di Valter VecellioSOMMARIO: L'azione del Partito radicale per ottenere la liberazione del giudice Giovanni D'Urso rapito dalle "Brigate rosse" il 12 dicembre 1980 e per contrastare quel gruppo di potere politico e giornalistico che vuole la sua morte per giustificare l'imposizione in Italia di un governo "d'emergenza" costituito da "tecnici". Il 15 gennaio 1981 il giudice D'Urso viene liberato: "Il partito della fermezza stava organizzando e sta tentando un vero golpe, per questo come il fascismo del 1921 ha bisogno di cadaveri, ma questa volta al contrario di quanto è accaduto con Moro è stato provvisoriamente battuto, per una volta le BR non sono servite. La campagna di "Radio Radicale che riesce a rompere il black out informativo della stampa.
("LA PELLE DEL D'URSO", A chi serviva, chi se l'è venduta, come è stata salvata - a cura di Lino Jannuzzi, Ennio Capelcelatro, Franco Roccella, Valter Vecellio - Supplemento a Notizie Radicali n. 3 - marzo 1981)
(seconda parte - segue dal testo n. 1772)
DI D'URSO, CHI SE NE OCCUPA?
Sono i giorni in cui a Parigi viene arrestato Marco Donat Cattin, figlio di Carlo, il leader democristiano. La notizia della cattura del ``capo di Prima Linea, killer di Alessandrini'' (come annuncia un enorme titolo a tutta pagina del ``Corriere della Sera''), distoglie per qualche giorno l'attenzione sull'affaire D'Urso. E infatti, sul ``Manifesto'', Rossana Rossanda, si chiede, appunto: ``Quanto al giudice D'Urso, chi se ne occupa?''.
"Stupisce - scrive Rossanda - vedere la calma dello Stato, o chi per esso. Vien da credere che le elevate menti di chi ci governa abbiano deciso a priori come andrà a finire e attendano serenamente la soluzione, come chi assiste ad uno spettacolo che non lo riguarda. La prima soluzione si addice ad una commedia di costume, di tipo natalizio: le BR, tornate ala linea iniziale di Curcio, rifanno il caso Sossi, ottengono dal giudice interessanti rivelazioni sul sistema penitenziario, che si sa fargli un po' orrore, e poi lo restituiscono bene impacchettato alla consorte, e in modo che a fin d'anno si mediti, invece che sul messaggio di Pertini, sull'abilità di questi novelli Robin Hood, un po' bruschi di modi, ma dagli obiettivi quanto mai inglesi, ragionevoli, riformisti. La seconda soluzione si addice invece ad una tragedia: il governante si fida del generale Dalla Chiesa che piomba quatto quatto sulla ``prigione del popolo'', e tutto finisce con una grande sparatoria. Se il giudice D'Urso sfugge alle pallott
ole, Dalla Chiesa l'avrà salvato. Se non vi sfugge, le BR lo avranno ucciso. In tutti e due i casi, il governo che c'entra?
E infatti, non c'entra. Spetterebbe a un governo trovare soluzioni politiche al fenomeno del terrorismo, ma questi nostri governi non sanno neanche dove cominciare. Dovevano trovare il modo di minargli il terreno di reclutamento, glielo ampliano. Dovevano aiutare chi vi si era cacciato a lasciare le bande senza contropartita che quella, enorme, di tornare ad essere un cittadino capace di non sanguinose conflittualità, e hanno inventato il ``testimone della corona'' che incastra chiunque abbia circolato sia pure nei dintorni dell'area. Così naturalmente si dà forza alle BR e non fa meraviglia che loro sia l'iniziativa, anche quando stavano per spegnersi".
Il 23 dicembre viene annunciata la cattura di due capi delle Brigate Rosse: Vincenzo Guagliardo e Nadia Ponti, ``dirigenti'' della ``colonna veneta''. Vengono ``sorpresi'' dalla DIGOS in un bar di Torino. I due si dichiarano prigionieri di guerra, e, a quanto riferiscono i giornali, rifiutano ogni collaborazione per quel che riguarda l'affaire D'Urso. Lo stesso giorno, i terroristi fanno trovare un quarto messaggio, ritenuto, questa volta, autentico. I brigatisti con maggiore durezza accennano al prigioniero che ``parla'', e sostengono che la ``giustizia proletaria'' seguirà rapidamente il suo corso; le BR fanno intendere che la chiusura dell'Asinara potrebbe costituire il prezzo del riscatto per la libertà di D'Urso. O, piuttosto, questa è l'interpretazione che viene fornita dalla pressoché totalità dei quotidiani. C'è subito chi, come il direttore del ``Giornale Nuovo'', Montanelli, scrive che proprio per questo, le eventuali iniziative per smantellare il supercarcere, vanno immediatamente interrotte. Sicc
ome lo chiedono le BR, non si può e non si dive aderire. Interviene il senatore comunista Pecchioli. Scrive, questa volta su ``Rinascita'', il settimanale del partito:
"In questo momento nessuna pretesa dei terroristi può essere presa in considerazione; sarebbe un errore gravissimo", afferma Pecchioli, per il quale lo scopo delle BR è quello di ottenere "una forma di riconoscimento politico da parte dello Stato".
Nel suo lungo articolo, Pecchioli, tra l'altro, sostiene che "i gruppi terroristi hanno subito seri colpi, ma non sono stati ancora sconfitti", e che "rimane il dato di una crisi politica che è reale e che si riflette anche nella divisione interna tra i gruppi accusati di ``militarismo'' e quelli, si tratta dei cosiddetti capi storici, che sostengono il ``ritorno al sociale''".
Pecchioli, nella sostanza riconferma la posizione sua e del PCI, che è quella assunta per il caso Moro, e accusa socialisti e socialdemocratici di non aver preso una posizione netta: "come - scrive il senatore - se fosse possibile dimenticare quali conseguenze gravi sarebbero derivati in questi anni se si fosse ceduto al ricatto terrorista".
Contemporaneamente le agenzie di stampa diffondono il testo di un appello, firmato da una cinquantina tra parlamentari, giornalisti, avvocati, intellettuali di diverso orientamento politico, nel quale si chiedeva la chiusura dell'Asinara; che l'affaire D'Urso venisse condotto con la massima ``trasparenza'' possibile, escludendo, cioè le manovre e i maneggi del caso Moro; che pregiudizialmente non venisse esclusa nessuna iniziativa umanitaria per la salvezza del magistrato.
L'appello, d'iniziativa radicale, è sottoscritto anche da Acquaviva, Ambrosoni, Baget Bozzo, Cases, Cederna, Del Buono, Flores d'Arcais, Fortini, Galli della Loggia, Jervis, Lattuada, Marazzita, Nebbia, Nirestein, Paccino, Roversi, Sechi, Stame, Timpanaro, Vattimo, Vigorelli, Zincone, il collettivo di direzione di ``Lotta Continua''.
Contemporaneamente, ``Lotta Continua'', pubblica un appello di Marco Pannella, un lungo testo, nel quale, tra l'altro si sosteneva che "se i brigatisti rossi si ritengono rossi davvero ripeterò a questi compagni assassini che sbagliano tremendamente: occorre che lo Stato, i partiti, la gente, noi stessi si faccia tutto il possibile per guadagnare occasioni e dialogo urgente...".
"Oggi - sostiene Pannella - la chiusura dell'Asinara, se non molto più lontana è almeno più difficile di quanto non lo fosse prima del rapimento D'Urso. Nello stato dominano infatti, e non solo di rado istinti e riflessi che sono molto simili ai vostri...".
Pannella, inoltre scriveva di augurarsi che in Parlamento "vi sia chi pensi, oltre ai radicali, a proporre una mozione, uno strumento di dibattito per un indirizzo nuovo e fecondo di risposta politica al pericolo in cui tenete D'Urso... Noi abbiamo l'onere di esigere che il Parlamento, i partiti rispettino se stessi e le loro prerogative per cercare di liberare D'Urso".
Questo scritto di Pannella (che viene pubblicato in appendice, tra i documenti, integralmente), è destinato a divenire un testo molto importante; e non solo per il contingente, per il ``vivo'' dell'azione che di lì a poche ore si sarebbe determinata, ma anche, e soprattutto, per il dopo, per le implicazioni future che le premesse di quel testo poneva. Basti pensare a un paio di affermazioni che apparentemente possono lasciare perplessi ed increduli: non trattativa, ma dialogo, con i compagni assassini.
L'articolo di Pannella è destinato a ``segnare'' la vita del Partito Radicale, con il quale i nonviolenti dovranno fare i conti. Un testo che mi permetto di collegare idealmente, all'intervento di Marco Pannella del 13 marzo 1977, alla conferenza organizzativa sui referendum. Un discorso franco sulla strategia e i metodi di lotta del movimento giovanile e studentesco, dove si affermava che il violento ha in comune con il nonviolento quasi tutto l'essenziale, ma si sottolineava che gli errori violenti sono errori suicidi del movimento. Il discorso fu pubblicato su un numero di ``Notizie Radicali'', significativamente intitolato ``Ai nostri compagni violenti''; e che collego anche all'intervento di Pannella al XXI congresso del PR, quello, per intendersi, dove venne fatto il riferimento all'episodio di via Rasella, che fece urlare tanto allo scandalo.
L'articolo di Pannella su ``Lotta Continua'', pur così importante, essenziale, per l'immediato e per le prospettive e le premesse future che pone, veniva minimizzato in modo avvilente dai quotidiani. Alcuni, gli ``indipendenti'', ne davano notizia come di un appello di Marco Pannella alle BR per liberare D'Urso, fornendone spesso, un'informazione riduttiva e falsata: Pannella vuole proporsi in cambio del giudice rapito; l'``Unità'' e il ``Paese Sera'', scandalizzati, strillarono alla profanazione: Pannella chiama compagni le Brigate Rosse, i terroristi, e giù la logora litania di chi da sempre si comporta come uno struzzo, rifiutando di accettare che il terrorismo è in buona parte ``cosa'' che affonda le sue radici e ragioni nella sinistra, che non si può pensare di sconfiggere il terrorismo esorcizzandolo.
Le polemiche, comunque, su questo documento, con cui, ripeto, i conti li abbiamo tutt'altro che fatti, presto si sforzano, superate dai fatti, drammatici che incalzano. La domenica del 28 dicembre, mentre le BR fanno trovare il loro quinto comunicato e una lettera del giudice D'Urso al suo superiore Sisti (lettera nella quale D'Urso riafferma che dalla chiusura dell'Asinara dipende la sua vita), scoppia, al carcere di Trani, la rivolta; i detenuti politici prendono in ostaggio 19 agenti di custodia e consegnano un loro documento al direttore dell'istituto. Il giorno dopo i reparti speciali dei carabinieri irrompono all'interno del carcere in rivolta, liberano gli ostaggi, domano la sommossa; un'azione, se si vuole, ``pulita'', anche se dura, che non provoca morti, salva gli ostaggi, e che al termine dell'azione fa registrare un esiguo numero di feriti. I terroristi, frattanto, fanno trovare il comunicato numero 6, con allegato un documento elaborato dal comitato di lotta del carcere di Trani. Tra l'altro, ne
l documento si chiede la chiusura definitiva dell'Asinara; nessuna proroga della legge sulle carceri speciali; riduzione sostanziale della carcerazione preventiva e abolizione del fermo di polizia.
Sul fronte dell'Asinara, si era già diffusa la notizia della decisione ministeriale di chiudere la sezione speciale dell'Asinara. Un provvedimento amministrativo già da tempo deciso, che tuttavia per molti ha il sapore di una decisione assunta in omaggio alle richieste delle BR. E' quanto in particolare repubblicani, PCI e PDUP rimproverano al Governo. Il PSI invece si è mosso in direzione opposta: dopo uno sbandamento iniziale dovuto all'assenza di Craxi, i socialisti, con la loro direzione, sollecitarono la chiusura dell'Asinara. Analoga cosa faceva il consiglio federativo radicale, riunito in via straordinaria per dibattere le iniziative relative all'affaire D'Urso, il quale stilava un documento con un articolato pacchetto di iniziative e di richieste, tutte centrate sul filo conduttore: no alla trattativa, sì al dialogo. Pochi giorni prima, per prevenire un'intuibile richiesta in senso contrario che sarebbe venuta dal partito dell'intransigenza, militanti radicali avevano manifestato davanti al ministero
d Giustizia, per chiedere la chiusura dell'Asinara.
Il 30 dicembre, davanti alla sua abitazione, viene assassinato dalle BR il generale dei carabinieri Enrico Galvaligi, collaboratore di Dalla Chiesa, vice responsabile dell'ufficio di coordinamento per le misure di sicurezza degli istituti di prevenzione e pena.
Vittorio Gorresio, su ``La Stampa'', così commenta la richiesta della direzione socialista di chiudere l'Asinara:
"La sortita natalizia della direzione del PSI invocante la chiusura della sezione speciale - detta di massima sicurezza - del carcere dell'Asinara, suscita varie perplessità. E' vaga perché manca di precisi riferimenti alla situazione reale dello stabilimento penitenziario in questione, e addirittura poi omette di indicare che la sezione speciale - nota cole nome di Fornelli - oggi si trova in corso di svuotamento... E' sempre forte la tentazione di saltare in groppa al nobile destriero del successo, ma se si può spiegare che ad essa cedono le BR, è un poco meno nobile che a farla propria sia un partito come il socialista, corresponsabile della condotta del governo. Si ha come l'impressione che esso voglia sfruttare il generale sentimento di partecipazione dei cittadini al dramma del sequestro del giudice D'Urso, professandosi campione, come già al tempo del sequestro Moro, di un moto umanitario. E' un titolo che rende, ma del quale bisogna denunciare anche in questo caso la consistenza illusoria".
Il giorno dopo, il 28 dicembre, il ``Corriere della Sera'', pubblica un nuovo proclama di Leo Valiani. Tra l'altro, il senatore con elmetto scrive:
"... Tocca alle forze dell'ordine prepararsi a prevenire le future sommosse carcerarie e intensificare i controlli sulla corrispondenza e sui rapporti esterni dei terroristi, al fine di individuare le piste che conducono alle organizzazioni tuttora clandestine. Sarebbe disastroso avere, in proposito, degli scrupoli. Ne andrebbero di mezzo la sicurezza e la vita delle possibili future vittime dei disegni terroristici.
Il pericolo più insidioso è rappresentato, peraltro, dalla propaganda già in corso all'estrema sinistra, e che domani potrebbe essere svolta anche dall'estrema destra, in favore di un'amnistia, non fosse che sotto forma di dichiarazione di non punibilità per gli appartenenti a banda armata o associazione sovversiva che non risultino direttamente colpevoli di reati di sangue e proclamino di non volerne commettere".
Sul ``Paese Sera'', Giuseppe Fiori, si chiede retoricamente se già non si sia aperta una trattativa con le BR, mentre il segretario repubblicano, Spadolini, in un articolo su ``Stampa sera'', sostiene che il governo è salvo, ma a grave prezzo. Il PRI si era mostrato fortemente polemico nei confronti del documento della direzione socialista, e il suo segretario, tra l'altro scrive:
"... Un partito che in ogni caso non può oscillare è la DC. Essa resisté con coraggio, nei 54 terribili giorni della detenzione di Moro. Resisté a cospicue ali del mondo cattolico e a settori consistenti dello stesso partito. Pagò un prezzo elevato, ma tale da consentirle di conservare il diritto alla guida al governo, contro tutti i processi sommari di allora e di poi. La democrazia laica - ricordiamoci La Malfa - fu altrettanto ed esemplarmente ferma. I comunisti non hanno cambiato opinione, per essere oggi all'opposizione.
Un punto deve apparire chiaro a tutti: il limite toccato con la dichiarazione del ministero di Grazia e Giustizia non può essere, in nessun caso, e per nessuna ragione, superato. E' in gioco la vita stessa della Repubblica, contro le tante forze che congiurano a colpirla. Da tutte le parti".
Di diverso tenore quanto scrive, sul ``Manifesto'', Rossana Rossanda:
"... Craxi ha interrotto il pranzo di natale, e ha rotto il silenzio. Forlani ha fatto interrompere al ministero di grazia e giustizia il pranzo di santo Stefano. Rampanti sul terreno della fermezza, perché all'oscuro di tutto, sono rimasti soltanto PCI e PDUP, nell'incomoda posizione di difendere uno stato che oggi criticano acerbamente, e per di più di opporsi, per timore che suoni concessione ai terroristi, non già una qualsiasi illegalità (come sarebbe stato uno scambio di prigionieri) ma la realizzazione di una decisione già presa dal detto stato e rispondente a elementi e costituzionali criteri di umanità.
Risultato: è toccato al senatore Pecchioli e all'onorevole Milani sostenere coram populo la tesi che qualunque cosa dicano le BR va considerato come puro pretesto per ``essere legittimate'' (quasi che a parlare con chi ti tiene la pistola puntata addosso, quale che sia l'argomento, significasse avallarne l'essere e il fare). Posizione già bizzarra nel 1978, insensata in mesi in cui lo stato legittima allegramente, assicurandogli impunità, protezioni, amnistie, espatri e speriamo di no, anche pensioni di stato, qualsiasi assassino politico, purché denunci i suoi compagni di terrorismo. E poi, negli impicci, sono ormai tutti. Perché si è negato a Moro quella riflessione che si fa su D'Urso? La signora Moro ci rifletterà amaramente. Anche l'on. Berlinguer, cui è stata chiesta fermezza (e l'ha concessa a iosa) quando era in gioco la vita dell'unico amico che aveva nella DC. Quanto a Forlani che voleva metter nel sacco tutti, eccolo già in contraddizione con la sua maggioranza e il suo partito".
Su ``Lotta Continua'', Mimmo Pinto, di ritorno da una prima ricognizione da Trani, è ancora più duro e sferzante:
"La posizione di quanti, oggi si sono opposti alla scelta del Governo di chiederla (l'Asinara, ndr) gradualmente, è più meschina di quella dei giorni del sequestro Moro. Oggi questi dicono: sarebbe giusto, l'Asinara fa schifo, ma oggi no, non si chiude perché altrimenti vincono le BR. Ma se duranti i giorni dei licenziamenti FIAT scendevano le BR in campo cosa avrebbero detto? I licenziamenti sono ingiusti, però adesso non ne parliamo altrimenti vincono le BR? E se fra qualche giorno chiederanno prefabbricati per Avellino e case per Napoli dovremmo dire di no per non farli vincere un'altra volta?".
Nulla di nuovo sul fronte dell'``intransigenza''. Lucio Magri, segretario del PDUP invia a ``La Repubblica'' che ``volentieri'' lo pubblica, un articolo dove sostiene, tra l'altro che governo e maggioranza sono "arroccati nella pigra difesa di una politica sbagliata e poi magari pronti a umilianti e inutili transazioni". Sull'``Unità'', il senatore Pecchioli, intervistato da Roggi - sembrano i fratelli De Rege - afferma che invece di incalzare il terrorismo gli si è offerto nuovo spazio. Pecchioli tra l'altro ritiene che grave sia la responsabilità del governo per il ``cedimento'' sull'Asinara. "Cedimento che avrebbe ridato ossigeno alle BR in crisi".
L'instancabile Valiani commentando il ``blitz'' di Trani dei carabinieri, che hanno ``domato'' la rivolta, afferma che a Trani bisognava agire così come lo Stato ha agito.
"... Il meritato successo che le autorità repubblicane hanno conseguito a Trani indica chiaramente la via del definitivo risollevamento dell'autorità dello Stato democratico e del parallelo ritrovamento della sicurezza per tutti gli onesti, minacciati dalla malavita e dal terrorismo. Il ministro degli interni, Rognoni, ha dichiarato qualche tempo fa che il sistema democratico italiano possedeva tutta la forza necessaria alla propria difesa. L'esito dell'azione di Trani gli ha dato ragione, così come ha dato ragione alla volontà tenacemente dispiegata da Forlani nel mantenimento della stabilità del governo da lui presieduto. La sua conferenza stampa aveva deluso. Adesso coadiuvato da ministri competenti, si è vigorosamente ripreso...".
Per quel che riguarda ``La Repubblica'', Eugenio Scalfari, in un articolo del 30 dicembre ("Quelle colombe non portano la pace") scrive, tra l'altro:
"Nel mezzo di tanti guai, almeno una buona notizia: l'insurrezione dei detenuti politici del carcere di Trani è stata domata e l'ordine ripristinato senza vittime. Risultato prezioso, perché da come s'erano messe le cose poteva essere una strage... Risulta ormai provato il collegamento tra le BR che hanno rapito D'Urso e i rivoltosi di Trani: ne fa fede il fatto che questi ultimi hanno ripetutamente affermato di avere nelle loro mani 19 ostaggi nel carcere e uno fuori (appunto D'Urso)... Dunque un'azione concertata tra terroristi in libertà e terroristi in carcere, con gli stessi obiettivi, le medesime richiesta, la stessa tecnica di usare ostaggi per ricattare lo Stato. In queste condizioni è chiaro che ogni cedimento diventa impossibile se non si vuole alimentare un'escalation della quale sarebbero imprevedibili gli sbocchi. Che cosa sarebbe avvenuto, ad esempio, se la fulminea azione dei carabinieri a Trani avesse provocato l'uccisione degli ostaggi?...".
Le BR non hanno ancora fatto trovare il loro comunicato più drammatico, il numero otto, nel quale rendono noto che D'Urso è stato condannato a morte, lasciando però la decisione della sua esecuzione ai detenuti nelle carceri di Trani e di Palmi; ancora non sono scoppiate le polemiche sulla visita dei parlamentari radicali subito accorsi a Trani e successivamente a Palmi; ma già comincia a profilarsi lo schieramento interpartito dell'intransigenza. Si susseguono, infatti, le prese di posizione dei ``falchi'', cioè, più propriamente, di coloro che, pronunciando altisonanti frasi di fermezza ad oltranza, scelgono in realtà inerzia e cinismo.
"... Ora che si è imboccata la strada della fermezza e del rigore - scrive su ``La Stampa'' Alessandro Galante Garrone - non c'è che da tener duro. E' ora di finirla con gli ammiccamenti furbeschi, con le sortite natalizie, con qualsiasi forma di disponibilità, non diciamo alla trattativa (che sarebbe una via d'abdicazione), ma a qualsiasi forma di dialogo con chi si è macchiato di tanti crimini. Gli uomini delle BR non possono essere in nessun modo riconosciuti come interlocutori...".
Da parte democristiana, sul ``Popolo'', Alfredo Vinciguerra richiede "urgenti atti concreti", mentre il PCI, con Luciano Violante, sull'``Unità'', denuncia le "Leggerezze e insipienze".
Le agenzie di stampa intanto diffondono la notizia che l'``Espresso'' si accinge a pubblicare quello che viene definito l'interrogatorio del giudice rapito, e un'intervista alle Brigate rosse. Questa intervista, per due giorni, è un grande ``scoop''. Poi diventa un delitto, come ha sottolineato "Prima Comunicazione".
``L'Espresso'' così presenta ``l'interrogatorio'' cui è stato sottoposto D'Urso: "lungo, minuzioso, martellante, l'interrogatorio investe i temi più angosciosi della vita italiana: l'organizzazione del ministero di Giustizia, il trattamento dei ``pentiti'', il problema delle carceri (Asinara in testa). E' un documento del terrore, visto dalla parte degli organizzatori e della vittima".
L'intervista viene così definita: "Per la prima volta le BR parlano, con simile ampiezza, dei loro proposti. S'intrattengono sul tema dei ``pentiti'' e sul caso di Aldo Moro. Fanno intravedere cosa vogliono in cambio della liberazione di D'Urso. Parlano della ``crisi interna'' alle stesse BR, rifiutano qualsiasi proposta di amnistia. E' un'agghiacciante requisitoria".
Per ``La Repubblica'' intervista e interrogatorio sono un "clamoroso colpo giornalistico del settimanale ``L'Espresso''"; o almeno questo è il titolo che il giornale di Scalfari spara a tutta pagina, nella sua ultima edizione del 1980. Del resto, come abbiamo già scritto, Scalfari, in quelle ultime ore del 1980 festeggiava, con i redattori dell'``Espresso'' di turno il clamoroso ``scoop''. Forse era lo Scalfari azionista dell'``Espresso'', quello che brindava. Lo Scalfari direttore di ``La Repubblica'', a giudicare quello che scrive, era molto meno entusiasta.
Mentre i carabinieri arrestano, su ordine del magistrato Sica, Mario Scialoja, che aveva firmato il servizio, e si accingono ad arrestare Giampaolo Bultrini, che per primo aveva avuto il ``contatto'' con le BR, su ``La Repubblica'' appare un corsivo (``Se capitasse a uno di noi...") nel quale si prendono le distanze dall'``Espresso''; il settimanale non viene criticato dal punto di vista deontologico, e non si ravvisa neppure la possibilità di una responsabilità penale. Ma la censura è, diciamo così, ``morale'': "Noi riteniamo che essi avrebbero dovuto informare il magistrato non appena entrati in contatto con la banda dei rapitori di D'Urso. E ci dispiace che non l'abbiano fatto". Metamorfosi di ore, e di pressoché tutti i giornali, che rapidamente compiono virate di 180·. Dall'esaltazione dello ``scoop'' giornalistico, si passa alla condanna: Montanelli, sul ``Giornale Nuovo'' scrive che "Il dovere del cittadino è di rifiutare qualsiasi rapporto con il terrorismo. Quando ne è fatto oggetto - come, secondo
la loro versione, è capitato ai redattori del ``L'Espresso'' - deve denunciarlo ai carabinieri, se ne ha il coraggio; se non lo ha (il coraggio diceva Don Abbondio, non s'inventa), deve almeno troncarne il filo".
``L'Unità'' si chiede che cosa c'entri la pubblicazione dei documenti delle BR (e i conseguenti arresti di Scialoja e Bultrini) con la libertà di stampa. "La verità - scrive il giornale del PCI - è che il caso dell'``Espresso'', per le circostanze e il clima in cui si è prodotto, va ben al di là di un puro conflitto giuridico che riguarda il ``mondo della stampa''. Segnala piuttosto la persistenza di una zona in cui è tuttora lontani da quella coerenza di comportamenti, dall'assunzione precisa di responsabilità per isolare e vincere il terrorismo. E per difendere quindi, tutte le libertà e le libertà di tutti".
Poche, a dire la verità, le voci che si distinguono dal coro. Quella di Giuseppe Branca, che interpellato dal ``Messaggero'' fa presente che una mancata denuncia non è favoreggiamento e dunque, pur con le dovute riserve dovute alla ancora scarsa conoscenza dei fatti, manifesta delle riserve a proposito dell'arresto dei due giornalisti. Quella di alcuni giornalisti, come Carlo Rivolta, di ``La Repubblica'', che constata l'impossibilità di poter praticare un giornalismo secondo coscienza, invita i colleghi alla ``direzione'' (e lo fa, non scrivendo la sua opinione su ``La Repubblica'', il suo giornale, ma inviandola a ``Lotta Continua''), o quella di Calderoni, Ficonieri e Di Nicola (colleghi di Scialoja e Bultrini), che sempre su ``Lotta Continua'' scrivono:
"... Il magistrato non è il solo accusatore di Scialoja. Magistrati, politici, la stampa intera (andando contro le regole elementari del giornalismo), ``columnist di pronto intervento'', direttori di testate, puntano ora il dito contro Scialoja, colpevole di ``aver fatto uno scoop giornalistico''.
Ma è stato solo uno scoop, quello di Mario Scialoja? In tutti questi anni i giornalisti e il direttore dell'``Espresso'' hanno affrontato i fatti, le notizie e anche gli scandali nella maniera più semplice; cercando, cioè, di denunciarli all'opinione pubblica. Non per niente i giornalisti dell'``Espresso'' sono sempre stati accusati di andare alla ricerca dello scoop giornalistico o di cercare il successo personale dimenticando che proprio seguendo certe fasi del terrorismo o ricostruendo certi scandali il cronista rischiava in prima persona".
IL BLACK-OUT
Le polemiche sul casso ``Espresso-BR'', presto si allargano a macchia d'olio; non solo sull'opportunità o meno di pubblicare intervista e ``verbale d'interrogatorio''. Viene infatti diffuso il contenuto di una lettera che D'Urso ha scritto alla moglie. La vita del magistrato rapito sarebbe legata alla pubblicazione sui giornali della ``risoluzione strategica'' di ottobre. La signora D'Urso risponde alla lettera del marito dicendo che sta facendo tutto il possibile, per aderire alle richieste, "nonostante le attuali, oggettive, difficoltà".
I comitati di lotta dei detenuti di Trani e di Palmi, nel frattempo consegnano due documenti ai parlamentari radicali che da giorni vi si erano recati. La vita del magistrato rapito è subordinata alla pubblicazione sui giornali ("mezzi della comunicazione sociale") dei due documenti, che vengono diffusi alla stampa nel corso di conferenze stampa e ripetutamente trasmessi dalla rete nazionale delle ``Radio Radicali''. I documenti di Trani e di Palmi vengono anche pubblicati su ``Lotta Continua'', mentre stralci molto ampi vengono pubblicati dal ``Manifesto''.
Il 5 gennaio, primo il quotidiano ``Il Tempo'', con un brevissimo editoriale del direttore Letta, e immediatamente dopo il ``Corriere della Sera'' annunciano la decisione del silenzio stampa; non saranno soli: in breve tutti i giornali del racket editoriale Rizzoli (con la sola esclusione del ``Lavoro''), annunciano che si asterranno dal pubblicare le richieste dei terroristi, applicando un rigoroso silenzio-stampa.
I giornali del ``NO'' alla pubblicazione, sono: ``Corriere della Sera''; ``Corriere d'informazione''; ``Alto Adige''; ``Avvenire''; ``Bresciaoggi''; ``Corriere Adriatico''; ``Corriere mercantile''; ``La Gazzetta del sud''; ``Gazzetta di Parma''; ``Giornale di Brescia''; ``Il Giornale di Sicilia''; ``Il Gazzettino''; ``Il Giornale Nuovo''; ``Il giornale di Vicenza''; ``Il Mattino''; ``Il Resto del Carlino''; ``Il Tempo''; ``Il Tirreno''; ``L'Adige''; ``La Gazzetta del Mezzogiorno''; ``La Nazione''; ``La Provincia di Cremona''; ``La Provincia pavese''; ``La Repubblica''; ``La Stampa''; ``La Tribuna di Treviso''; ``L'Eco di Bergamo''; ``L'Occhio''; ``L'Ora''; ``L'Unione sarda''; ``L'Umanità''; ``L'Unità''; ``Il Paese Sera''; ``Il secolo d'Italia''; ``Stampa sera''; ``La Notte''.
I giornali che hanno pubblicato, tutti o in parte, i documenti delle Brigate rosse sono: ``L'Avanti''; ``Il Messaggero''; ``Il Secolo XIX''; ``La Sicilia''; ``L'Espresso sera''; ``Il Giornale del Sud''; ``La Gazzetta del Popolo''; ``Il Lavoro''; ``Il Manifesto''; ``Lotta Continua''; ``Notizie Radicali''; ``Il Quotidiano di Lecce''; ``Il Giornale d'Italia''; ``Vitasera''; ``Il Male''; la catena dei Diari.
Discorso a parte merita ``Radio Radicale''.
Dal quinto piano del vecchio stabile vicino alla stazione Termini, infatti, viene consentito ed organizzato un formidabile ponte di diffusione di notizie, in pratica, l'antidoto al black-out. Nei locali di ``Radio Radicale'' a Roma, hanno lavorato, ininterrottamente, per tutto il tempo in cui la vicenda D'Urso si è protratta, parlamentari radicali, militanti, giornalisti, e si sono raccolte le possibilità di rovesciare nello stesso tempo il ricatto delle BR e la posizione di intransigenza assunta dai maggiori quotidiani. E' stata infatti ``Radio Radicale'' che ha consentito di mettere l'opinione pubblica in condizione di decidere e valutare la situazione, di informare; che ha permesso uno spiraglio che ha potuto salvare la vita del giudice D'Urso, facendo emergere un ``fattore uomo'' in contrasto con la politica ufficiale.
Non si sono solamente diffusi gli appelli di Sciascia e quelli dei familiari di D'Urso o raccolte le adesioni di giornalisti, intellettuali, politici; in diretta per radio si è discusso con i comitati di redazione, con i direttori dei giornali, si è dialogato, si sono ascoltate ragioni, timori, incertezze, dubbi.
Di fatto si è sbriciolato il black-out, che ha resistito solo in una roccaforte di alcune direzioni e proprietà di quotidiani, contestato apertamente da moltissimi redattori e giornalisti. Un dibattito che ha investito circa dodici milioni di ascoltatori (tale è il bacino potenziale di indice d'ascolto assicurato dalla rete delle ``Radio Radicali'', per l'occasione ancora più ampio, perché in collegamento con decine e decine di altre emittenti libere, come ``Radio Apache'', ``Radio Spazio Aperto'' ``Radio Città Futura'' ``Radio Onda Rossa'' ``Radio Proletaria'' di Roma. ``Radio Popolare'' ``Radio Black-out'' di Milano. ``Controradio'' e ``Radio Centofiori'' di Firenze. ``Radio Sampierdarena'' di Genova. ``Radio Napoli centro'', ``Radio Sherwood'' di Mestre e Padova).
Scriverà Eugenio Scalfari, su ``La Repubblica'', lanciando lo slogan "Proclami no, notizie sì": "... non daremo alcuno spazio ai loro proclami, ma continueremo a pubblicare tutte le informazioni che le riguardano, ivi comprese le loro richieste, con il dichiarato intento di farle conoscere alla pubblica opinione, affinché siano giudicate come meritano e drasticamente respinte". Lodevole intenzione e dichiarazione di intenti. Un manifesto ``programmatico'' che troverà scarsissima traduzione nei fatti. Si sa, di buone intenzioni è lastricato l'inferno. Mentre ``Lotta Continua'' annuncia che per parte loro "non staranno zitti", e il ``Manifesto'', opportunamente ricorda che si comincia con il chiedere la non pubblicazione di una certa notizia per poi finire con il chiedere la non pubblicazione di un certo editoriale, il cosiddetto fronte del ``silenzio stampa'' comincia di già ad incrinarsi.
Cominciamo a dare uno sguardo ``dentro'' l'impero Rizzoli.
La consegna al silenzio era stata ispirata direttamente dal direttore generale del gruppo, Bruno Tassan Din; l'idea era maturata il 5 gennaio. Comunicata al direttore del ``Corriere della Sera'' Di Bella, e al vicedirettore, Barbiellini Amidei, che l'avevano approvata, la direttiva sul nuovo codice di comportamento del giornalismo italiano rapidamente veniva trasmesso a tutti gli altri giornali del gruppo. Tutto sembra filare per il meglio; ci sono, addirittura, episodi di eccesso di zelo, come quello di cui è protagonista Maurizio Costanzo, direttore dell'``Occhio''. Costanzo aveva infatti mandato in tipografia un editoriale in cui elencava una serie di provvedimenti urgenti da adottare contro il terrorismo; provvedimenti ``stile'' Valiani: tra l'altro, si chiedeva anche l'introduzione della pena di morte. L'articolo non era uscito perché i redattori, venuti a conoscenza del contenuto l'avevano bloccato in tipografia, costringendo Costanzo a modificarlo sostanzialmente.
Alle ore 12,00 del 5 gennaio Barbiellini Amidei comunica telefonicamente ai funzionari della RAI la decisione assunta dal ``Corriere''-Rizzoli; alle 13, cioè alle prime edizioni dei telegiornali, assieme a Di Bella, dà lo storico annuncio alla nazione. Willy De Luca, il direttore generale della RAI, dal canto suo, convoca i vari direttori dei telegiornali e dei giornaliradio, sollecitandoli ad aderire alla ``crociata''. Accettano di buon grado. Non sono i soli, naturalmente: le agenzie stampa, nel pomeriggio trasmettono e diffondono fiumi di adesioni, dichiarazioni, entusiastici plausi alla decisione assunta. Flaminio Piccoli, che sembra voler fare di tutto per strappare il titolo che appartiene a Zaccagnini, dichiara, riferendosi a quella del ``Corriere della Sera'': "Una decisione coraggiosa". ``Il Popolo'', in una nota del 7 gennaio, scrive:
"Noi giudichiamo saggia, responsabile e assai civile la decisione di molti giornali di non prestarsi in alcun modo a fare da cassa di risonanza ai terroristi...".
``L'Unità'' e il ``Paese Sera'' si associano al ``silenzio stampa''. Una decisione, dicono, che andava assunta molto tempo fa. Montanelli, lui pure si associa, e scrive un articolo ("Uomini e topi") in cui afferma che il ``Giornale nuovo'' stacca la spina. Lo fa, scrive Montanelli, nella consapevolezza e nella certezza d'essere approvato anche dal giudice D'Urso, che, potendo, farebbe altrettanto. Per uno strano scherzo tipografico, proprio dove finisce l'articolo di Montanelli ne comincia un altro, dove dà notizia che il giudice D'Urso chiede alla moglie di impegnarsi perché, nel pieno rispetto della legge, siano pubblicati i documenti di Trani e di Palmi, condizione posta per il suo rilascio.
E' un black-out, per dirla con le parole di Bocca, all'italiana. Intanto non si censurano tanto le notizie relative ai terroristi, quanto le informazioni e le iniziative di quanti non aderiscono al fronte dell'intransigenza, o - più appropriatamente - del cinismo e dell'inerzia.
Ben presto il fronte del ``silenzio-stampa'' si rivela molto meno compatto di quanto poteva sembrare. Giornali come ``Il Messaggero'' o ``La Nazione'' annunciano che non verranno meno al dovere di informare; e anche sul fronte interno, dissensi e defezioni non mancano: si associa, per esempio, il più popolare colonnista del ``Corriere della Sera'', Enzo Biagi, che scrive sulla sua rubrica in seconda pagina un articolo nel quale obietta che la proprietà possa imporre al giornali quel che deve o non deve pubblicare. E' un dissenso che rode, evidentemente, dal momento che assieme all'articolo di Biagi viene pubblicata una noticina in cui la direzione sostiene di non aver subito pressione di sorta e di aver assunto la decisione del black-out in pieno accordo.
Al gruppo Rizzoli, la defezione maggiore è quella che riguarda ``Il Lavoro'', quotidiano di Genova, diretto da Giuliano Zincone. Una storia che va raccontata.
Nella mattinata del 5 gennaio, Tassan Din telefona a Zincone e gli comunica, come ha fatto agli altri quotidiani della Rizzoli, la decisione di applicare a tutte le testate del gruppo la linea della più intransigente fermezza: inoltre il direttore deve pubblicare un fondo in cui si annuncia questo nuovo impegno del giornali. Zincone risponde a Tassan Din che non è d'accordo con la linea. Tuttavia, dal momento che deve cedere il posto di direttore a Ferruccio Borio per rientrare al ``Corriere della Sera'', obbedirà. Solo che quell'articolo di fondo lui non se la sente proprio di scriverlo; propone, ed ottiene, di mettere in prima pagina solo un breve comunicato del gruppo. La questione, tuttavia, non è così semplice: la linea del giornale, e l'opinione di quasi tutti i giornalisti era stata, fino al giorno prima, quella di rifiutare l'equazione: trattativa per salvare D'Urso uguale a cedimento alle BR. Nel pomeriggio ha luogo un'agitata assemblea dei giornalisti, che non accettano di cancellare di colpo la li
nea politica del giornale. Ne viene fuori la decisione di pubblicare; sotto quello della Rizzoli, un comunicato, molto duro, di risposta, dei giornalisti. A Zincone va bene, e in un primo tempo sembra andare bene anche alla Rizzoli, che nella persona del direttore divisione quotidiani, Lorenzo Jorio, dà l'OK. Visionato il comunicato, Jorio non ci pensa sopra due volte a rimangiarsi tutto. Telefona a Zincone e brutalmente gliene dice di tutti i colori: che la redazione del ``Lavoro'' è un insieme di gente irresponsabili; che il giornale fa da cassa di risonanza per il terrorismo; che Zincone è un incapace se tollera tutto questo e se permette la pubblicazione di quel comunicato.
Zincone si vede costretto alle dimissioni per la palese e violentissima sfiducia manifestata da Jorio. Nella lettera che ufficializza le dimissioni, Zincone tra l'altro dichiara di non essere disposto ad aderire ai metodi antisindacali che Jorio gli voleva imporre nei confronti della redazione, per giunta su una linea da lui non condivisa. La redazione e tutti i lavoratori del ``Lavoro'' si schierano compatti con Zincone, e disertano la linea assunta dalla Rizzoli, che è costretta ad ingoiare: anche la minaccia di far uscire il giornale senza l'indicazione della proprietà editoriale nella manchette di gestione, produce scarso effetto. Zincone abbandona il ``Lavoro''; Jorio lo sostituisce protempore, in attesa che sia disponibile Borio, ex direttore del ``Piccolo'', ma il giornale non rientra tra i ranghi dell'intransigenza. Chiudiamo la pagina che riguarda il ``Lavoro'' con una dichiarazione rilasciata da Jorio, dichiarazione che dà la misura dell'uomo: "Tutti i direttori del gruppo sono stati d'accordo che
i giornali non facessero da cassa da risonanza delle BR perché ci sembra che gli assassini debbano avere diritto d'opinione sui giornali. Zincone aveva perplessità! Lui è un aristocratico, può fare di questi gesti, io sono un proletario, e aspetto con la millenaria pazienza proletaria. Vedremo".
La decisione del silenzio stampa suscita intanto inquietudine e perplessità un po' dovunque all'interno delle redazioni dei giornali che hanno aderito all'iniziativa e fuori. Giorgio Bocca non ci pensa due volte, e con la chiarezza che gli è caratteristica, denuncia:
"Se fosse così (silenzio stampa come ``questione morale'' n.d.r.), le direzioni del ``Corriere della Sera'' e della Rizzoli mi sembrerebbero un po' avventate e leggere. Invece io credo che vi siano stati dei motivi più profondi. E quello più profondo di tutti credo sia quello di contrastare ``Il Giornale'' di Montanelli proponendosi come il vero giornale della maggioranza silenziosa, dei moderati, dei benpensanti e di quella larga parte di opinione pubblica italiana che condivide la tesi di Leo Valiani. Per intenderci che è per la durezza totale, per mezzi sempre più ampi alla polizia, ecc. La seconda ragione della scelta del ``Corriere'' credo che sia economica. La Rizzoli è in un momento non facile, ha bisogno di sostanziosi prestiti bancari e stare dalla parte di chi comanda in questi casi serve, serve molto".
Il fronte dell'intransigenza riceve altre scrollate quando i detenuti di Trani e Palmi consegnano ai parlamentari radicali documenti nei quali si dettano le possibili condizioni per sospendere la condanna a morte del giudice D'Urso: tra l'altro la pubblicazione sui principali giornali dei loro documenti.
Leonardo Sciascia, intervistato dal ``Messaggero'' afferma "che la stampa non può ignorare il terrorismo, ed anzi non può ignorare alcun fenomeno, per quanto appaia o sia delinquenziale. Il cittadino ha il diritto ad essere informato, anzi a formarsi un'opinione su qualsiasi argomento. Questo è tra le esigenze di una qualunque collettività. L'oscuramento delle notizie costituisce un brutto sintomo... In quanto ai giornali, forse è vero che essi devono o dovrebbero pubblicare meno analisi, e dar conto invece dei fatti e soltanto di questi. Lo spazio dedicato al terrorismo è forse sempre, non soltanto in questo caso, uno spazio eccessivo: se ne parla troppo, vengono pubblicati tanti articoli sullo stesso fatto, sul medesimo avvenimento. Bisognerebbe forse limitarsi a pubblicare i fatti e i documenti, pubblicandoli in sunto o per esteso, ma evitando le analisi: sono proprio le analisi che confondono o rischiano di confondere le idee ai cittadini".
Sempre più il silenzio stampa contro il terrorismo si rivela essere un silenzio-stampa contro chi sta cercando di strappare alla morte il giudice D'Urso. Un appello del fratello del giudice rapito, Corrado, e due appelli di Sciascia, per la pubblicazione dei documenti di Trani e di Palmi, vengono praticamente ignorati dalla grande stampa di informazione, o liquidati in poche righe.
La polemica sull'opportunità di non pubblicare i documenti dei terroristi, dopo che per anni, e fino a pochi giorni prima, si era loro dato titoli e rilievi enormi, spropositati spesso, raggiunge anche toni aspri e duri.
All'appello di Sciascia, nel giro di poche ore aderiscono anche Eleonora Moro, Stella Tobagi, Andrea Casalegno. Il ``Corriere della Sera'' che aveva finora censurato gli appelli e le dichiarazioni di Sciascia, suo prestigioso collaboratore, sceglie di censurare anche l'adesione e le richieste della vedova di Walter Tobagi. Ma per il quotidiano di via Solferino, la censura non è sufficiente. Così viene commissionato un articolo ad Alfredo Todisco sul ``Coraggioso no alle trattative di due vedove di vittime delle BR''.
L'articolo è uno di quei capolavori giornalistici che avrebbe fatto dire a La Rochefoucauld: "L'ipocrisia è un omaggio che il vizio rende alla virtù".
"Ciò che le ha spinte a non associarsi all'appello - scrive Todisco - è la consapevolezza che alla logica del ricatto mediante ostaggi una collettività non debba soggiacere mai. Non per durezza, per intransigenza o prova di forza: ma per una pura e semplice ragione di sopravvivenza. Coloro i quali invocano l'umanitarismo, dimenticano che ogni cedimento, anche indiretto o mascherato, al ricatto, espone a un rischio mortale ogni cittadino: che diventa possibile ostaggio. Una volta che si è patteggiato per la salvezza di un sequestrato, tutti, anche i cittadini anonimi, diventano sequestrabili; perché non ci possono essere due pesi e due misure".
Se pensate, come sarebbe logico, che il ``Corriere della Sera'' sia andato da Stella Tobagi, a chiederle perché lei invece aveva firmato, vi sbagliate. Il sì della vedova di Walter, a differenza del NO delle signore Alessandrini e Galli, non era ``coraggioso'', e dunque il direttore del ``Corriere della Sera'', lo giudicava non meritevole d'attenzione. Del resto non è che trattamento migliore sia stato riservato dal ``Giorno'' e dalla ``Gazzetta del Mezzogiorno'' nei confronti di Eleonora Moro, e della ``Stampa'', nei confronti di Andrea Casalegno, figlio del vicedirettore ucciso dalle BR.
LA VITA DI UN UOMO VAL BENE DUE COLONNE DI PIOMBO
Dentro le redazioni dei giornali, tuttavia, il fermento cresce: all'appello di Sciascia aderiscono a decine giornalisti di ``La Repubblica'' e del ``Corriere della Sera''; dell'``Europeo'' e dell'``Occhio'' (entrambi gruppo Rizzoli); intellettuali, scrittori, giuristi. Buffa, Cicala, Dell'Aglio, Giardina, Mancini, Sassano, Vecchiato, Zizola, della redazione romana del ``Giorno'' firmano una lettera con la quale rendono pubblico il loro dissenso dalla decisione assunta dal direttore Zucconi di non accogliere l'appello della signora D'Urso per la pubblicazione dei documenti di Palmi e Trani: "Consentici - scrivono - da giornalisti e da uomini liberi di non condividere tale decisione: pensiamo che la stampa non è lo Stato, né il Governo; non abbiamo condiviso l'idea del black-out, riteniamo che la vita di un uomo valga bene due colonne di piombo". Sempre per protesta contro la decisione assunta dalla direzione, Adele Cambria si dimette dal giornale.
"La vita di un uomo vale bene due colonne di piombo", è il leitmotiv che guida tutti gli sforzi di quanti ritengono assurda la decisione improvvisa (e solo apparentemente inspiegabile) di questa ``fermezza'', di questa volontà di non pubblicare i due documenti di Trani e di Palmi. Vengono richieste assemblee dei giornalisti al ``Corriere della Sera'' e all'``Occhio'', al ``Giorno e al ``Messaggero''... un po' dovunque ci sono giornalisti che si ribellano all'assurda consegna del black-out. Il 10 gennaio, sull'``Avanti'', il direttore, Ugo Intini, scriverà:
"...Se c'è una lontana possibilità che la pubblicazione dei documenti distribuiti dalla signora D'Urso serva a salvare il magistrato, di essi va perciò data piena informazione. Sarà un contributo della stampa affinché sia sconfitta, come scriveva la moglie, ``questa crudeltà che riduce gli uomini a simboli calpestando ogni sentimento di umana pietà''. Affinché, accantonati i simboli, ci si renda conto della realtà immediata nei suoi aspetti elementari ed essenziali: da una parte le parole, le colonne stampate di cui dicevamo, la carta; dall'altra la vita umana, la speranza (non si sa se concreta, remota o utopistica) di salvarla.
I direttori responsabili dei giornali non sono uomini di governo. Di fronte all'appello di una famiglia distrutta dal dolore non hanno una strada da seguire, indicata a priori, rigorosamente, dalla legge e dall'esigenza di salvare lo Stato di diritto. Sono soli di fronte alla loro coscienza umana e professionale. E a nostro parere farebbero bene a scegliere per un'ampia informazione, così come farà il nostro giornale...".
La decisione dell'``Avanti'' di pubblicare i documenti di Trani e di Palmi, solleva aspre polemiche. ``L'Unità'' scrive che l'organo socialista accetta le condizioni delle Brigate Rosse e pubblica i loro proclami di guerra; e il capogruppo dei deputati comunisti, Di Giulio, dopo essersi consultato con Berlinguer, Natta e Napolitano, afferma, intervenendo al dibattito alla Camera sull'affare D'Urso, che si tratta di una decisione di una gravità estrema, che conferma, in modo clamoroso, che un partito di governo accetta ``patteggiamenti'' con le BR. Scrive, tra l'altro, ``l'Unità'':
"Si tornerà a ripetere: per salvare D'Urso. Se questa è la ragione vera, si tratta di un macroscopico errore, perché quella vita, insieme con le vite di tanti altri sarà tanto più in pericolo quanto più i rapitori avranno la sensazione che non grava più su di loro il peso schiacciante di una condanna generale e di un isolamento totale. Il condirettore dell'``Avanti'' giustifica la decisione dicendo di non essere ``un uomo di governo'' e di dover obbedire alla sua coscienza umana e professionale, che non lo vincola alla difesa della legge e dello Stato di diritto. Con questa sottilissima evanescente distinzione tra ``l'Avanti'' e il partito si vuole consentire al PSI e al governo di dire che essi non c'entrano. Ma chi è il direttore dell'``Avanti'', se non Bettino Craxi in persona?".
Il segretario del PRI, Spadolini, dal canto suo dichiara che "se avessi la ``Voce Repubblicana'' non ne pubblicherei un rigo" e Mammì gli fa eco, di rincalzo, definendo ``incredibile'' la decisione del quotidiano socialista. Per Montanelli, si tratta di ``Giuochi da magliari'', e Francesco Damato, sul ``Giornale'', tra l'altro scrive: "...si cammina in questo modo su un terreno che potrebbe trasformarsi nella fossa della democrazia...".
Leo Valiani, ormai in concorrenza aperta con Almirante, sgrana sul ``Corriere della Sera'' il suo ormai logoro ricettario per l'imbarbarimento dello Stato:
"Gli inasprimenti legislativi, resi indispensabili dalla recrudescenza del terrorismo, e dalla delinquenza comune e mafiosa, spettano al Parlamento, che esita troppo a votarli. Il governo stesso dovrebbe chiederli alle Camere e, nel frattempo, dovrebbe servirsi degli strumenti che sono già a sua disposizione molto più energicamente di come finora non abbia fatto. Esso ha la facoltà di impedire visite, financo di parlamentari e di familiari, ai detenuti, quando ricorrono situazioni di emergenza. A Trani la rivolta carceraria ha creato una situazione del genere. I rivoltosi dovrebbero essere privati, per punizione temporanea, dei mezzi materiali (carta, penne, macchine da scrivere se ne hanno), coi quali hanno potuto redigere il comunicato contenente i gravi reati che si sono detti...".
``La Repubblica'' nella sua edizione del 9 gennaio, titola a tutta pagina: ``D'Urso, ormai si tratta''. Forattini, le cui vignette da tempo sono assurte a rango di vero e proprio editoriale, disegna un pugno che invece della rosa (simbolo del PR), stringe il megafono. Più compiutamente, in un editoriale apparso domenica 11 gennaio, la ``Repubblica'' comunica la sua intenzione di non cedere "al ricatto, nel nome di altre vite".
Scrive, tra l'altro il quotidiano di piazza Indipendenza:
"...Non è per un sentimento di superba intransigenza che non possiamo accogliere il suo invito (della signora D'Urso, n.d.r.) così toccante e drammatico. Né perché anteponiamo alla vita di una persona le nostre sia pur profonde convinzioni. Noi non abbiamo infatti alcun titolo per metterci al posto dello Stato; né siamo così ``luciferini'' da voler salvare la nostra personale coerenza sulla pelle di un innocente, scelto da una banda di assassini come agnello sacrificale. Noi siamo dei semplici cittadini, come tutti voi che ci leggete, e come tali dobbiamo avere perfino l'umiltà di contraddire noi stessi e di cedere alla violenza di un ricatto sanguinoso, se questo atto di debolezza può avere come risultato quello di salvare una vita. Ma abbiamo letto con molta attenzione il testo del documento Curcio e siamo arrivati alla conclusione che esso non può e non deve essere pubblicato. Non già - soltanto - per le farneticazioni ideologiche che contiene; non già - soltanto - per le grida di vittoria che lancia e i
proclami di insurrezione che diffonde. Ma per un'altra e ben precisa ragione. Il documento di Palmi, scritto da assassini le cui mani grondano sangue, preannuncia una serie di altre azioni terroristiche il cui obiettivo è quello di conquistare spazi sempre maggiori nella stampa, nella televisione e in tutti i mezzi di comunicazione di massa. Al rapimento D'Urso e ai ricatti che sono venuti le BR faranno seguire, dunque, altre analoghe azioni, sempre con l'obiettivo di allargare la loro presenza nel mondo della stampa. Di modo che, come già assistiamo all'incredibile stravolgimento di vedere dei detenuti che si ergono a tribunale giudicante sotto gli occhi di un'autorità impotente che non sa impedire questo fatto inammissibile, così avremmo organi di informazione, ``requisiti'' per ragioni umanitarie, a simboleggiare la potenza dei terroristi e a diffonderne i messaggi.
Ecco perché non possiamo aderire alla richiesta della famiglia D'Urso. Dopo aver letto quelle parole, sappiamo per certo che la loro pubblicazione avrebbe aperto la strada ad altre delittuose azioni, che hanno tutte come fine ultimo quello di disarticolare la comunità nazionale e le leggi che il popolo si è liberamente dato dopo la guerra di resistenza contro il nazismo.
E' dunque per una considerazione umanitaria, oltre che per rispetto a profonde convinzioni politiche e morali, che respingiamo il ricatto".
Non paga di rivendicare le sue ``ragioni politiche e morali'' che la fanno intruppare nel partito Rizzoli, ``La Repubblica'' crede di individuare contraddizioni in quanto sostenuto da Leonardo Sciascia. E' dai tempi di Moro che Scalfari si ``becca'' con Sciascia; come allora, meglio avrebbe fatto ad occuparsi d'altro.
In particolare, la ``Repubblica'' crede di individuare una contraddizione tra quanto Sciascia dichiara, in un'intervista all'``Espresso'' e il contenuto di un suo appello contro il black-out. Miopia della ``Repubblica''.
Sciascia, infatti, dice all'``Espresso'' che "...con la decisione di chiudere l'Asinara, il governo ha messo con le spalle al muro le BR. Ottenuto questo, avrebbero dovuto liberare subito D'Urso. Hanno invece chiesto altro. E allora ecco che coloro i quali, per il caso Moro e per questo di D'Urso, stavano contro il partito della fermezza, sono ora costretti dai fatti a non esserlo più, come me".
La contraddizione consisterebbe nel fatto che nell'appello Sciascia invita i giornali che hanno deciso il black-out sulla vicenda a sospendere tale decisione. Solo che i giornali non solo lo Stato. E che se dopo la chiusura dell'Asinara lo Stato non aveva più altro da concedere, questo non significava che i giornali non potessero sospendere la loro decisione del silenzio stampa. Se si vuole, inezia lieve, ma greve.
Continua, frattanto il fermento all'interno delle redazioni.
Al ``Messaggero'' si susseguono le assemblee. La linea che alla fine scaturisce è che i documenti di Trani e di Palmi verranno pubblicati se si avrà l'esplicita assicurazione, da parte delle BR che questa è la condizione per la liberazione di D'Urso. Analoga decisione viene assunta dal ``Secolo XIX''. Il ``Giorno'' annuncia che i documenti di Trani e di Palmi verranno pubblicati, ma che prima D'Urso deve essere rilasciato. Il direttore de ``La Nazione'', Piazzesi, è tra coloro che vorrebbero pubblicare. Un intervento diretto della proprietà glielo vieta. Non potendo fare altro, Piazzesi pubblica gli appelli di Sciascia e della famiglia D'Urso. E di suo pugno; scrive:
"Caro Sciascia, ti ho sempre stimato molto, come scrittore e come uomo, e perciò pubblico integralmente il secondo appello, con una breve risposta. Tu sostieni che dinanzi ai ricatti delle BR il governo non può e non deve ulteriormente cedere. D'accordo: e proprio per non dare l'impressione di un cedimento il governo avrebbe dovuto ritardare almeno di qualche settimana lo sgombero dell'Asinara. Tu sostieni che i direttori non sono i governi e che l'eventuale pubblicazione del documento BR non potrebbe essere mai considerata come un cedimento da parte dello Stato. Parola più parola meno è quanto ho scritto domenica scorsa sul mio giornale. Anzi, per sottolineare ancora più l'aspetto ``privato'' di questa eventuale pubblicazione io l'avrei subordinata a una condizione precisa. Visto che un direttore non ha funzioni istituzionali, ma non deve nemmeno essere contro lo Stato avrei accettato di non pubblicare soltanto in un caso: qualora mi fosse stato rivolto un esplicito invito in questo senso dal presidente del
consiglio.
Questa mia presa di posizione fu oggetto di un civile discussione col mio editore, che espresse il suo completo dissenso.
L'editore mi ha espressamente ``invitato'' a non pubblicare i documenti. E' vero che fino a quando firmo il giornale posso pubblicare quello che voglio, ma è altrettanto vero che nel momento in cui avessi respinto questo invito avrei infranto quel rapporto di fiduciario con l'editore che intendo rispettare in qualunque caso e in qualunque circostanza.
Ho deciso di restare al mio posto perché è stato garantito il ``rispetto'' della mia posizione. Considero che questo conflitto di opinioni, per quanto profondo, è circoscritto a uno solo episodio. Spero di non trovarmi più in una situazione del genere. Sul mio comportamento giudica tu, giudichino gli altri. Posso soltanto dirti che vado a letto più tranquillo".
Per un Piazzesi così sensibile, così ``dilaniato'' tra la sua coscienza di uomo e di giornalista e il diktat della proprietà, vi sono decine di altri che il problema neppure se lo pongono. No, punto e basta. No ai documenti che possono salvare la vita di D'Urso; no all'appello di Sciascia; no, perfino, alle inserzioni pubblicitarie radicali: mica che ci fosse qualcosa di scandaloso, tutt'altro, solo questo: per Giovanni D'Urso, ascolta ``Radio Radicale'', e poi la frequenza sulle quali sintonizzarsi. Il ``Corriere della Sera'' rifiuta perfino la pubblicità ``Radio Radicale'', senza i riferimenti a Giovanni D'Urso.
Se al ``Corriere della Sera'' si piange, a ``La Repubblica'' non è che si rida. Scalfari, ai redattori intenzionati ad aderire all'appello Sciascia-Moro-Tobagi-Casalegno, fa un discorsino del tipo: cari signori, tenete presente che firmando additate, di fatto gli altri, quelli che non firmano, al mirino delle BR. E quando gli chiedono di fare un'assemblea di redazione, ineffabile, con il suo sorriso da gatto, sussurra: se volete fare della ginnastica, fate pure. E poi fa presente che comunque, qualunque decisione possa essere assunta, chi dirige il giornale è lui, e che quindi la linea non si discute.
Nel frattempo, la magistratura romana firma 85 ordini di cattura per concorso nel sequestro D'Urso, nei confronti dei detenuti di Palmi e di Trani che hanno partecipato alla stesura dei documenti che subordinano il rilascio del giudice D'Urso alla pubblicazione dei comitati di lotta. Una mossa che ha del ``mafioso''; se D'Urso verrà ucciso, i detenuti di Palmi e di Trani verranno ritenuti responsabili dell'omicidio. L'incriminazione di Curcio, Alunni e gli altri per il sequestro, scrivono i giornali, serve per ``aprire una breccia'' tra i detenuti di Trani e Palmi.
La famiglia D'Urso, a 24 ore dalla scadenza dell'ultimatum delle BR, rivolge un appello alla stampa per ottenere la pubblicazione. Anche Giovanni Paolo II invoca la liberazione durante la celebrazione dell'Angelus. Per poche ore si era sparsa la notizia che ``l'Osservatore Romano'' avrebbe potuto pubblicare i documenti dei detenuti di Trani e di Palmi. La notizia si rivelerà infondata. Per tutta la domenica 14 gennaio è un susseguirsi di appelli, lanciati da Sciascia, Pannella, Eleonora Moro, Stessa Tobagi, Andrea Casalegno.
Il giorno dopo, lunedì 12 gennaio, il Partito Radicale chiede ed ottiene tribuna politica flash, che mette a disposizione della famiglia D'Urso. Lorena D'Urso, figlia maggiore del magistrato rapito, lancia un appello alle BR e ai direttori dei giornali. La ragazza legge anche un brano del comunicato di Palmi. I giornali dell'``intransigenza'' strillano subito allo scandalo; in particolare, si distinguono ``Unità'' e ``Paese Sera'', per i quali Pannella avrebbe indotto la figlia di D'Urso a chiamare ``boia'' il padre.
``L'Unità'' pubblica un corsivo che merita d'esser riportato:
"...Vogliamo dire la nostra terribile sofferenza, la nostra profonda umiliazione per ciò che ieri sera dagli schermi della televisione è stata costretta a fare la figlia di D'Urso nei quattro minuti messi a sua disposizione con cinico calcolo dai radicali. Per lei c'è tutto il nostro affetto, tutta la nostra partecipazione. Per Pannella c'è tutto il nostro disprezzo.
Iersera, in quei quattro minuti la figlia di D'Urso ci ha dato - se ce ne fosse stato ancora bisogno - una prova estrema della necessità di resistere in nome, prima di ogni altra cosa, della dignità umana. E' stata costretta perfino a leggere le parole dei suoi torturatori, di quegli assassini che, sequestrato suo padre da un mese, decisi ad ucciderlo lo definiscono ``boia''; e questa parola, pronunciata da lei, vittima sacrificale di questa mostruosa vicenda, di questa ignobile messa in scena segna il punto di massima abiezione delle BR e di coloro che si prestano ad appoggiare o a subire i loro ricatti.
Quei quattro minuti sono stati un flash allucinante ma rivelatore del livello di barbarie al quale tutti saremo condannati se i terroristi potessero prevalere. No, dunque, ancora con il dolore straziante e con il pianto. Un no che sentiamo di dover dire anche per Lorena D'Urso e anche per suo padre".
Il ``Paese Sera'', titola: "Costretta da Pannella a definire ``boia'' il padre". Nel testo, scrive: "Hanno costretto Lorena D'Urso, la giovanissima figlia del magistrato sequestrato dalle BR a leggere in televisione stralci di un comunicato con il quale i terroristi definiscono il prigioniero ``un boia giustamente condannato''. Sono stati momenti strazianti...".
In una dichiarazione all'ANSA, Lorena D'Urso afferma "di non essere stata costretta da nessuno a leggere alla televisione il comunicato di Palmi. L'ho fatto di mia volontà e al solo scopo di salvare mio padre, esaudendo in qualche modo le richieste delle BR".
La dichiarazione di precisazione e smentita di Lorena D'Urso serve a ben poco. Si acuiscono i livori e i rancori mal sopiti in tutti quei giorni. E i giornali dell'intransigenza arriveranno a scrivere cose ignobili, allucinanti deformazioni di verità e clamorose falsificazioni; una rapidissima carrellata: "La figlia del giudice in TV costretta a leggere la frase: ``Il boia D'Urso''" (``Corriere della Sera''); "Il ricatto delle BR è giunto al suo punto più abietto. La figlia del giudice Lorena è stata costretta a definire ``boia'' suo padre nel corso di un agghiacciante appello in TV. Lo spazio le era stato concesso dal Partito Radicale" (``La Repubblica''); "Ieri sera, al TG2, i quattro minuti di Tribuna elettorale flash spettanti al Partito radicale hanno trasmesso un'immagine terribile: la figlia adolescente del giudice D'Urso implorava i giornali di esaudire le richieste dei terroristi..." (``La Stampa'').
Su ``l'Unità'', un comunista ``soft'', come Lucio Lombardo Radice, ("Il ``compagno'' dei brigatisti perde la testa: gli assassini sono i giornalisti", del 13-1-1981), scrive, tra l'altro:
"...Invece Marco Pannella, si sta comportando nei fatti come un fedele compagno degli assassini... Di questo rovesciamento propagandistico si incarica il compagno - loro, non nostro - Marco Pannella, colla sua rozza sofistica, il suo gusto per la volgarità violenta, i suoi patologici complessi di superiorità... Una posizione sbagliata, ma non spregevole come tutte le parole e i gesti di Pannella... Mancava loro un compagno. Lo hanno trovato. E' giusto che Marco Pannella sia protetto dalla immunità parlamentare, non invoco davvero processi penali e condanne contro di lui. Possiamo però e dobbiamo colpirlo con una condanna non cruenta ma non meno dura: la condanna morale della esclusione dal dialogo con chi ha davvero senso di umanità".
Su ``La Repubblica'' appare un articolo, "Ma stavolta non sarà l'8 settembre". Vi si scrive, tra l'altro che "i deputati radicali, utilizzando le loro prerogative costituzionali che abilitano i membri del Parlamento ad accertare le condizioni di vita dei detenuti, si sono fatti consapevole strumento di messaggi di ricatto e di morte. Gli stessi deputati radicali stanno conducendo dalle loro radio e dalle loro televisioni una campagna di vero e proprio terrorismo, indicando per nome i direttori di giornale di null'altro colpevoli che di impedire che la propaganda delle BR invada le pagine della stampa italiana...".
L'articolo, prosegue:
"Quelli di noi che ricordano la Resistenza sanno che anche allora i nazisti ricattavano l'esercito partigiano imponendogli di consegnarsi pena la decimazione dei villaggi o dei prigionieri e sanno che nessun combattente partigiano ha mai ottemperato a quegli ordini né si è sentito responsabile di quelle stragi, la cui infamia ricadeva unicamente e soltanto sui carnefici".
L'editoriale terminava con il tentativo di coinvolgere, con appelli indecorosi, anche il Presidente della Repubblica:
"Così è anche oggi. E non c'è terrorismo verbale dei radicali e non c'è appello di uno Sciascia qualunque che possano rovesciare impunemente la realtà dei fatti; chi uccide D'Urso sono i suoi carnefici e chi ha offerto ad essi la possibilità materiale e l'agibilità politica per trasmettere i loro messaggi, che sono altrettanti colpi di pistola sparati contro le regole fondamentali della nostra convivenza.
Quando alcune forze politiche e alcuni membri del Parlamento tradiscono le leggi cui hanno giurato fedeltà, allora si può ben dire che qualcuno sta vendendo la Repubblica ai suoi avversari.
Mai come ogni attendiamo fiduciosi una parola di Sandro Pertini. Non solo di Sandro Pertini capo dello Stato, ma di Sandro Pertini combattente antifascista: perché ancora una volta la lotta contro i nemici della libertà è ricominciata".
In risposta a questo ed ad altri, simili articoli, commenta Pannella:
"Coloro che oggi rievocano la nascita del fascismo, l'atmosfera del 1921, parlano dei loro sogni, smascherano anche in questo modo i loro piani, la loro natura (che è già, poi, non di rado, la loro storia).
Da Almirante a Valiani, da Scalfari a Berlinguer, il partito della forca, il partito dei giacobini e dei borbonici si è ricostituito ed ha bisogno, come il fascismo di allora, di inventare, creare, nutrire, il caos, di sfornare e far sfornare i cadaveri per legittimare il nuovo ``sfascio'' delle forze sane e salvatrici dell'ordine. Solamente per questo gli assassini di non più di trenta persone in un anno sono stati posti al centro della vita del paese, della vita dello Stato. Per questo, esplicitamente, si è detto e scritto che D'Urso, ormai, serve come martire e vittima, e che si a il dovere di non far altro che lasciarlo al suo destino. Per questo, in primo luogo Rizzoli, ha smentito in modo clamoroso dinanzi alla vita o alla morte di D'Urso, ogni sua prassi precedente. Comunisti e fascisti, un certo mondo finanziario e capitalistico internazionale, forte della P2, sindoniano, mafioso, puntano alla seconda repubblica, al golpe strisciante, che già stanno realizzando, anche con appelli espliciti al Preside
nte della Repubblica. Speriamo che sia la follia di un momento, e che tutto questo non duri quanto al follia delle unità nazionali, che ha portato lo Stato in ginocchio dinanzi al terrorismo e allo sfascio".
Non è la sola ``trovata'' escogitata nel tentativo di linciare i radicali. Guido Neppi Modona, su ``La Repubblica'' ("I radicali cavalcano la tigre terrorista"), denuncia come vi sia stato un "cumolo d'illegalità che ha aperto la strada a tutte le tappe del ricatto che il paese sta subendo in un clima sempre più torbido e confuso"; e dal canto loro ``Unità'', ``Paese Sera'' e ``Corriere della Sera'' denunciano un ``falso in atto pubblico'' compiuto da Pannella, che avrebbe visitato il carcere di Trani fingendosi deputato.
Scrive ``Paese Sera'':
"Falso in atto pubblico: è questo il reato di cui viene accusato da più parti in questi giorni Marco Pannella, che si è fatto passare per deputato all'ingresso del supercarcere di Trani. Potrebbe costargli molto caro.
Nei giorni scorsi il leader radicale si era recato, insieme ad una delegazione di parlamentari del suo partito, in visita al supercarcere pugliese. Un'iniziativa perfettamente in regola con le norme dell'ordinamento penitenziario, che limitano però l'accesso ad un istituto di pena, anche senza autorizzazione, ad un ristrettissimo numero di persone, fra cui appunto i parlamentari. Pannella non è però più deputato del Parlamento italiano dal 14 novembre scorso, quando si dimise per far posto all'ex segretario del suo partito, Giuseppe Rippa. Ora è solo un deputato del Parlamento europeo, per cui libero accesso, in un istituto di pena, non gli è più concesso. Il leader radicale poteva benissimo qualificarsi come assistente dell'on. De Cataldo, anche lui in visita al supercarcere, ma non lo ha fatto. Alla direzione del carcere ha esibito, come documento di riconoscimento, la sua vecchia tessera di parlamentare, la numero 82, rilasciata dalla Camera dei deputati il 29-6-79, come risulta sul registro delle visite.
Pannella minimizza il caso: ma è una semplice dimenticanza, o non invece un abuso voluto?".
Analoghi gli interrogativi e le denunce di ``Unità'' ("Chi ha autorizzato i colloqui radicali-BR?") e ``Corriere della Sera'' ("Confermato che Pannella si finse ancora deputato per visitare le carceri", e "Polemiche contro i radicali per l'espediente di Pannella nel supercarcere di Trani").
Si tratta comunque, di una polemica che dura lo spazio di un mattino, superata come viene dal corso degli eventi. Il 13 gennaio, infatti, una lettera di Giovanni D'Urso viene ``recapitata'' al direttore dell'``Avanti'', Intini.
"La condanna a morte - scrive il magistrato - potrà non essere eseguita qualora da parte dei più importanti quotidiani si faccia luogo alla pubblicazione dei comunicati di Trani e di Palmi". E' il segnale che avevano invocato ``Messaggero'' e ``Secolo XIX'', i quali decidono di pubblicare i documenti. Nel comunicato numero 10, fatto ritrovare il 14 gennaio, le Brigate Rosse scrivono che "...la giustizia proletaria acconsente a un atto di magnanimità... la sentenza viene sospesa e il prigioniero D'Urso viene rimesso in libertà...". Si susseguono ore di ansia e di angoscia, poi finalmente, la mattinata del 16 gennaio, vicino al ministero di Grazia e Giustizia, dentro una macchina, legato ed imbavagliato, Giovanni D'Urso viene ritrovato vivo.
L'incubo è finito: con la liberazione di D'Urso vince la vita contro la morte, la democrazia e il dialogo contro il partito della forca, senza dover trattare, senza dover fare i megafoni o i postini delle BR, facendo solo opera di verità. Ma se con la liberazione di D'Urso ci si è come liberati di un peso, la partita, nel suo complesso, è tutt'altro che chiusa. Dalle BR ai brigatisti dell'informazione e della DC, da quelli sindoniani a quelli del potere - dice Pannella - marciano divisi, ma colpiscono insieme quando c'è ombra di radicali in vista.
``Il Corriere della Sera'' così commenta la liberazione di Giovanni D'Urso:
"Abbiamo accolto la notizia del ritorno alla vita di Giovanni D'Urso con un sospiro di sollievo. Ma se questo obiettivo è stato conseguito non lo si deve certamente a questa maggioranza di governo ondivaga, incerta, ambigua e bifronte che ha dato all'opinione pubblica uno degli spettacoli più desolanti degli ultimi 35 anni di storia patria".
Da ``Paese Sera'' alla ``Repubblica''; da ``Unità'' a ``Resto del Carlino'', è tutto su questo tenore. Chi ha liberato D'Urso, dicono i giornali dell'intransigenza, sono stati coloro che non hanno accettato di scendere a patti; coloro che non hanno trattato, e non pubblicato; chi ha spiccato l'ordine di cattura nei confronti dei detenuti di Trani e di Palmi.
Radicali, e chi come loro, voleva pubblicare i documenti e aprire un ``dialogo'' con i terroristi, nel migliore dei casi, ha fatto confusione, alzato polverone. Oppure, come Pannella, ha tramato contro la Repubblica e la democrazia.
Scalfari attacca poi con la storia delle ``violenze'' che lui e gli altri giornalisti che non hanno accettato di subire il ricatto, avrebbero subito dai radicali; l'aggressione che sarebbe stata perpetrata e consumata attraverso i microfoni delle ``Radio Radicali''; le telefonate di insulti e di minaccia...
E' vero: i radicali, attraverso le loro radio hanno invitato a telefonare. Ma non agli Scalfari, ai Fiori, ai Di Bella. Si invitava, invece a telefonare agli Emiliani, ai Tito, ai Piazzesi, ai Zincone, per dire loro, solo: "Grazie, per Giovanni D'Urso".
Il direttore del ``Corriere della Sera'', Di Bella, intervistato da ``Repubblica'', si abbandona ai suoi ``sogni proibiti''; candida a ministro dell'interno Pecchioli e Pajetta. Dice che ci vorrebbero persone con ``attribuiti virili'', come Scelba (Montanelli, al solito è meno ipocrita: lui non si paluda dietro la terminologia che vorrebbe esser ``fine'', degli ``attributi virili'', e parla, molto più esplicito, di ``palle''). Cerca di ridicolizzare il direttore del ``Messaggero'', Emiliani; ammette tranquillamente che per quanto riguarda l'affaire D'Urso i giornalisti sono stati completamente esautorati da ogni decisione, assunta, solo ed unicamente da direttore, vice-direttore, direttore generale... Un tiro al bersaglio, il cui unico obiettivo sono i radicali.
Quanto sta accadendo, lo chiarisce molto bene Pannella in una sua nota del 20 gennaio:
"Le sordide, immonde insinuazioni, gli anatemi e le menzogne con cui la stampa comunista sta cercando di liberarsi dei radical-brigatisti, oggi, come dei radical-fascisti, ieri, per cercare in qualche modo di salvarsi imbarbarendo sempre più la vita politica, mi costringe a prender atto che, nel Partito in cui per trent'anni si sono giustificate ed esaltate le più ignobili pagine del secolo, quelle naziste e comuniste, gli stermini, i processi, le invasioni, le torture, la criminalizzazione di partiti e ideologie intere, quei riflessi sono di nuovo vivi, dominanti, e tentano disperatamente di mantenere nell'ignoranza e nel falso la lotta politica.
Non a caso, ormai, è il direttore del ``Corriere della Sera'' (e quale direttore!) ad auspicare che il ministro degli interni e quanto del Governo deve applicarsi all'ordine pubblico sia tenuto da comunisti quali Pajetta e Pecchioli, ed a dichiararlo dalle colonne della ``Repubblica'', che colano lacrime e pietà, di fronte alle sventure del povero Di Bella.
Il compromesso storico con il mondo cattolico e clericale, voluto dagli stalinisti e da Togliatti, ha impedito il sorgere della prima Repubblica in Italia.
Quello che gli epigoni impazziti e frustrati stanno ormai cercando di realizzare con il ``capitale'', saldando Calvi, Gelli, Agnelli, la finanza massonico-sindoniana, aprendo perfino i salotti romani al tentativo di sfruttare l'azione delle BR per destabilizzare ulteriormente governi e parlamento, per giungere al governo detto Visentini, sotto la sferza degli editori dell'``Espresso'' e di ``La Repubblica'', e del capofazione Scalfari, e quella degli andreottiani, punta ad affermarsi sulle macerie della Repubblica e della democrazia.
Questi apprendisti-stregoni e questi personaggi non di rado uniti da una vera e propria associazione sovversiva, lavorano da prussiani per il Re di Prussia. Cioè per un intervento alla turca, per una sistemazione del Mediterraneo sotto l'egida della NATO".