa realtà. Il settimanale ``L'Espresso'', nel primo fascicolo del 1981 pubblica un'esclusiva: ``L'interrogatorio delle Brigate Rosse a Giovanni D'Urso'' e un'intervista con i rapitori. Un servizio che costa l'arresto a due redattori del settimanale, Scialoja che l'ha firmato e Bultrini che avrebbe avuto per primo il ``contatto'' con i terroristi.

La notizia, anticipata dalle agenzie, viene ampiamente riportata da tutti i quotidiani; i titoli sono a caratteri cubitali, a tutta pagina. Nell'ultima edizione del 1980, il quotidiano di Scalfari, a giudicare dal taglio dato all'avvenimento, non sembra affatto dolersi dello ``scoop'' giornalistico realizzato dall'``Espresso''. Il titolo è ``sparato'' con grossa evidenza, e nelle pagine interne lo spazio riservato all'anticipazione è considerevole. Il giorno dopo, nell'edizione del 2 gennaio 1981, quando si diffonde la notizia che il sostituto procuratore della Repubblica Sica aveva disposto l'arresto di Scialoja, colpevole di ``favoreggiamento'' e ``falsa testimonianza'', il direttore del quotidiano di piazza Indipendenza chiarisce qual è la sua opinione in articolo non firmato (``Se capitasse a uno di noi...''); scrive, tra l'altro:

"...Non siamo tenuti, come nessun cittadino lo è da un punto di vista strettamente giuridico, ad informare la polizia quando entriamo in contatto con un criminale. In anni lontani, quando l'autorità godeva d'una sacralità che oggi ha largamente perduto, un giornalista riuscì ad intervistare nel suo covo il bandito Giuliano: fu ``fermato'' dalla questura per favoreggiamento e poi rapidamente scarcerato, proprio perché il fatto, di per sé, non configura alcun reato penalmente perseguibile. Se, in circostanze analoghe, invece che d'un giornalista si trattasse, per esempio di un avvocato, e questi consegnasse alla polizia un suo cliente latitante, si avrebbe addirittura la sua espulsione dall'Ordine professionale: basta soffermarsi su questo aspetto della questione, per aver la conferma della sua estrema complessità.

Nel caso dei giornalisti dell'``Espresso'', essi hanno avuto la possibilità di mettere la polizia su una ``traccia'' ovviamente a condizione di prestarsi a far da esca perché la trappola potesse funzionare, con tutti i rischi del caso. Non hanno ritenuto di farlo. Da un punto di vista giuridico, non sembra che siano per questo, perseguibili. Dal punto di vista della deontologia professionale, non sono criticabili. Dal punto di vista della coscienza morale, il giudizio diventa del tutto soggettivo. Ma, per quello che può valere l'opinione ``da collega a collega'', noi riteniamo che essi avrebbero dovuto informare il magistrato non appena entrati in contatto con la banda dei rapitori di D'Urso. E ci dispiace che non l'abbiano fatto".

E' un dispiacere, quello di Scalfari, che non gli ha impedito, come riferisce ``L'Europeo'' del 19 gennaio, di partecipare al brindisi con il quale a via Po, i pochi redattori di turno presenti, festeggiano il ``colpo'' realizzato da Scialoja.

Dicono all'``Espresso'', che l'editoriale su ``La Repubblica'' è stato "lo schiaffo che ci ha fatto più male".

Questa dicotomia di comportamento si spiega con il fatto, probabilmente, che in Scalfari si dev'essere verificato un simpatico sdoppiamento: a brindare c'era lo Scalfari secondo azionista dell'``Espresso'', con il 22%, dopo Caracciolo (che ne ha il 44%); mentre lo Scalfari che condanna e manifesta il suo rammarico per la mancata denuncia è il ``giornalista'', direttore del giornale che, come ha detto Pannella, vorrebbe essere la ``Gazzetta ufficiosa'' del Quirinale.

E' questo solo un piccolo episodio, di una ``storia'' che ha molti capitoli e va ``letta'' in più d'una angolazione. Una ``storia'' che è piena di contraddizioni come questa, che abbiamo appena descritta. Contraddizioni inspiegabili, o meglio, ``spiegabilissime'', di politici e di gruppi editoriali-finanziari, potenti e prepotenti; un ``partito'', bollato dalla signora D'Urso con felicissima definizione, ``della morte''; uno schieramento editoriale che ha fatto sua la tesi del silenzio-stampa, della spina da staccare, utilizzando come idolo e feticcio quanto, da Toronto, l'esperto in comunicazioni di massa Marshall McLuhan aveva detto in un'intervista al quotidiano ``Tempo'', durante il sequestro Moro; una lettura partigiana e volutamente rafforzata, dal momento che McLuhan non si era limitato a teorizzare solamente il black-out; o si stacca la spina, e la si stacca del tutto, aveva detto, non dando nessuna notizia, oppure la si lascia nella presa, e allora il fenomeno ``terrorismo'' va trattato con la massi

ma ampiezza e la massima spregiudicatezza.

Ma questa seconda ipotesi, non l'ha pubblicata nessuno. Sbaglierò, ma ricordo d'averne letto un cenno solamente in una risposta data da Franco Fortini, intervistato dal ``Messaggero''.

Alessandro Silj, un sociologo autore di un libro prezioso, e, purtroppo non conosciuto come invece meriterebbe (parlo di ``Brigate Rosse-Stato; lo scontro spettacolo nella regia della stampa quotidiana'', ed. Vallecchi; "una delle letture più istruttive e sollecitanti che si possono fare", ne dice Leonardo Sciascia), sostiene che il black-out "non soltanto è impossibile: è soprattutto inutile. Le inchieste serie, le notizie esatte, le analisi approfondite dei meccanismi di funzionamento della lotta armata, non rappresentano cassa di risonanza ma in certi casi possono perfino smontare i miti. Non è certo l'informazione che fa il gioco delle BR, ma un certo modo teatrale di gestire la notizia". Silj giustamente porta ad esempio le tre pagine di media che per due mesi i quotidiani italiani hanno dedicato al caso Moro, pagine piene di notizie a sensazione; di interviste a improvvisati esperti in brigatologia; di inchieste su aspetti suggestivi ma insignificanti e secondari della vicenda.

Ecco, quello che cercheremo di dimostrare è come ancora una volta (a parte rare, significative, eccezioni) la stampa quotidiana non abbia fatto informazione; non abbia fornito ai lettori analisi esatte; inchieste serie. In questo senso, il black-outo c'è stato. Ma non tanto perché ci si è rifiutati di pubblicare questo o quel documento dei terroristi; piuttosto il black-out si è risolto in una feroce non-informazione, o peggio in una sistematica distorsione dei fatti e della verità, a proposito delle iniziative di quanti, come i radicali, agivano per salvare al vita a D'Urso e salvare, contemporaneamente, quel minimo di decenza e di senso dello Stato che è sopravvissuto a trent'anni di regime democristiano.

Se ne sono dette e fatte tante. La decisione di chiudere il supercarcere dell'Asinara è stato definito un cedimento dello Stato. Ma chiudere la ``Bastiglia'' o la ``Cajenna'' d'Italia, come qualcuno chiamava l'Asinara, era decisione che il governo, dice il ministro di giustizia, Sarti, aveva preso da tempo. E in effetti, risalgono a più di un anno fa le testimonianze di parlamentari e intellettuali che giudicarono quel carcere inutile e inumano. Che i brigatisti abbiano cercato di fare della chiusura dell'Asinara un simbolo analogo a quello che gli illuministi per un paio di generazioni fecero della Bastiglia, nessuno lo vuole negare; che lo Stato repubblicano ne dovesse fare un simbolo del tenerlo aperto, come attestato e prova di ``fermezza'', è molto discutibile e poco convincente. Mentre è certo che se si deve rimproverare qualcosa, non è che l'Asinara sia stata chiusa e smantellata, ma che queste operazioni siano state fatte così tardi.

Si è eccepito anche sulla liberazione di Gianfranco Faina, da più mesi paralizzato nel suo letto, e morto un mese dopo la sua liberazione. Evidentemente per i paladini della fermezza, Faina doveva morire in carcere. Senza scomodare le categorie morali (``Pietà l'è morta'', si potrebbe ben osservare), anche qui si deve osservare che se qualcosa si vuole eccepire, è che il provvedimento sia giunto tardi.

Le visite dei parlamentari radicali nei supercarceri di Trani e di Palmi hanno costituito (e constituiscono ancora), grosso motivo di polemica. Ci sono rivolte in carcere, detenuti esponenti del terrorismo che le hanno guidate ed ispirate. Ma per gli ``intransigenti'' è cosa fuori dal mondo che deputati e senatori vadano a cercare di capire, interrogare, conoscere. L'illecito, nell'azione dei radicali, consisterebbe nel fatto che si sono fatti veicoli dei messaggi dove tra l'altro si esaltava l'assassinio di Enrico Galvaligi. Nessuno vuole negare quell'esaltazione. Ma oserei dire che rendere pubblici quei documenti era quasi un dovere; non solo perché, in primo luogo, si tratta di un obbligo di informazione; soprattutto perché è opportuno far conoscere qual è la posizione ideologica dei gruppi eversivi terroristici, in quanto ciò provoca la reazione dell'opinione pubblica, che è di indignazione. Non credo che ci sia stato qualcuno che abbia fatto domanda di immissione nelle BR perché ha ascoltato da ``Radio

Radicale'' o letto su ``Lotta Continua'' o sul ``Messaggero'' e ``Il Secolo XIX'' i comunicati di Palmi e Trani.

Si è imbastita poi una volgare polemica sull'apparizione di Lorena D'Urso in televisione, costretta, come hanno detto alcuni giornali, da Pannella a leggere dei testi nei quali si definiva ``boia'' il padre. E qui risponde, ottimamente, Leonardo Sciascia: "Ritengo che i milioni di telespettatori che hanno visto quella ragazzina leggere il comunicato in cui si dava del ``boia'' a suo padre, hanno segnato nel loro cure la fine delle BR".

Come si vede, di carne al fuoco ce n'è tanta. Un ministro repubblicano intervistato dall'``Europeo'', Giorgio La Malfa, ha definito Pannella e i suoi amici "una banda di sciacalli, fiancheggiatori e megafoni dei terroristi". Ecco: quella che segue sarà la storia, attraverso i giornali, di come la ``banda di sciacalli'' ha saputo far fronte al partito "della forca e dello sfascio, dei giacobini unificati", come lo ha bollato Pannella. Uno schieramento che chiedeva e reclamava il cadavere di D'Urso, perché, "come il fascismo nel '21 ha bisogno di cadaveri", e che stava organizzando e sta tentando un vero golpe. "Un partito", dice ancora Pannella fatto di "comunisti e fascisti, un certo mondo finanziario e capitalistico internazionale, forte della P2, sindoniano, mafioso, che punta alla seconda Repubblica, dopo aver assassinato la prima". Un partito che per ora è stato fermato e battuto, dal momento che per una volta, le BR, al contrario di quanto è accaduto con Moro, non sono servite.

IL RAPIMENTO

La sera del 12 dicembre, undicesimo anniversario delle bombe fasciste di piazza Fontana, a Milano, che segnano il tragico inizio di una stagione di violenza non conclusa a oltre dieci anni di distanza, e sulle cui responsabilità, ancora, nulla si sa, nero su bianco, viene rapito dalle Brigate Rosse il consigliere di Cassazione Giovanni D'Urso, direttore dell'ufficio terzo della direzione degli istituti di prevenzione e pena.

Le BR rivendicano il rapimento alle ore 22,15, con una telefonata al centralino del ``Messaggero''. Il rapimento era avvenuto un paio d'ore prima, in tutta tranquillità, si può dire, dal momento che nessuno si era accorto di nulla; il dispositivo di allarme, infatti, scatta solamente dopo la telefonata. I giornali, l'indomani, colti completamente impreparati e, data l'ora tarda, a fatica trovano ``spazi'' per la notizia improvvisa. Valga, per tutti, ``La Repubblica''; nell'edizione del 13 dicembre il rapimento viene, naturalmente, annunciato in prima pagina: ma è ``affogato'' in altre notizie e titoli: il governo in difficoltà per le violente critiche dovute agli inasprimenti fiscali; i due brigatisti, Serafini e Pezzoli, uccisi a Milano dagli uomini del generale Dalla Chiesa; il terremoto e il problema dei senzatetto a Napoli; la richiesta di ergastolo per Valpreda, richiesta dal Pg Porcelli...

``La Repubblica'', dunque, come tutti i giornali, è costretta a pubblicare, il 13 dicembre, le scarne notizie di cronaca, spesso inesatte.

Le edizioni di domenica 14 dicembre, invece sono ben più sostanziose. La notizia del rapimento D'Urso, alimentata da un volantino che rivendica il sequestro e una fotografia nella quale il magistrato appare con alle spalle il drappo delle BR e, appeso al collo un cartellone ("Organizzare la liberazione dei proletari prigionieri. Smantellare il circuito della differenziazione. Costruire e rafforzare i comitati di lotta. Chiudere immediatamente l'Asinara"), fatti ritrovare a ``La Repubblica'', diventano l'avvenimento ``principe'', che fa scorrere fiumi d'inchiostro, e regala titoli di scatola, cubitali, alla nuova ``impresa'' delle BR. Ancora il black-out non era scattato...

Le notizie, non sono molte, per la verità. I giornali ricostruiscono la meccanica del rapimento (il magistrato, sceso dall'auto, affrontato mentre stava raggiungendo il portone di casa; gli occhiali rotti, per terra; le indagini, che procedono sulla scorta di semplici deduzioni); il testo del lungo documento di rivendicazione del sequestro, che subito annuncia la decisione delle BR di ``processare'' il magistrato, definito "Boia, aguzzino di migliaia di proletari". D'Urso viene indicato come "il massacratore responsabile per tutto ciò che concerne il trattamento di tutti i proletari prigionieri sia nelle carceri normali sia nelle carceri speciali". A D'Urso i terroristi attribuiscono "il trattamento generale e particolare dei prigionieri, la differenziazione tra le carceri, i trasferimenti, le pratiche di tortura e di annientamento-politico-psichico-fisico". Fin nel loro primo documento, le BR annunciano che avrebbero attaccato tutti i penitenziari, rivolgendo ad essi la loro attenzione. E i giornali, dilige

nti, pubblicano, tutti, ampi stralci del comunicato, con sovrappiù di titolazione d'effetto; ancora il black-out non era stato dichiarato, e le BR non avevano chiesto la pubblicazione di qualsivoglia documento, per cui si poteva benissimo diffonderli.

Se le notizie sono quelle che sono, e costituiscono, per lo più esempi di ammirevoli sforzi di fantasia dei giornalisti, costretti a riempire colonne e colonne di piombo pur senza aver granché per poterlo fare, i commenti al rapimento, sono invece subito interessanti: è una pioggia di dichiarazioni e di editoriali. Sembra che in qualche modo si ricreino i fronti sorti durante i 55 giorni del sequestro Moro. I socialisti, sul loro giornale, affermano che "l'obiettivo principale in questo momento sul fronte del terrorismo è quello di salvare le vite umane in pericolo, ed ora la vita da salvare è quella di D'Urso". Il PCI e l'``Unità'' si appellano alle forze sane della democrazia. Lo fa Sandrino Natta, per il quale il sequestro D'Urso è il segno del rischio di una crisi, "di un collasso delle istituzioni democratiche, quando più urgente ed imperiosa si è fatta l'esigenza di salvezza della Repubblica e della democrazia".

Scende in campo, e naturalmente non poteva mancare, il senatore Ugo Pecchioli.

Il ministro dell'interno comunista, renderà all'``Unità'' e ad altri giornali una dichiarazione in cui si annuncia che non sarà tollerato nessun cedimento ai terroristi. E' un po' il leitmotiv che ci accompagna, quasi ritualmente, in tutti questi anni.

Non è molto originale, il nostro Pecchioli, le sue dichiarazioni, sempre uguali, sembrano fatte con lo stampino, sempre da ``falco''. Leggere per credere:

"Le autorità preposte alla sicurezza devono compiere ogni sforzo per liberare il giudice D'Urso. A differenza del periodo in cui fu sequestrato Moro, le organizzazioni terroristiche sono oggi più vulnerabili; e quindi meno ardua l'opera per liberarlo. Ogni cedimento ai ricatti sarebbe inaccettabile. Oltretutto se si cedesse si ridarebbe spazio e forza al terrorismo, lo si aiuterebbe a superare la crisi in cui si trova".

E qui, tutti noi, subito, dobbiamo rendere omaggio alla preveggenza del senatore. Il ricatto, ``è inaccettabile''; lui lo sa, anche prima che questo venga formulato. Pecchioli non è solo l'unico arroccato nel rifiuto preventivo. ``Intransigenti'' sono pure Mammì e Pennacchini, repubblicani e democristiani; i socialdemocratici di Preti, e un pochino i liberali; tutti schierati nella linea del NO ad oltranza; la linea, come vedremo, di chi recita, con rassegnazione la logora litania della fermezza, un establishment che dietro l'apparente ``fermezza'' mostra chiari tutti i ``segni'' della sua debolezza. ``Fermezza'', in effetti, è la giusta qualificazione per questo partito: nel senso che, appunto, è fermo. Inerte, incapace. Bloccato, che subisce.

C'è una prima analisi, breve, di Scalfari. Merita d'esser letta. Scalfari, assieme all'editoriale Rizzoli, sarà, com'è noto, l'alfiere dell'intransigenza giornalistica.

"Con il sequestro del giudice Giovanni D'Urso da parte delle BR si apre un altro capitolo del terrorismo, un capitolo che credevamo chiuso per sempre con l'uccisione di Aldo Moro, e che sarà ancora più angoscioso per tutti di quanto non siano gli stessi omicidi preparati da questa banda di assassini. Non pensiamo soltanto ai giorni terribili che dovranno passare i familiari del giudice rinchiuso ``nella prigione del popolo'' e neppure alla minaccia rappresentata per il futuro, della ritrovata efficienza operativa delle BR, ma anche agli effetti di quest'azione, che rischiano d'essere ulteriormente devastanti sulla tenuta del quadro politico.

Nel volantino che ieri pomeriggio è stato recapitato al nostro giornale, le BR annunciano l'apertura di un processo contro D'Urso con parole che ricalcano quasi esattamente quelle a suo tempo usate per il rapimento Moro. E' facile prevedere dunque che l'iter sarà il medesimo: interrogatori inutili e qualche richiesta allo Stato da soddisfare per ottenere la liberazione del prigioniero. Governo e forze politiche si troveranno quindi nella stessa angosciosa posizione che si determinò durante i giorni della prigionia di Moro, con la sola differenza derivante dalla diversa natura dei personaggi coinvolti: allora il leader della DC, oggi un esponente della magistratura.

Riuscirà il governo, riusciranno i partiti, riuscirà la pubblica opinione, a trovare quell'unità di comportamenti così necessaria per fronteggiare una situazione tanto drammatica? Questo è il nocciolo del problema cui bisogna trovar soluzione nelle prossime ore".

Tra le varie dichiarazioni di guerra, non poteva mancare quella, ormai monotono e ciclica, monomaniaca, del senatore a vita, Leo Valiani. Questo signore scrive su un quotidiano che dispone dell'informazione come di ``cosa sua'', pur vivendo di favoritismi, privilegi, sovvenzioni ``pubblici''. Stiamo parlando del ``Corriere della Sera'', che, sotto la direzione di Di Bella è ormai giunto a ufficiali ostracismi e censure sistematiche, che, come ha detto in un'occasione recente Pannella, sono degne del regime fascista ed indegne delle tradizioni di destra e di centro decente e dignitoso della testata. Pannella descrive un bozzetto di questo nostro senatore a vita, che è quanto mai azzeccato e puntuale:

"...Valiani è l'aedo di questo quotidiano; ci addolora, ma non ci sorprende. La vita politica del nostro senatore a vita è densa di scelte non contraddittorie, ma anticipatorie della sua attuale funzione forcaiola. Da dannunziano a bolscevico, da sostenitore dello stalinismo e delle democrazie popolari del 1948, quale candidato frontista, a estremista (contro gli azionisti di ``Stato moderno'', difensori di un nuovo stato di diritto, come Calamandrei), del Partito d'Azione. Lo ricordiamo, perché a suo modo va riconosciuta a Valiani coerenza, anche se intervallata da contraddizioni ``radicali'' e ``democratiche''".

Valiani scrive un editorialino nel suo stile ``bellico'', che viene pubblicato con evidenza nella prima pagina del ``Corriere della Sera''. Il titolo, già quello, è un succoso programma: ``Non bisogna trattare, ma trattarli con durezza''; già fa capire, in modo inequivocabile che il senatore è uno di quelli che mette le mani in avanti: nessuna trattativa; niente chiusura dell'Asinara, e via così, giù duro. Ecco un brano:

"Al rapimento del magistrato D'Urso è necessario rispondere con la stessa fermezza con cui si rispose al sequestro di Aldo Moro. Tutti i colpi, purtroppo solo parziali, che si sono successivamente inflitti al terrorismo, sono dovuti in primo luogo alla fermezza dimostrata nei confronti dei ricatti provenienti dagli assassini e dai loro complici.

Non pochi di costoro, e forse gli stessi mandanti, erano e sono in carcere e dall'interno delle prigioni diramano, con la collaborazione di talpe che si dovrebbero poter scoprire, le indicazioni che i loro compagni in libertà traducono in omicidi. In più del rifiuto di ogni e qualsivoglia trattativa, la prima cosa da fare è, dunque, l'intensificazione dei controlli sui terroristi detenuti e non pentiti. Essi chiedono l'abolizione dell'Asinara e di altri penitenziari di sicurezza non solo per godere di un'esistenza più confortevole, ma anche per poter avere dei contatti più facili con l'organizzazione terroristica dalla quale si attendono l'incremento di azioni suscettibili di farli liberare.

Ci si domanda come mai, nonostante i molti arresti effettuati, i terroristi in circolazione siano ancora tanti. Le spiegazioni non mancano. L'alleanza fra terrorismo e delinquenza comune è redditizia. Inoltre cresce di continuo il numero dei presunti terroristi rilasciati per troppo facili proscioglimenti o concessioni di libertà provvisoria; per assoluzioni incomprensibili come quella di Genova e condanne incredibilmente miti come quelle di Padova, e per l'insufficiente durata della carcerazione preventiva.

Non si procede ancora con la durezza che sarebbe indispensabile contro i violenti...".

Per l'ineffabile senatore-soldato, la carcerazione preventiva è insufficiente. In una conversazione pubblicata nell'aprile dell'80 sul settimanale ``Panorama'', Leonardo Sciascia, tra l'altro si chiedeva, e ci chiedeva: "...Queste leggi (le nuove leggi sull'ordine pubblico, erano i tempi dell'ostruzionismo radicale, "n.d.r."), sono pericolose per l'avvenire della democrazia. Non riesco a concepire un sistema democratico che si separi dal diritto, dalla democrazia. Quando una legge arriva a contemplare una detenzione di una dozzina d'anni, prima che si arrivi a una sentenza definitiva di condanna o assoluzione, non so dove sia andato a finire il diritto, dove la democrazia". Ma a questo improvvisato esperto in brigatologia e in tecniche di lotta al terrorismo, che è Valiani, non basta. Ci vuole altro, e di più. Lui non lo dice (lo lascia però palesemente intendere), e quando qualcuno si azzarda ad attribuirglielo, ci strepita sopra, offesissimo; ma i suoi rimedi evocano sempre più sistemi e metodi, fantasmi,

che appartennero al fascismo, che si pensava e sperava morti e sepolti.

Non è un caso isolato; si sprecano anzi gli ``appelli'' alla linea Valiani. Dal giudice Sossi, che fu il primo magistrato rapito dalle BR, nel 1974, in piena campagna divorzista e che rilascia interviste a destra e a manca, monocordi ("Per sconfiggere il terrorismo ci vuole uno Stato forte che, nel pieno rispetto della Costituzione, decida di dichiarare lo stato di guerra n certe zone del paese. Se non si fa questo, allora è giusto porsi il problema della trattativa per la salvezza di una vita umana... Stato di guerra, tribunali militari, e automaticamente leggi di guerra. Questo, io penso. Lo pensavo ieri, lo penso anche oggi..."); al direttore dell'``Unità'', Alfredo Reichlin ("Lo Stato non può e non deve cedere. Noi siamo contrari a qualsiasi deviazione dalla linea della fermezza legislativa"). Su ``La Stampa'' di Torino, Alessandro Galante Garrone (``Né mercati né ricatti''), sostiene che "ancora una volta, dopo la sequela di sequestri di magistrati e di uomini politici, culminati nella tragica vicenda d

i Aldo Moro, il rapimento del giudice Giovanni D'Urso, si rivela per quello che è: un ricatto al quale non si può opporre che la necessità di rifiutare ogni trattativa, di tener duro con assoluta intransigenza. E non per un ``ossequio cieco alla sacralità della legge o alla maestà dello Stato'', ma perché il cedimento agli atti del terrorismo aggraverebbe a dismisura il male che un gesto di paura o di malintesa pietà vorrebbe scongiurare... Ai loro ricatti, si deve rispondere con inesorabile fermezza".

Ben poche, in verità, le voci che stonano. Tra queste, ``Lotta Continua''. Scrive, tra l'altro, il direttore Deaglio che se non ci sarà trattativa le BR uccideranno D'Urso, e "questa loro azione aumenterà il loro peso nelle carceri e i loro adepti fuori. Un melange perfetto per garantire la gemmazione del terrorismo, perché torni a funzionare il volano che si era interrotto con le confessioni". Deaglio è anche facile profeta: la sua nota inizia (e si intitola) così: ``Decideranno di non fare nulla per l'ostaggio. Come le altre volte''.

"Perché - aggiunge Deaglio - non si può cedere al ricatto, e via di seguito. Ed è inutile pensare a questo punto, di far loro cambiare idea. Perché le cose stavano sotto gli occhi di tutti prima che qualcuno, ricevendo una telefonata, scoprisse che un magistrato era sparito, così, nella sera. E perché l'oggetto della richiesta dei rapitori è uno di quegli obiettivi che non avrebbero ragione di esistere, perché già risolto".

Tra le varie voci di ragionevolezza, quella raccolta dal ``Giorno'', in un'intervista di Giancarlo Zizola. Parla Federico Stella, professore, ordinario di diritto penale alla Cattolica. Dice che "le leggi speciali non servono a mettere fine al terrorismo", che bisogna riprendere il processo di rinnovamento dell'intera legislazione; che occorre scongiurare una regressione antidemocratica. Nel panorama della stampa quotidiana sono una sorta di voci più uniche che rare.

Nel frattempo, due giorni dopo il rapimento, le BR fanno trovare ad un redattore di ``La Repubblica'', il primo dei loro comunicati, dentro un cestino di rifiuti davanti al cinema Eur. C'è anche la foto del magistrato, ritratto in maniche di camicia. Nel messaggio, le BR ribadiscono la loro richiesta dello ``smantellamento del circuito della differenziazione'' e la chiusura del carcere dell'Asinara. In allegato, la copia della risoluzione strategica dell'ottobre '80, nella quale si annunciava un'offensiva all'interno delle carceri. Di D'Urso, si dice che è già sottoposto al ``processo proletario''. Il 15 dicembre, le BR fanno rinvenire un secondo comunicato. D'Urso sta bene e collabora, rispondendo alle domande che gli vengono rivolte, annunciano le BR. Nel messaggio non c'è alcuna richiesta, e i terroristi si limitano a definire il carcere di Palmi "campo di annientamento per politici", e denunciano sevizie presunte cui sarebbero sottoposti due brigatisti da poco arrestati, Galante e Jannelli. Tre giorni do

po, il 18 dicembre, le BR fanno pervenire a diversi giornali il testo del terzo comunicato; anche in questo messaggio si insiste sulla chiusura del super carcere dell'Asinara e si rivolgono minacce di rappresaglia, in risposta alle "torture nei confronti dei prigionieri politici". Di D'Urso, nessuna notizia. Il 19, a Milano, viene trovato un quarto messaggio, nel quale si propone una mediazione da parte dei radicali. La DIGOS ritiene il documento inattendibile, così come ritiene ``falso'' un nuovo volantino attribuito alle BR che la polizia giudica un fotomontaggio ad opera di brigatisti ``sbandati''.

Vediamo il panorama offerto dai giornali in questi primi giorni di ``stallo'': "Le BR non devono avere un attimo di illusione: questo Stato, pur così provato da tante tensioni, non può mollare di un millimetro; anzi, questa odiosa impresa brigatista deve servire a saldare ogni energia disponibile per sferrare un colpo decisivo a questi rigurgiti eversivi", racconta sul ``Popolo'', organo della DC, Remigio Cavedon. Leo Valiani, sul ``Corriere della Sera'' continua ad imperversare. In un articolo, del 17 dicembre scrive, dopo aver equiparato le BR, per le loro "efferate azioni" al "fanatismo omicida degli hitleriani e dei sicari del peggiore stalinismo", che la "capitolazione davanti alle richieste dei terroristi galvanizzerebbe l'audacia di costoro, ed anche quella degli autori dei sequestri a scopo di lucro".

Il direttore del ``Giornale Nuovo'', Montanelli, in un editoriale, afferma che la maggioranza su cui si regge il Governo Forlani è "scollata e divisa su molte, troppe cose, non trova l'accordo nemmeno sulla difesa dello Stato". Afferma, Montanelli, il solo riproporsi della questione dibattuta per il caso Moro, ``trattativa sì, trattativa no'', costituisce una vittoria delle BR: "essi stanno realizzando l'obiettivo dei terroristi: dividere e - come si suol dire - destabilizzare il Palazzo, creandovi la solita uggiosa contrapposizione tra falchi e colombe".

Per quanto riguarda la ``Repubblica'', grandi servizi e titoli d'effetto in prima pagina e in quelle successive (``D'Urso nel lager delle BR, lo interrogano da 48 ore''; ``Per D'Urso ore decisive''; ``Per salvare D'Urso forse chiusa l'Asinara''); fino al 17 si limita ad un'opinione di Guido Neppi Modona, giurista di area comunista, che tenta una radiografia e una analisi della risoluzione strategica del 1980 delle BR.

(continua al testo 1773)

 
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