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Sarti Adolfo, De Cataldo Franco, Aglietta Adelaide - 1 marzo 1981
LA PELLE DEL D'URSO: (47) La polemica con il Ministro di Grazia e Giustizia Sarti (17-27 gennaio) (prima parte)

SOMMARIO: L'azione del Partito radicale per ottenere la liberazione del giudice Giovanni D'Urso rapito dalle "Brigate rosse" il 12 dicembre 1980 e per contrastare quel gruppo di potere politico e giornalistico che vuole la sua morte per giustificare l'imposizione in Italia di un governo "d'emergenza" costituito da "tecnici". Il 15 gennaio 1981 il giudice D'Urso viene liberato: "Il partito della fermezza stava organizzando e sta tentando un vero golpe, per questo come il fascismo del 1921 ha bisogno di cadaveri, ma questa volta al contrario di quanto è accaduto con Moro è stato provvisoriamente battuto, per una volta le BR non sono servite. La campagna di "Radio Radicale che riesce a rompere il black out informativo della stampa.

("LA PELLE DEL D'URSO", A chi serviva, chi se l'è venduta, come è stata salvata - a cura di Lino Jannuzzi, Ennio Capelcelatro, Franco Roccella, Valter Vecellio - Supplemento a Notizie Radicali n. 3 - marzo 1981)

LA POLEMICA CON IL MINISTRO DI GRAZIA E GIUSTIZIA SARTI

L'intervista del ministro al giornale ``La Repubblica'' (17 gennaio)

ROMA - I giorni drammatici del sequestro D'Urso, la "questione" socialista e le polemiche tra le forze politiche, il vuoto d'iniziativa del governo Forlani, la divisione nella stampa tra giornali che non hanno ceduto al ricatto BR e quelli che hanno pubblicato i proclami dei terroristi, la "mediazione" dei radicali a Palmi e Trani. Sono questi i temi che il ministro della Giustizia Adolfo Sarti ha accettato di discutere in una intervista a "Repubblica". Giovedì, il giorno stesso della liberazione di D'Urso, il ministro ha incontrato il magistrato: "Ho visto un uomo sereno, disposto a riprendere subito il suo lavoro. Ai brigatisti non ha rivelato alcun segreto, non ha fatto alcun nome che non fosse di pubblico dominio". Non pensa che l'operazione D'Urso, come viene definita dalle BR si sia chiusa in attivo per i terroristi? "Lo Stato non ha ceduto, anche per quanto riguarda l'Asinara, il governo non ha fatto altro che applicare un provvedimento già deciso". E i radicali di Trani? "Questo è un capitolo penoso,

i deputati radicali hanno sicuramente travalicato dai compiti ispettivi che la legge assegna ai membri del Parlamento nelle carceri". Qual è il giudizio sui socialisti? "Mi ha spiacevolmente sorpreso l'iniziativa dell'"Avanti!" Quanto a Craxi, il mio parere è che si sia mosso esclusivamente per ragioni umanitarie, ma la sua immagine di uomo deciso, di socialista risoluto nella difesa dello Stato, esce alquanto sconfitta". E sui giornali? "Io stesso, dai banchi del Senato, invitai la stampa a non pubblicare i documenti delle BR".

Il ministro della Giustizia, Adolfo Sarti, ha incontrato a lungo, il giorno stesso della sua liberazione, il giudice Giovanni D'Urso. E così racconta il colloquio.

Un uomo sereno disposto a riprendere il suo lavoro

"Un uomo sereno, disposto a riprendere fin da domani il suo posto di lavoro. Credo che ragioni di evidente opportunità sconsiglino che torni a ricoprire l'incarico di prima, ma il suo stato d'animo glielo consentirebbe pienamente. Mi ha detto che per tutti i 33 giorni di prigionia ha avuto due pensieri fissi: come evitare la morte fisica e come evitare la morte civile. E direi che, con l'aiuto di alcune circostanze e soprattutto del suo carattere, è riuscito ad evitarle entrambe. Voglio dire subito una cosa molto importante: il giudice D'Urso, come risulta dal memoriale pubblicato dall'"Espresso" anche per la parte non stampata ma che l'amministrazione della Giustizia conosce, non ha rivelato alcun segreto, non ha fatto alcun nome che non fosse di pubblico dominio. Tutto quello che ha detto ai suoi carcerieri è stampato in questo volume, il ``Ruolo d'anzianità della magistratura'', aggiornato al 1· gennaio 1980 e edito dal Poligrafico dello Stato. E' un volume in libera vendita al pubblico. D'Urso ha rivelat

o ai brigatisti esattamente quello che è stampato qui e chi essi conoscevano già".

Il ministro Sarti ha il volume sulle ginocchia. Lo sfogliamo insieme e lo confrontiamo con il memoriale stampato dall'"Espresso" anche nelle parti che il giornale ha autocensurato: il riscontro è esatto, non c'è assolutamente niente di più.

"Dunque, signor ministro, non è certo per aver notizie riservate che D'Urso è stato rapito"?

"Assolutamente no. Del resto, notizie riservate in questo ministero non esistono perché qui tutto avviene alla luce del sole, secondo leggi, regolamenti, norme di carriera. No, non è per aver notizie che l'hanno rapito".

"Perché allora? Perché, secondo lei"?

Creare l'unità tra terroristi liberi e detenuti

"Per tre ragioni, credo. La prima: dare un segnale, un avvertimento ad un settore specifico dell'amministrazione. La seconda: creare o ricreare un'unità tra i terroristi in libertà e i terroristi in carcere: ormai i terroristi in carcere sono molti, una parte rilevante degli effettivi delle Br e per i killers che operano fuori è essenziale ricostituire un'unità che negli ultimi tempi era stata fortemente intaccata. La terza ragione è tutta politica: utilizzare il rapimento per dividere le forze politiche e indebolire la tenuta democratica del paese".

"Non pensa, onorevole Sarti, che questa terza ragione sia di gran lunga predominante sulle altre due"?

"E' possibile. Sì, è possibile".

"E non pensa che, almeno su questo punto, l'operazione D'Urso, come l'hanno chiamata le BR, si chiude in attivo per loro e in passivo per le istituzioni e per le forze democratiche"?

"Lo Stato non ha ceduto".

"Apprezzo questa sua convinzione".

"Non è una semplice convinzione. Risulta dai fatti. Vuole lei che parliamo ancora dell'Asinara? Sia il presidente del Consiglio che io abbiamo spiegato a sufficienza e documentato che l'Asinara è stata chiusa per decisione unilaterale del governo e precedente al rapimento D'Urso. Lo sgombero dei prigionieri era in atto da mesi, con la gradualità necessaria. Quando D'Urso è stato rapito, erano rimasti nella sezione di massima sicurezza poche unità di prigionieri terroristi. Certo, abbiamo affrettato lo sgombero, me ne assumo personalmente la responsabilità. Ho ritenuto che affrettare di qualche giorno una misura già da tempo in corso d'esecuzione potesse contribuire a salvare quella vita. Personalmente non credo che sia quella la ragione per cui alla fine D'Urso è stato liberato; ma comunque, io ho leggermente accelerato lo sgombero. Tutto qui".

"Perché, onorevole Sarti, avevate deciso di chiudere l'Asinara"?

Perché regalare una Bastiglia ai paranoici?

"Guardi, è molto semplice. L'Asinara ha una posizione logistica assurda. Quando i parenti dei detenuti andavano a visitarli, dovevano trascorrere sull'isola, ospiti dell'amministrazione carceraria, parecchi giorni, perché il mare in quella zona è quasi sempre assai mosso e il traghetto assai spesso non può svolgere il servizio. Tutto ciò causava difficoltà e penosità assai serie e del tutto inutili. Perciò l'amministrazione decise lo sgombero, fin da quando, un paio d'anni fa, il generale Dalla Chiesa lo suggerì. Come ho detto, i detenuti terroristi erano ormai assai pochi. E allora? Questa faccenda mi ricorda la Bastiglia. Abbattere la Bastiglia era diventato, per due generazioni di francesi illuministi, il segno della lotta alla tirannide. Ma lo sa lei quanti erano i prigionieri della Bastiglia in quel famoso 14 luglio 1989? Esattamente sette: l'ottavo, il marchese De Sade, era uscito pochi giorni prima. Ho detto ai miei collaboratori: perché regalare una Bastiglia a questi paranoici? Perché dar l'impressi

one agli italiani che abbiamo un'altra Cajenna a un braccio di mare da Stintino? Allora, chiudiamola subito. Questa è la vera storia dell'Asinara, e nessuno la conosce meglio dello stesso D'Urso, che era investito del problema per ragioni d'ufficio. Mi ha detto, nel nostro incontro di ieri, che questo pensiero della Bastiglia l'ha avuto assai presente durante i giorni di prigionia e l'ha confortato. Mi ha detto anche che quando portava il discorso sull'Asinara, i suoi carcerieri s'innervosivano, cambiavano argomento. Per loro l'Asinara è stata un pretesto per giustificare con una vittoria concreta il termine dell'operazione. Ma le cose stanno esattamente come io le ho detto e il governo non ha ragione di sentirsi né sconfitto né umiliato per la chiusura di quel carcere".

"Ne chiuderete altri, tra quelli di massima sicurezza? E abolirete o attenuerete la differenziazione tra i detenuti "politici" e quelli comuni"?

"No. Al contrario; la differenziazione rimane sempre più la base della politica carceraria del governo. Noi dobbiamo assicurare l'umanità del trattamento con la massima sicurezza interna ed esterna. Questo è il nostro impegno".

"La rivolta di Trani dimostra che la massima sicurezza interna non c'è affatto".

"Sarà per noi una fonte d'insegnamento per migliorare la situazione".

"L'episodio dell'Asinara è soltanto uno di questa estenuante vicenda. Ce ne sono stati altri..."

"Ah, so bene a quali si riferisce: la libertà provvisoria ai detenuto Faina, le sentenze dei detenuti nelle carceri di Trani e di Palmi, le visite dei deputati radicali a Trani. E' questo cui lei allude?"

"Esattamente questo".

"Bene. La liberazione di Faina è stata esclusivamente opera della procura della Repubblica di Firenze, nella sua autonomia. Io ho pubblicamente dichiarato di ritenere inopportuna quella decisione, arrischiando con ciò d'invadere un campo di decisioni nel quale l'esecutivo non dovrebbe entrare. Ho tuttavia corso questo rischio affinché non ci fosse il minimo dubbio che quel provvedimento non era stato minimamente influenzato dal governo..."

"La magistratura non è uno dei poteri dello Stato, signor ministro della Giustizia"?

"Ma certo che lo è".

"E se la magistratura accetta una richiesta terrorista, non è dunque lo Stato che accetta"?

"Sì, ma non il governo".

"Sto parlando dello Stato".

Decisione unilaterale della magistratura

"La magistratura è un potere dello Stato, questo è indubitabile. Ma nel caso Faina la magistratura ha agito per decisione unilaterale, non sotto ricatto".

"Questo lo dice lei. Ma lei sa che la liberazione era stata chiesta dai terroristi. Comunque: volgiamo dire che anche in questo caso, come in quello dell'Asinara, le BR hanno chiesto cose che avrebbero dovuto esser state fatte prima ancora d'essere chieste?"

"Ne sono profondamente convinto".

"E perché non le avevate fatte? Perché il governo per la sua parte, e la magistratura per la sua, non avevano fatto cose giuste e già decise"?

"Non so rispondere, se non ammettendo che siamo stati forse troppo lenti ad agire in quel senso".

"Ne prendo atto, signor ministro della Giustizia. Cercate d'ora in poi d'essere un po' più lucidi e rapidi, se non volete fracassare del tutto lo Stato. Mi pare che siate già abbastanza avanti su questa strada".

"E' inutile dirle che non sono d'accordo con lei".

"Ed è inutile che io ribatta che sono le stesse ammissioni a darmi ragione. Vogliamo passare agli altri argomenti?"

"Ecco. Non c'è stata alcuna riunione ufficiale, che possa definirsi tale, dei detenuti di Trani e di Palmi. Ci sono stati dei documenti. A Trani sono stati affidati ai deputati radicali, a Palmi agli avvocati difensori. Comunque quei documenti, in un modo o nell'altro, sarebbero usciti dal carcere e arrivati sui vostri tavoli".

"Vorrà riconoscere che non è una gran prova di sicurezza interna ed esterna, questa".

"E' un fatto, però. Escluso comunque che ci sia stato lassismo da parte della magistratura locale e dell'amministrazione carceraria".

"Veniamo ai deputati radicali a Trani".

"Ebbene, questo è un capitolo penoso. I deputati radicali hanno sicuramente travalicato i compiti ispettivi che la legge assegna ai membri del Parlamento nelle carceri. Io ho autorizzato quella visita. Avrei potuto impedirla solo appellandomi all'articolo 90 del regolamento carcerario. Non l'ho fatto...".

"Perché"?

"Perché ho in buona fede investito sulla buona fede dei radicali. Ho pensato che una loro visita in quel momento avrebbe allentato la tensione, avrebbe potuto produrre qualche risultato. Se ho sbagliato, se la mia buona fede è stata tradita, me ne assumo la responsabilità".

"Lei ripete spesso, signor ministro, che si assume la responsabilità. Ebbene, la sua buona fede in questo caso è stato tradita"?

"Temo di sì".

"Allora, che cosa vuol dire che lei se ne assume la responsabilità? Che darà le dimissioni? O che il governo e la magistratura accerteranno eventuali reati dei parlamentari radicali"?

``Ho disposto un'inchiesta ministeriale''

"Il Presidente del Consiglio ha già annunciato che questo sarà fatto. Io ho disposto un'inchiesta ministeriale su questa questione".

"Bene, signor ministro, comprendo il suo disagio. Se permette, vorrei passare ad un altro argomento. Lei, alla vigilia della liberazione di D'Urso, fece delle comunicazioni in Parlamento. Le ricorda"?

"Le ricordo perfettamente".

"Lei invitò i giornali a non pubblicare i documenti delle BR e a non cedere al ricatto. E' vero"?

"Perfettamente vero".

"Lei fece quell'invito a nome del governo?"

"Lo feci dal banco del governo, a nome del governo".

"Molto bene. Ha ascoltato, naturalmente, il discorso del Presidente del Consiglio su quest'argomento. L'onorevole Forlani non sembrava ricordare che il governo da lui presieduto avesse rivolto, per bocca del ministro della Giustizia, quell'invito".

"Forlani ha avuto parole di apprezzamento...".

"Signor ministro della Giustizia, lei ha capito benissimo quello che le ho detto. I giornali sono stati, tutti, in grande sofferenza in questi giorni, e tutti hanno deciso secondo coscienza, in un modo o nell'altro, in piena libertà. Non avevamo certo bisogno degli inviti del governo per scegliere una linea di comportamento, né abbiamo bisogno dei ringraziamenti d'un governo che molti di noi disistimano. La domanda è un'altra: lei ha invitato la stampa ad un certo comportamento, Forlani ha finto di dimenticare che quell'invito era stato fatto anche a suo nome. Non crede che ci sia una palese contraddizione"?

"il Presidente del Consiglio ha scelto una posizione equilibrata. Io la condivido, ma condivido anche alcune preoccupazioni espresse dal collega Malfatti, direttore del "Popolo" nel suo articolo di ieri".

"Lei ha detto che comunque la ragione per cui a D'Urso è stata risparmiata la vita non è stata né la chiusura dell'Asinara né la liberazione di Faina. Qual è stata dunque? La pubblicazione su alcuni giornali dei documenti brigatisti"?

"Assolutamente no".

"La mediazione radicale"?

"Non so in quale senso lei parla di mediazione radicale, ma posso dirle che, a parer mio, le iniziative radicali in tutta questa vicenda sono state ininfluenti sia sull'atteggiamento del governo sia, presumo, su quello delle BR. Del resto il giudice D'Urso mi ha raccontato che i suoi carcerieri considerano Pannella come uno sciocco demagogo".

"Allora perché l'hanno liberato secondo lei"?

La liberazione di D'Urso è stato un'operazione politica

"Questa è stata un'operazione politica. Secondo me l'hanno liberato per due ragioni:

1) Perché temevano, dopo l'iniziativa della Procura di Roma d'incriminare per omicidio i detenuti di Trani e Palmi, che l'unità con i terroristi in carcere sarebbe stata incrinata. Questo è stato probabilmente il motivo essenziale della decisione;

2) Perché avevano seminato discordia tra le forze politiche. Ad obbiettivo raggiunto, non avevano più ragione di continuare. Sta a tutti noi, ora, ricucire le crepe e rinsaldare le forze democratiche".

"Quale è il suo giudizio sui socialisti"?

"Mi ha spiacevolmente sorpreso l'iniziativa dell'"Avanti!". Quanto a Craxi, il mio parere è che si sia mosso esclusivamente per ragioni umanitarie, rischiando anche di scalfire la sua immagine di uomo deciso, di socialista risoluto nella difesa dello Stato. Oggi quell'immagine è alquanto scalfita, ma l'ha fatto per ragioni umanitarie. Di ciò desidero dargli pubblicamente atto. Non è consueto che un uomo politico faccia prevalere le ragioni del cuore su quelle della ragione e del calcolo".

"Le sembra un obbiettivo facile da raggiungere"?

"Non facile, ma necessario".

"Chi ha rotto, signor ministro della Giustizia, il fronte delle forze democratiche: quelli della fermezza o quelli della trattativa"?

"Tutti sono stati per la fermezza, ch'io sappia".

"Allora il fronte non sarebbe rotto. Però lei dice che è stato rotto. Da chi"?

"Lei conosce le polemiche in corso".

"Insisto, onorevole Sarti. Se tutti sono stati veramente per la fermezza, il fronte non è rotto. Se il fronte è rotto, chi l'ha rotto"?

"Chi è per la fermezza contro le BR non ha rotto il fronte".

"Che cos'altro le ha detto D'Urso nel vostro colloquio"?

"Tante cose. Aveva molta voglia di parlare, come tutti quelli che sono tenuti per tanto tempo in una così cupa prigionia. Mi ha detto che aveva in continuazione una cuffia nelle orecchie che trasmetteva ad altro volume musica per impedirgli di udire i rumori dell'esterno: che i suoi carcerieri erano due, indossavano camici, passamontagna e occhiali neri: che era incatenato a letto, che mangiava passabilmente, talvolta anche cibi caldi: che gli davano da leggere vecchi numeri di "Panorama" e dell'"Espresso", vecchi romanzi di Steinbeck e il ``Tamburo di latta'': che le loro ideologie si richiamano confusamente alla rivoluzione culturale cinese e che guardano come possibile modello all'Albania: che la loro cultura sembra derivare più dal Sorel che marxismo. Ora comunque quest'incubo è finito. Cerchiamo tutti di mettere a frutto le esperienze che se ne debbono trarre".

Dichiarazione dell'avv. Franco De Cataldo: dinanzi al comportamento penoso e sleale del Ministero di Grazia e Giustizia mi ritengo sciolto da ogni dovere di riservatezza. Il Ministro ha mentito, per pavidità e per stupido calcolo di ragion di Stato, cioè per personale convenienza. Ora dimostri il contrario o si dimetta.

"Il 23 dicembre 1980, su invito, alle ore 17,45, mi sono incontrato con il Ministro Sarti, in via riservata, per sua richiesta. Tale incontro, malgrado l'ora del tutto normale per ogni attività di ufficio, avvenne nell'abitazione privata del Ministro. In tale occasione, il Ministro mi informò che l'indomani mattina avrebbe iniziato un primo sgombero dell'Asinara, chiese e sollecitò i nostri e miei consigli. Gli ribadii che non si trattava di ``trattare'' né di ``cedere'' alcunché, ma di adempiere, e - sul piano politico - ``dialogare'', cioè avere iniziativa politica e propagandistica nei confronti e contro le BR.

Il 28 dicembre, alla notizia della rivolta di Trani, cercai il Ministro. Parlai telefonicamente con lui a fine mattinata, mi sembra mentre gli era a Palazzo Chigi, e gli anticipai la nostra intenzione di riunirci - come gruppo - per eventualmente recarci a Trani. Commentò che questo poteva esporci a pericoli, vista la gravità della situazione.

Il 6 gennaio, mentre ero nel carcere di Trani, con i colleghi Teodori, Pinto, Spadaccia e Stanzani, fui raggiunto da un messaggio urgente del Ministro, che chiedeva di parlarmi. Ero all'interno del carcere, all'infermeria. Lo chiamai più volte al numero lasciatomi, con qualche ritardo, finché - alla presenza del direttore del carcere - potemmo parlarci. Mi chiese della situazione e gli esposi il mio punto di vista, con riferimento alla situazione dei detenuti. Restammo d'accordo d'incontrarci l'indomani a Roma.

A Trani un detenuto, nel corso della visita, alla presenza del direttore del carcere e altri (agenti di custodia) mi consegnò un foglio di carta, che non lessi sull'istante. Era il ``comunicato''. Quando potei, con i miei colleghi, gettarvi uno sguardo, annunciai al direttore che era mia intenzione, l'indomani, darne conoscenza personalmente al Ministro, lascindone solamente copia fotostatica, in busta chiusa, al direttore stesso.

L'8 gennaio alle h. 9.45, sempre a casa del Ministro, sempre per sua scelta, avvenne un altro colloquio. Gli mostrai il ``comunicato'', annunciandogli che nel frattempo il Gruppo radicale aveva deliberato di renderlo pubblico, sotto la sua responsabilità. Il Ministro, sorridente, mi sottolineò che quale Ministro della Repubblica non poteva non chiedermi, invece, di astenerci dal pubblicarlo. Gli ribadii la nostra decisione, che fu posta in essere solo dopo diverse ore: non vi fu nessuna insistenza, nessuna esposizione di merito dei motivi per i quali la pubblicazione veniva sconsigliata. Gli comunicai che avremmo immediatamente iniziato le procedure per realizzare anche la visita a Palmi, dove in effetti mi recai, con Pannella, alla fine della mattinata.

Questi i fatti. Anzi alcuni fatti che, essendo del tutto leciti, del tutto relativi a fatti assolutamente leciti e anzi doverosi, del tutto estranei a qualsiasi trattativa o patteggiamento o cedimento né dello Stato né di altri, per noi avevano il significato di quella unità responsabile e democratica che, su eventi di fondo, riguardanti il diritto e la vita, in una Repubblica di democrazia politica non può non unire opposizione e governi.

Il Ministro Sarti ritiene ora di dichiarare a chi cerca di linciare il partito e il gruppo parlamentare che più di ogni altro hanno concorso a salvare la vita di D'Urso, e - per quanto possibile - la stessa dignità dello Stato che il nostro comportamento non è stato né lecito né leale.

Dinanzi a tale squallida mancanza di pudore e di senso dello Stato e della dignità civile e personale, non abbiamo difficoltà - noi - a fornire al giudizio dell'opinione pubblica ed a quello politico del Parlamento i fatti sui quali è ora necessario fare interamente luce.

Ora, al Ministro Sarti, non resta che l'arduo compito di dimostrare quanto afferma, o che diciamo il falso, o di dimettersi".

La replica del ministro (19 gennaio)

In riferimento alle affermazioni dell'avv. Franco De Cataldo l'ufficio stampa del ministro Sarti ha diffuso la seguente dichiarazione: "Il ministro Sarti respinge nettamente le illazioni che l'on. De Cataldo tenta di suggerire con la sua dichiarazione, né riconosce a De Cataldo il diritto di mettere in dubbio la serietà della sua condotta politica e personale.

Come chiunque può facilmente immaginare, nelle scorse settimane il ministro ha incontrato numerose persone, nella propria abitazione - per inciso assai prossima a quella di De Cataldo - o al ministero, e, con cortesia a quanto pare mai indirizzata, anche l'avv. De Cataldo. Ma con nessuno, né con De Cataldo né con altri, il ministro ha assunto posizioni diverse da quelle illustrate al Parlamento: posizioni che si riassumono nella linea della difesa della legalità e del fermo, rigoroso rifiuto di ogni e qualsiasi tipo di rapporto con i terroristi.

Come lo stesso De Cataldo è costretto ad ammettere, il ministro Sarti, proprio nella sua responsabilità di ministro della Repubblica, invitò De Cataldo a non pubblicare alcun documento dei terroristi. Non si vede, dunque, a che cosa risponda, se non a un tentativo di strumentalizzazione che il ministro respinge seccamente, l'odierna dichiarazione di De Cataldo.

Il ministro conferma, infine, il suo giudizio negativo sul comportamento tenuto dai radicali nelle carceri di Trani e Palmi: un comportamento sul quale, accanto agli organi competenti, è soprattutto il Parlamento che deve pronunciarsi, poiché i parlamentari, a norma dell'art. 67 della legge carceraria, possono accedere liberamente agli istituti penitenziari".

La dichiarazione di Pannella (19 gennaio)

SARTI, PRECIPITOSO, CONFERMA. SI DIMETTA, ALLORA, E CONTINUI LA SUA CARRIERA DI COLLABORATORE DI SCALFARI.

"Il ministro Sarti respinge quel che gli scomoda. E' comprensibile ma anche patetico e risibile.

I fatti che egli conferma sono questi: 1) che egli ha invitato a casa sua il deputato radicale De Cataldo; 2) che egli ha comunicato (non al Parlamento, non al Governo, non ad altri gruppi - a meno di smentita) che l'indomani avrebbe evacuato - finalmente! - dei detenuti dall'Asinara, sensibile alle richieste delle BR tanto quanto era stato sordo a quelle dei radicali e in definitiva del Parlamento; 3) che egli ha seguito lo svolgimento della visita, del tutto legale e legittima, non solo nel principio ma nella conduzione, dei parlamentari radicali al carcere di Trani; 4) che egli ha avuto tutto il tempo e il modo di preavvisare l'autorità giudiziaria della esistenza di un documento che avrebbe potuto essere sequestrato, prima che venisse reso pubblico; 5) che egli ha usufruito da parte della opposizione radicale di una preconcetta fiducia, relativa quanto meno alla sua lealtà sia nei confronti dello Stato sia nei confronti dei radicali, a quanto pare mal riposta, così come la cortesia di accettare di incont

rarlo nella sua privata abitazione, invece che nel suo ufficio; 6) il ministro conferma, anche, il suo tentativo di pregiudicare l'inchiesta ministeriale, per ciò stesso ormai invalidata, sull'operato dei parlamentari radicali a Trani, che il ministro ha direttamente seguito, e incoraggiato finché la sua viltà non l'ha ora indotto a cercare di sconfessare".

L'interpellanza del Gruppo parlamentare radicale (19 gennaio)

I sottoscritti chiedono di interpellare il Presidente del Consiglio per sapere quali provvedimenti intende prendere il Governo e quali siano stati autonomamente presi dalla Magistratura sul comportamento del Ministro di Grazia e Giustizia, in relazione ai seguenti fatti:

1) L'aver interrogato il giudice Giovanni D'Urso, approfittando delle sue precarie condizioni nelle ore successive al rilascio del magistrato, e abusando della sua autorità e funzione, su fatti sicuramente appartenenti al campo del segreto istruttorio e giustamente taciuti dal giudice D'Urso, nei giorni successivi, anche alla stampa.

2) L'aver affidato ad una intervista al giornale ``Repubblica'' la diffusione a mezzo stampa, per fini evidentemente politici e nell'ambito del proprio interesse personale a acquisire benemerenze nei confronti di una fazione politica che lo aveva pesantemente attaccato, di uno almeno di tali fatti, coperti da segreto istruttorio: affermando che il giudice D'Urso gli avrebbe confidato che le BR gli avrebbero espresso un determinato giudizio politico e personale nei confronti del parlamentare europeo radicale Marco Pannella.

3) L'aver mentito affermando nella predetta intervista il falso in ordine ai comportamenti del Gruppo e dei parlamentari radicali (sui quali - per sua stessa informazione - è noto che esiste inchiesta ministeriale) durante la visita al carcere di Trani, sul cui svolgimento egli era direttamente e costantemente a conoscenza, definendo ``penosa'' la loro azione che veniva invece considerata positiva e importante finché non si è trattato di passare alle speculazioni personali e politiche, contro azioni che egli aveva nel loro insieme non solo - com'è giusto - consentito, ma anche auspicato.

"Maria Adelaide Aglietta

Franco De Cataldo"

L'intervento di Franco De Cataldo a Radio Radicale (22 gennaio)

``Nella sua intervista al "Corriere della Sera" il Ministro di giustizia Sarti, conferma tutte le circostanze che sono state da me esposte nella dichiarazione di lunedì e presenta delle giustificazioni. Per quel che mi comporta solo dopo gravi e inconsistenti affermazioni, che oltre a tutto ledevano la mia onorabilità personale, ho ritenuto di smentire il Ministro sulla base dei fatti. Aggiungo che, l'ineffabile Ministro Sarti sull'incontro del 23 ha confermato quello che io ho riferito, salvo forse che in quell'incontro io gli preannunciai una richiesta ulteriore di convocazione della Commissione giustizia perché ci si venisse a dire il 27 o il 28 dicembre quali sarebbero state le iniziative che si sarebbero prese. La convocazione della commissione non ci fu perché il presidente non la fece.

All'incontro dell'8 gennaio, mi sembra che Sarti abbia confermato il contenuto della mia dichiarazione. Io mi ero impegnato con il direttore del carcere a mostrare il comunicato delle BR al ministro, non certo per avere alcun avallo, tanto più che il gruppo aveva già deciso il giorno 7 in piena autonomia e libertà, di pubblicare il comunicato. Io questo comunicai al ministro e ricevuta da lui quella esortazione, gli ribadii il nostro intendimento.

Per quanto concerne la illazione contenuta nell'intervista di Sarti secondo la quale io giocherei su fatto che il giorno 28 (cioè mentre era in corso la rivolta), mi rivolsi a lui per chiedergli il mandato per andare a Trani (e quindi non avendolo ricevuto non andai), mentre la seconda volta sarei andato con il suo permesso, io dico che è una illazione puerile e non risponde a verità. Il giorno 28, come deputato radicale e anche come deputato di quel collegio, telefonai a Sarti e al Presidente del Consiglio Forlani, anche perché era stata invocata la mia presenza da parte dei rivoltosi, dicendogli che sarei andato a Trani solo se ci fosse stata una formale richiesta in questo senso dalla magistratura e dal Ministero. Diversamente non sarei andato. Sarti mi disse che era consigliabile che io non andassi a Trani senza spiegarmi le ragioni, ragioni che peraltro io intuii trovandosi egli a palazzo Chigi ed essendo in riunione con il Presidente del Consiglio e il Ministro della Difesa. Quindi io non chiesi nessun

mandato ma precisai che sarei andato solo dietro richiesta, che è una cosa diversa.

Per quel che si riferisce al viaggio della delegazione a Trani il 6 di gennaio, io non comunicai affatto questa nostra volontà al Ministro Sarti perché eravamo nell'esercizio delle nostre funzioni di ispezione e di controllo, tant'è che rimasi abbastanza sorpreso di ricevere la mattina del 6 la telefonata del Ministro nel carcere di Trani, che mi domandò notizie sulla situazione nel carcere.

Per quanto concerne i giudizi resi dal Senatore Sarti sul retroterra culturale dei radicali, ``il disimpegno rispetto alle istituzioni, il barocco politico, la ricerca di pubblicità a Trani'', io credo che Sarti sia il meno qualificato ad esprimere giudizi sia di tipo culturale che di tipo politico di qualsivoglia natura. Il nostro impegno rispetto alle istituzioni è dimostrato quotidianamente; non abbiamo bisogno né dell'avallo, né della smentita di Sarti su questo argomento.

L'intervista da lui resa a "Repubblica" è un'intervista dettata dalla paura di chi per una volta si è comportato correttamente nei confronti delle istituzioni, nei confronti della Costituzione e teme fortemente di essere accusato di chissà quali cedimenti. Allora per allontanare da sé questa accusa che è infondata, non ho ragione di dire il contrario, in modo penoso e anche volgare per un gentiluomo piemontese, e non soltanto per un gentiluomo piemontese, è corriveco del Signor Scalfari e con il ``partito della fermezza'', si esibisce in affermazioni false, volgari, infondate nei confronti dei radicali e personalmente nei miei.

Insomma, il Ministro faceva il suo mestiere di ministro e noi il nostro di deputati e di deputati della opposizione, i quali in particolari circostanze hanno il dovere di mettere a giorno il governo delle iniziative che essi prendono, nel solco della Costituzione e delle leggi. Non vi era nessun mandato a trattare, nessuna volontà da parte nostra di trattare, non si è mai trattato con nessuno e Sarti questo lo sapeva bene. Quindi non aveva bisogno di dire delle menzogne per salvarsi il posto.

Ma questo ci fa pensare a un'altra cosa; al fatto che questi nostri uomini politici, in particolare i democristiani, ma non solo loro, anche quando sembrano disincantati come appare ufficialmente Sarti, vivono sempre nell'etica della mafia, dei clan e quindi non si preoccupano se i loro comportamenti sono corretti o meno, si preoccupano di avere la solidarietà e il sostegno degli altri, di quelli del gruppo, della ganga, qualunque cosa facciano. Io paragonavo il comportamento di Sarti a quello di quei deputati che non hanno firmato per l'incriminazione di Gioia; è la stessa cosa: non è il problema della correttezza di comportamenti, della puntualità, della rispondenza alla Costituzione, di quello che si fa o non si fa, il problema è che bisogna vivere la vita della setta, del clan e di conseguenza i problemi di natura morale, di natura comportamentale sono subordianti a questa solidarietà. Quindi Sarti ha temuto per un certo momento, il questo indotto da Scalfari, dalla campagna di alcuni organi di stampa, d

agli attacchi dei comunisti, di potere apparire per un solo istante come un ministro il quale abbia contravvenuto alle regole ferree della setta, del clan, in relazione alla fermezza ed è allora scivolato in questo modo banale e triste. Sarti vuole farsi perdonare il gravissimo peccato di avere agito per un mese come un ministro della repubblica. E allora, come tutti quelli che cercano una rivalutazione, cavalca la tigre più avanzata, quella più anticostituzionale, quella rappresentata dal senatore Valiani e dalle sue proposte; questo stato capitolardo che bisogna eliminare, bisogna mostrare il viso dell'arme, quindi fermo di polizia, prolungamento della carcerazione preventiva, tribunali speciali e procure generali che accentrino tutto. Mentre nello stesso tempo, il signor Ministro di grazia e giustizia Sarti, senza battere ciglio accetta la riduzione del bilancio della giustizia!

A proposito del dibattito alla Camera di ieri sulla fissazione della data per la risposta del Governo alle interrogazioni e interpellanze su questa vicenda, chiunque legge i giornali può giudicare da sé. Sarti è scappato, il Governo è scappato. Noi abbiamo chiesto che si discutesse il giorno 23, venerdì, che è una giornata dedicata alle interrogazioni e alle interpellanze e non se ne è fatto nulla. Abbiamo aderito ad una proposta subordinata del gruppo comunista, il quale chiedeva che si discutesse venerdì 30, ma anche a questi il Governo si è opposto e ha detto che se ne riparlerà dopo l'approvazione della legge finanziaria perché non bisognava intralciare il lavoro della Camera; come se questo dibattito, che coinvolge la responsabilità di un ministro del suo dicastero, sia un disturbo al regolare andamento dei lavori della Camera.

La verità è che Sarti preferisce non incontrarmi personalmente, non incontrare il gruppo radicale alla Camera e quindi andrà a rispondere al Senato il 27. Quindi è una vera e propria fuga. Non sa che al Senato, nonostante la nostra rappresentanza sia ridottissima, ci sono Spadaccia e Stanzani che pure gli diranno quello che si merita sulla base rigorosa dei fatti e degli accertamenti.

Noi siamo stati battuti nel veti su Sarti in modo massiccio e devo dire che i comunisti avevano molti banchi vuoti. Per chi sa la disciplina e la compattezza del gruppo comunista non può non essere sorpreso e quindi non giudicare in modo pesantemente negativo tutte le assenze che c'erano in aula. Se ci fossero stati tutti i deputati comunisti certamente si sarebbe potuta avere la maggioranza e quindi avremmo costretto Sarti a venire sia pure il 30, dopo il dibattito al Senato, ma comunque a tempi brevi.

Perché questa assenza dei comunisti? Evidentemente perché esistono una serie di valutazioni da parte del Partito Comunista, che mentre da una parte spinge, e lo vediamo sui giornali, per certe soluzioni, dall'altra parte vuole far comprendere al Governo comunque di essere in condizioni di condizionarlo oltre ogni misura. Questo è un fatto grave perché è un basso calcolo politico''.

Il dibattito al Senato: le comunicazioni del ministro Sarti - resoconto formale (27 gennaio)

"Sarti, ministro di grazia e giustizia". Nel riprendere la parola dinanzi al Senato per chiarire ancora alcuni aspetti della vicenda D'Urso, dichiara di rendersi ben conto della delicatezza delle circostanze che questa volta hanno chiamato in causa anche la sua persona. La vicenda è certo molto complessa e deve scusarsi preventivamente con il Presidente, nel ringraziarlo della sua cortese introduzione, e con il Senato, se si vede costretto a personalizzare quegli aspetti della vicenda che lo richiedono.

Come è evidente, ciò avviene suo malgrado, con sua autentica sofferenza, con umiliazione che lo riscattano probabilmente per tutto il resto della vita non solo dal peccato di arroganza, ma - crede - anche dal sospetto di arroganza.

Si sono accese delle polemiche, ma non v'è dubbio che i tentativi di strumentalizzazione, certo presenti, si mescolano a sincere esigenze di verità in un intreccio di arduo scioglimento, perché i piani del discorso complessivamente avviato sono molteplici, in qualche caso lontani dal terreno dei fatti concreti e dati di cronaca vengono presentati talvolta come giudizi politici e viceversa, e i risultati rischiano di tradire la portata reale degli avvenimenti e il loro significato più limpido. E' dovere di tutti, dunque, in particolare suo dovere, chiarire i dubbi e fornire elementi affinché possa essere sgombrato il campo anche da quegli equivoci che fossero accreditati in buona fede. Assicura perciò il Senato che tutte le sue parole saranno - come crede di aver sempre fatto - improntate a spirito di verità. Dovrebbe essere questa una sottolineatura superflua, ma è stato chiamato in causa, come tutti sanno, con più o meno velata allusione proprio per questo: per avere taciuto al Parlamento fatti o iniziative

di sua conoscenza o addirittura per averne determinati alcuni in difformità o in contrasto con le sue parole.

Parlerà dunque serenamente, sebbene il suo animo non sia disteso, cominciando proprio dalle cose che ha imparato in queste anche per lui - e forse soprattutto per lui - molto drammatiche circostanze. Ad esempio ha imparato che quando taluni rimproverano a chi ha responsabilità di governo di agire su temi delicati, lontano dal Parlamento e dai parlamentari e quasi di voler circondare di un'aria misteriosa il loro operato tanto da riceverne sospetti di lessa democrazia, essi in realtà consumano in quel momento un rituale retorico perché, se un Ministro della Repubblica, in un momento di drammatica emergenza cerca di raccogliere tutte le opinioni possibili e immaginabili presso tutti i settori politici e di opinione per poter essere in grado di compiere le scelte che gli spetta compiere con il massimo grado possibile di conoscenza delle situazioni e del loro evolversi, se un Ministro fa questo, commette, a quanto sembra, o sembra commettere - a quanto qualcuno perentoriamente afferma - un errore gravissimo che

- si dice - non lo renderebbe più degno di ricoprire la carica (peraltro nel caso specifico, in riferimento alle parole del senatore Marchio, assolutamente scomoda e crede anche scarsamente appetibile da chi abbia senso di responsabilità) che riveste.

C'è stato qualcuno altro, in circostanze analoghe, che ha detto che ci sono avversari politici con i quali non andrebbe a prendere nemmeno un caffè. Da parte sua non dirà mai questo perché non si pente e non si pentirà mai di una cortesia prestata, ma poiché si duole profondamente di un'amicizia tradita dirà che caffè in casa sua non si sente più di offrirne a certi avversari politici, essendo incorso nella singolare esperienza per cui l'invitato approfitta della familiarità dell'ospite per rendere quasi mortale - spera solo politicamente parlando - il contenuto della tazzina.

Irrigidire anche le buone maniere

Per uscire di metafora, riconosce dinanzi al Senato di non essersi accorto che, in tempi di ferro come gli attuali, da molti viene consigliato di irrigidire anche le buone maniere e quella visione dialogante della politica, a cui peraltro i migliori esponenti del mondo parlamentare hanno sempre esortato.

Questo è però il segnale di un rischio pericoloso, che tutti dovrebbero cercare di sventare - se si vogliono mantenere su livelli di civiltà i rapporti tra le forze politiche.

In ogni caso su un punto, qualunque giudizio vogliano dare i senatori dell'episodio contestatogli da alcuni, non debbono però esserci dubbi: è nel falso o mente sapendo di mentire o ha una visione deliberatamente distorta degli avvenimenti chi pretende di accusarlo di aver dato o autorizzato mandati di qualsiasi sorta a chicchessia. Non l'ha fatto, non l'avrebbe mai fatto; è ingiusto e indegno accusarlo di aver chiesto o auspicato o legittimato o ipotizzato una trattativa con i terroristi. Su questo ritiene di poter esigere il massimo credito e insieme il rispetto dei parlamentari di qualunque parte politica, a meno che non si voglia continuare - crede che questo non sia nella tradizione e nel costume del Senato - con l'incivile gioco di trasformare le supposizioni e i pettegolezzi in calunnie e le chiacchiere malevole in organiche mistificazioni della realtà.

Sono proprio i parlamentari radicali, del resto - i quali hanno dato l'avvio a questa secondo lui inconsistente e deviante polemica sul suo comportamento, cercando di suggerire illegittime illazioni o almeno proiziandole oggettivamente e tentando di accreditare falsi ammiccamenti circa la sua reale volontà - a mostrare oggi il limite del loro ragionamento. Con l'abituale inclinazione a creare colpi di scena (quella, che gli è occorso di definire in altre circostanze più serene e distese di oggi, un'attitudine barocca nella vita politica, sulla quale lascia che altri si pronuncino), essi hanno diffuso ieri un "dossier" - che ha letto, come era suo dovere - che smentisce quanto avevano cercato artatamente di far credere o si era data l'impressione che volessero far credere all'inizio di questa non solo per lui sgradevole vicenda, con la quale si è voluto pretestuosamente fabbricare un dopo D'Urso di pessima qualità.

Il ministro chiede le impressioni di De Cataldo

Nel dare conto della sua telefonata all'onorevole De Cataldo, infatti, nel "dossier" si legge testualmente che: ``Il Ministro chiese a De Cataldo le sue impressioni sulla situazione esistente all'interno del carcere (quello di Trani). De Cataldo gli riferì, alla presenza del direttore Siciliano che assisteva alla telefonata, che era sua impressione che la situazione fosse ancora molto delicata, che vi erano state palesi omissioni nell'assistenza e nei ricoveri dei detenuti negli ospedali nei quali erano stati smistati, che sulla reale partecipazione di alcuni detenuti alla rivolta sarebbe stato opportuno approfondire le indagini. Rimase d'accordo che si sarebbero visti la settimana successiva a Roma per approfondire il discorso sui temi sopraindicati''.

Ecco, qual era, come ha detto fin dall'inizio, il contenuto del colloquio con l'onorevole De Cataldo. Altro che più o meno velati mandati a trattare con i terroristi detenuti! Oggi sono i parlamentari radicali a dargliene atto e non potrebbe esserci testimonianza più convincente di quella che viene dalla fonte originaria di un - per lui - inesistente caso Sarti. La pura e semplice verità dei fatti è che ha parlato con l'onorevole De Cataldo, ha parlato con deputati, senatori, uomini politici, magistrati e giornalisti appartenenti ai più diversi orientamenti politici, in parte su sua richiesta, come è avvenuto in questo caso, in parte su richiesta altrui, come è avvenuto in altri casi, con un solo obiettivo che gli sembrava e gli sembra doveroso conseguire: farsi una opinione, la più circostanziata possibile, su quanto stava avvenendo e sarebbe potuto avvenire. Ma i fatti, i comportamenti, le decisioni, cioè le cose che contano, quelle su cui è lecito e doveroso giudicare l'operato dell'uomo politico e del re

sponsabile di Governo, sono nati esclusivamente sulla base di un'autonoma valutazione e sempre nel più rigoroso rispetto della legalità repubblicana, rispetto che non rivendica come merito perché era ed è semplicemente un suo dovere di Ministro della Repubblica dimostrarlo, ma che è incontestabile. Per cui è sulla linea dei fatti che respinge ancora una volta l'accusa di non aver mantenuto un comportamento corretto nella sostanza, e ciò resta verissimo a parte i caffè più o meno cautamente offerti e più o meno educatamente accettati.

Il comportamento degli organi dello Stato

Il comportamento che gli organi dello Stato dovevano mantenere è stato nella sostanza correttissimo, e ritiene che altrettanto corretto e giusto sia stato il comportamento di altri organi che hanno impresso con il Governo una svolta risolutiva alla vicenda. Parla delle forze dell'ordine che hanno dimostrato, con il cosiddetto "blitz" di Trani - per il quale crede sia giusto ricordare che proprio lui, in prima persona, insieme agli altri membri del Governo, si è assunto la responsabilità controllandone con i suoi collaboratori l'esecuzione - che lo Stato non scherzava; parla inoltre della magistratura che ha notificato l'ipotesi di corresponsabilità nell'eventuale assassinio del giudice D'Urso ai detenuti brigatisti nelle carceri di Trani e Palmi.

Questi sono i fatti - esprime evidentemente un giudizio politico - che hanno secondo lui determinato o concorso a determinare in modo decisivo la felice conclusione del sequestro D'Urso, non le confusionarie iniziative di Tizio o di Caio da cui, sorrisi o non sorrisi, si è dissociato subito e con chiarezza per tutto ciò che intaccava la linea di serietà dello Stato e di rispetto della legge.

Sul punto del rispetto della legge, affronta quindi un'altra questione di fondo. Gli si rimprovera di avere permesso che i deputati radicali soggiornassero a lungo nelle carceri di Trani e di Palmi. Ebbene, premette che, tra le molte cose che le vicende di Trani e Palmi metteranno in movimento, vi è probabilmente quella relativa alla modifica della legge carceraria, poiché anch'essa è una legge datata (lo ha ricordato poc'anzi il senatore Coco), espressione di un afflato riformista di apprezzabile ispirazione umanitaria e garantista, (come ben sanno i membri del Parlamento che hanno avuto non sa se il privilegio o la ventura di precederlo), ma non completamente adeguata, anzi sempre meno adeguata alle esigenze di tipo diverso oggi ancora più evidenti di ieri proprio per l'incrudelirsi dell'attacco terroristico.

La legge richiede correzioni

A suo giudizio, la legge richiede correzioni, come ne richiede il regolamento, in molti punti, ma soprattutto nel punto in cui disciplina l'accesso nelle carceri e nel punto in cui consente la sospensione parziale o totale del regolamento carcerario. Si riferisce agli articoli 67 e 90 della legge penitenziaria, cioè alle rispettive punte del momento garantistico e del momento di sicurezza: il primo consente ai parlamentari e ad altre specificate e molto numerose categorie di accedere agli istituti di pena senza alcuna autorizzazione e senza alcuna limitazione che circoscriva l'esercizio di tale facoltà; il secondo, l'articolo 90, consente al Ministro di sospendere l'esercizio del regolamento soltanto in casi di particolare gravità o emergenza, raffigurando esplicitamente tali casi in un contesto minaccioso per la vita delle persone e la sicurezza delle strutture.

In altre parole il primo articolo offre una possibilità, per così dire, totalmente permissiva, in quanto non disciplina in alcun modo, di un diritto; il secondo richiede, per poter essere invocato, situazioni di eccezionale gravità.

Ebbene nel caso della visita dei parlamentari radicali questa situazione di eccezionalità ovviamente non sussisteva né gli organi locali competenti l'hanno adombrata al Ministero. Come ha già detto alla Camera, interdire a parlamentari l'esercizio di un loro diritto ispettivo all'indomani di una rivolta domata, avrebbe inoltre, e con ogni probabilità, ingenerato l'inaspettabile sospetto che la repressione dello Stato fosse venuta al prezzo di chissà quali eccessi che i poteri centrali volessero per avventura coprire.

Se avesse invocato l'artico 90 sarebbe andato obiettivamente al di là dei suoi poteri, prova ne sia che ha fatto ricorso immediatamente a questo articolo, adombrando tale ricorso - e questo gli è stato rimproverato, non capisce per quale ragione - prima ancora di sentire gli altri membri del Governo, quando stava scoppiando la rivolta di Trani.

Allora sì che, legge alla mano, c'erano gli estremi di eccezionalità per applicare l'articolo 90 e l'ha fatto senza la minima esitazione.

Chiedere ai radicali cosa stesse accadendo

Una cosa poteva fare, quando si è reso conto che la visita dei radicali si protraeva: chiedere ai parlamentari radicali che cosa stesse accadendo. E' quanto ha fatto. Forse avrebbe dovuto farlo prima ma questo è opinabile: dipende dal grado di rispetto che ciascun parlamentare sente di avere per il comportamento di altri parlamentari. Il suo - e non se ne vergogna - era altissimo: non nega che ora in certi casi è, per dire così, lievemente attenuato.

Ma vuole far notare che, se qualcuno pensa che la prolungata permanenza in carcere dei parlamentari radicali sia stata o avrebbe potuto essere determinante ai fini di eventuali dialoghi (come li chiamano, in modo alquanto improprio, i radicali) con i terroristi, questo qualcuno sbaglia perché queste cose sono largamente e praticamente possibili anche con altri canali, ivi compresi quelli garantiti dal diritto di difesa così come esso è disciplinato dalla riforma carceraria vigente.

Il punto veramente importante, a suo giudizio, è il seguente, e se lo è posto spregiudicatamente: se come Ministro ha consentito che si commettessero reati, se qualcuno può provarlo, lo provi. Egli ha la tranquilla coscienza di non averlo fatto. Per le parti in cui fossero state commesse illegalità ha già disposto da tempo un'inchiesta i cui risultati saranno scrupolosamente illustrati al Senato.

Se poi l'aver parlato con esponenti di partiti è segno di leggerezza, può anche accettare un giudizio di tal genere, a una condizione, che il Parlamento riconosca che è leggero quel Ministro il quale, incontrandosi con esponenti di partiti, incontra anche esponenti di un certo partito e li incontra dove capita e, nel caso specifico, anche a casa propria.

Non può invocare l'art. 90

Viene quindi ai punti che formano oggetto delle interrogazioni. Ai senatori Gualtieri, Spadolini, visentini, Pinto e Mineo, i quali gli chiedono se il Ministro abbia autorizzato la visita dei parlamentari radicali nelle carceri di Trani e Palmi, crede di avere implicitamente già risposto. Afferma comunque che non l'ha autorizzata perché non poteva né autorizzarla né impedirla: avrebbe potuto sospenderla soltanto invocando l'articolo 90, ma se lo avesse fatto avrebbe commesso, ritiene, un abuso. Sempre agli stessi senatori fa notare che di per sé la possibilità dei detenuti di parlare tra loro e di proclamarsi comitato o assemblea non può essere impedita. Inoltre richiama all'attenzione il fatto che non poteva involcare, durante i colloqui con i radicali in carcere, l'articolo 90 e questo, se si vuole essere totalmente e definitivamente chiari, per una ragione di fondo: non aveva la facoltà o il diritto di ritenere, fino a prova contraria, che i parlamentari radicali avrebbero potuto essere un tramite di azio

ni criminose con terroristi esterni al carcere perché, se così avesse fatto, avrebbe in pratica accusato implicitamente o esplicitamente del reato di favoreggiamento o di appartenenza a banda armata un gruppo di parlamentari della Repubblica, cosa che non era e non è nelle sue facoltà né nei suoi poteri di Ministro, e di cui comunque non aveva e non ha prove. Infine comunica che le autorità carcerarie non hanno compiuto atti volti a indicare come inammissibile il comportamento dei parlamentari radicali. Ma a questo proposito ripete che anche le autorità locali difficilmente avrebbero potuto fare questo perché non è possibile tracciare, come ben sa il senatore Morlino, sulla base delle attuali norme, una linea entro la quale il comportamento di un gruppo di parlamentari in visita nelle carceri è lecito e oltre la quale esso diventa illecito.

Si cambino le norme e si eviterà che in futuro si ripetano simili episodi sui quali, sia ben chiaro, ribadisce, anche in attesa delle risultanze delle inchieste, lo stesso giudizio nettamente sul piano politico che sia lui che, più autorevolmente, il Presidente del Consiglio hanno espresso dinanzi alla Camera dei deputati: un giudizio però che non poteva essere formulato se non dopo la visita dei radicali, anche per effetto delle strumentalizzazioni che ne sono subito dopo derivate.

La questione della chiusura dell'Asinara continua, nonostante i precisi chiarimenti dal Governo forniti già alla Camera e al Senato, ad essere usata come un argomento specioso che, secondo le diverse intenzioni verrebbe usato pro o contro la dimostrazione della fermezza del Governo. Ripete ancora una volta con la forza dell'evidenza dei fatti che il piano di sgombero della sezione Fornelli era già in atto prima del sequestro D'Urso e che lui, subito dopo il suo insediamento al Ministero di grazia e giustizia (18 ottobre 1980), aveva adottato tale determinazione cominciando con il trasferimento del direttore.

Mancanza di collegamento col ricatto BR

La dimostrazione della mancanza di un qualsiasi collegamento tra il ricatto delle Brigate rosse e il piano di sgombero della sezione Fornelli, se ve ne fosse ancora bisogno, la si ricava proprio anche dalla circostanza che la chiusura totale della sezione non è stato fino ad oggi integralmente attuata. Il piano, infatti, si è sviluppato secondo precisi tempi tecnici, del tutto indipendenti da illecite pressioni dei nove detenuti che ancora sono ivi alloggiati: tre sono attualmente già stati destinati ad altri istituti, mentre si prevede che entro la fine del mese anche gli altri sei saranno trasferiti.

Intende rassicurare in particolare il senatore Gualtieri che lo ha interrogato sul perché i detenuti rimasti siano ``comuni'' (lo dice tra virgolette per non incorrere in una disputa filologica molto importante e secondo lui decisiva, definita da un intervento del senatore Gozzini nella seduta della settimana scorsa). Ciò dipende da esigenze tecniche di sicurezza. Era necessario cioè, secondo una prassi pressoché abituale degli uffici competente, evitare che i detenuti fossero misti perché il numero dei detenuti terroristi era maggiore di quello dei comuni e poiché, riducendo sensibilmente il numero dei detenuti presenti, diventa possibile anche abbassare il livello delle misure di sicurezza: esigenza questa che, come ha detto sia al Senato che alla Camera, era da tempo all'ordine del giorno dell'intera questione Asinara. Furono fatti sgombrare prima i terroristi che erano più numerosi, ma nessun trattamento privilegiato, che sarebbe stato inammissibile sotto qualsiasi profilo, è stato realizzato per i deten

uti terroristi rispetto ai detenuti comuni. Ciò, ripete, ripugnerebbe a qualsiasi criterio di equità e lui per primo lo definirebbe inaccettabile.

Conferma che il piano di sgombero era in atto

Intende, invece, confermare ancora una volta quanto il Presidente del Consiglio ha detto sull'Asinara, e cioè che il piano di sgombero era in atto da tempo, che nel 1979 il generale Dalla Chiesa ne sottolineò l'opportunità, che nel gennaio del 1980 erano presenti nel braccio di massima sicurezza 56 detenuti, i quali all'inizio dell'estate erano diventati 47. Subito dopo il suo insediamento, al 31 ottobre, i detenuti erano stati portati a 31, a fine dicembre erano 23, attualmente sono 9 e, come ha detto, entro il mese il braccio sarà sgombrato.

A scanso di ulteriori equivoci, fornisce due precisazioni su questo punto. La prima riguarda la successiva destinazione dei detenuti terroristi già ospitati all'Asinara. Essa è stata realizzata sulla base di una distribuzione tra altre carceri speciali e senza alcuna modifica di trattamento. La seconda riguarda una circostanza ``rivelata'' dall'onorevole De Cataldo, circa il contenuto del colloquio svoltosi nella sua abitazione nel pomeriggio del 23 dicembre. L'onorevole De Cataldo ne ha date due versioni delle quali la seconda, per la verità, alquanto riduttiva rispetto alla prima. Ma il concetto sarebbe questo: all'onorevole De Cataldo avrebbe rivelato la primizia del provvedimento, il 23 dicembre, cioè due giorni prima addirittura del comunicato della direzione del Partito socialista. Per la verità storica, disse a De Cataldo ciò di cui non faceva mistero con nessuno, cioè che era in corso un programma di smantellamento che riguardava, come riguarda, non l'intera colonia penale, come richiesto dalla Briga

te rosse nei primi comunicati, ma la sezione speciale di Fornelli, che il rapimento D'Urso non poteva interrompere l'operazione in corso e che su questo, se richiesto, non avrebbe avuto alcuna esitazione a fornire chiarimenti al Parlamento.

Taciuto l'incontro con De Cataldo

Non ha fatto ``annunci'' - lo dice di nuovo fra virgolette - che non aveva ragione di fare, a cominciare proprio dall'onorevole De Cataldo. Ha detto semplicemente la verità, la sola verità in suo possesso, quella che ha esternato al Presidente del Consiglio, ai colleghi di Governo, alle forze politiche. Ha taciuto - è vero - al Parlamento l'incontro avuto con l'onorevole De Cataldo e gli incontri avuti con altre decine di esponenti politici e militari e con magistrati, sembrandogli di scarso costrutto fornire informazioni non richieste e, a suo giudizio - e ancora oggi mantiene questo giudizio - di poco ausilio alla sua esposizione.

A chi si preoccupa di eventuali maltrattamenti inflitti ai detenuti durante la rivolta di Trani, va fatto notare che la prima informativa sull'accaduto chiariva quanto segue: un certo numero di detenuti si scontrò il 19 dicembre con le forze dell'ordine usando ordigni esplosivi rudimentali, ottenuti utilizzando il gas prelevato dalle bombolette usate per l'alimentazione dei fornellini individuali. In questa operazione riportarono lesioni 30 appartenenti alle forze dell'ordine e 66 detenuti. Per quanto riguarda i detenuti, quattro di essi furono ricoverati in ospedale: uno presentava lesioni da arma da fuoco e fu trattenuto; gli altri tre furono dimessi nelle 24 ore. Altri 36 chiesero di essere curati; furono medicati in istituto. La mattina successiva all'operazione altri 26 detenuti che, pur essendo stati feriti nel corso dell'operazione si erano astenuti, in un primo tempo probabilmente per timore di rappresaglie, chiesero di essere medicati e lo furono. Per quanto riguarda infine alcune informazioni della

stampa, riprese dal senatore Marchio, secondo quanto riferito dalla Procura della Repubblica di Roma, la notizia secondo la quale in un covo di Tor San Lorenzo sarebbe stato rivenuto un documento dal quale risulta che la liberazione del giudice D'Urso era stata decisa dai brigatisti prima del sequestro, precisa che essa è assolutamente destituita di fondamento.

Al senatore Gozzini fa poi osservare che è stata effettivamente applicata la disposizione dell'articolo 90 per controllare la corrispondenza, ma solo nei casi in cui era da ritenersi che detenuti particolarmente pericolosi si servissero di tale mezzo per farsi tramite di concrete azioni per attentare all'ordine pubblico e alla sicurezza.

I gruppi organizzati di detenuti

Per quanto attiene alla formazione di gruppi organizzati di detenuti cui fa riferimento il senatore Gozzini, esistono soltanto, in virtù di espressa previsione degli articoli 9, 12, 27 della legge penitenziaria, rappresentanze che controllano l'applicazione delle tabelle cosiddette vittuarie e delle preparazione del vitto e che gestiscono i servizi di biblioteca e le attività culturali, sportive e ricreative. Tali rappresentanze sono costituite per sorteggio tra i detenuti e sono rinnovate periodicamente. Al di fuori di tali rappresentanze non è autorizzata la formazione di gruppi organizzati. Nulla evidentemente può impedire che singoli detenuti si dichiarano appartenenti a comitati o ad altre organizzazioni. L'importante è che nessuno li abbia mai riconosciuti come tali e questa grottesca eventualità non si è mai verificata. Del resto essi stessi lo riconoscono autodefinendosi comitati clandestini.

Per i cosiddetti documenti occorre rilevare che ogni foglio dattiloscritto o appunto consegnato dai detenuti o rinvenuto negli istituti viene direttamente ed immediatamente trasmesso dal direttore all'autorità giudiziaria competente ove si ritenga che gli stessi possano costituire elemento di reato o strumento utile per le indagini. Ulteriori iniziative, anche con riferimento ad eventuali altri soggetti in possesso degli stessi documenti, non possono che essere adottate, secondo l'ordinamento vigente, dall'autorità giudiziaria.

Per quanto riguarda in particolare il documento cui fa riferimento il senatore Spadaccia, è risultato che il detenuto Emilio Vesce consegnò l'8 gennaio 1981 all'onorevole Teodori un manoscritto contenente una dichiarazione, proveniente da un gruppo di otto detenuti che affermavano di non riconoscersi in alcuna componente politica organizzata nel carcere e di essere estranei alla ideazioni, promozione e gestione della rivolta. Questo documento è stato prontamente rimesso il 10 gennaio 1981 da parte della direzione della casa circondariale di Trani al procuratore della Repubblica competente per territorio.

La presenza di Marco Pannella nel carcere di Trani

Circa la presenza del deputato europeo Marco Pannella nel carcere di Trani, deve ripetere al collega Gualtieri che effettivamente Pannella, per ciò che risulta, avrebbe esibito, per poter accedere ai detenuti, la tessera di deputato italiano rilasciata con il n. 92, quando egli già si era dimesso da alcune settimane da parlamentare della Repubblica.

Sul'episodio è aperta, nel quadro dell'indagine complessiva sul comportamento, di cui ha già detto, un'inchiesta.

In merito ai rapporti del professor Senzani con l'amministrazione penitenziaria risulta quanto segue. Fra il settembre del 1968 e l'aprile del 1969 il professor Senzani eseguì visite agli istituti minorili a seguito di autorizzazione ministeriale concessagli dalla Direzione generale degli istituti di prevenzione e pena con nota in data 20 settembre 1968. Queste visite erano finalizzate ad una indagine sugli istituti di rieducazione per minorenni che il professor Senzani era stato incaricato di eseguire dalla fondazione ``iniziative assistenziali pilota'', con sede a Torino, via Artisti n. 34.

Detta fondazione, che sembra abbia cessato l'attività attorno al 1970-71, risulta in modo ben definito collegata con l'Unione italiana per la promozione dei diritti del minore, avente sede allo stesso indirizzo, successivamente trasformatasi in unione per la lotta contro l'emarginazione sociale del minore, e tuttora esistente.

Il 4 maggio 1969 il settimanale ``l'Espresso'' pubblicò un completo "dossier" sull'indagine, a firma Senzani, i cui risultati furono poi raccolti nel volume di Senzani ``L'esclusione anticipata'' edito dalla Jaca Book nel 1970. A tale indagine collaborarono, secondo espressa indicazione dell'autore, tali Giorgio Bergami e Armando Rossini.

Il professor Senzani risulta autore anche della prefazione del libero da un titolo quasi surreale ``L'invenzione della delinquenza'' di A. M. Platt, edito dalla Guaraldi nel 1975, e della prefazione e dell'introduzione del volume in due tomi dal titolo ``Economia politica della criminalità'' edito dalla Uniedit nel 1979.

Il professor Senzani non ha più avuto, da allora, dall'amministrazione penitenziaria, alcuna autorizzazione ad accedere negli istituti di prevenzione e pena né è mai stato accreditato dal Ministero di grazia e giustizia presso alcun ente.

All'epoca il professor Senzani era uno dei numerosi studiosi che si rivolgevano e si rivolgono al Ministero in relazione agli studi ed alle ricerche che conducono o che hanno intenzione di condurre.

Tali richieste vengono valutate caso per caso e sono soddisfatte nei limiti in cui se ne ravvisi rigore scientifico e serietà di intenti.

Per quanto riguarda i rapporti intercorsi con il Consiglio nazionale delle ricerche, quest'ultimo ha precisato che al professor Senzani, quarto in concorso per 15 borse di studio presso istituti o laboratori esteri indetto in data 25 maggio 1971, fu conferita la somma di lire 3.861.000 per svolgere attività di studio presso l'Università di Berkeley in California. Fu respinta la richiesta di rinnovo presso l'Università di Firenze.

Successivamente (novembre 1975-aprile 1978) il comitato nazionale del CNR, su proposta favorevole dei relatori, accolse la richiesta di finanziamento di ricerca riguardante ``i presupposti storici del Welfare State in Italia, la politica dell'ordine pubblico e della pubblica assistenza dello stato fascista'' per un importo complessivo di 15 milioni poi corrisposti all'Università di Siena. Un'ulteriore richiesta di finanziamento per 16 milioni fu respinta in data 18 ottobre 1980, perché gli obiettivi della ricerca dovevano ritenersi già conseguiti.

Anche il CNR non ha fornito accreditamenti ufficiali di sorta ad alcuno. Infine le ACLI non hanno mai avuto alcun rapporto con il professor Senzani. L'ente nazionale ACLI per l'istruzione professionale ha invece corrisposto, dal 16 febbraio 1970 al 15 settembre 1972, allo stesso una retribuzione mensile lorda di lire 156.000 ed un compenso forfettario di lire 480.000 per una indagine di studio. Il professor Senzani, infine, ha scritto due soli saggi per la rivista fiorentina ``Città e Regione''. ("Interruzione del senatore Marchio").

Lo stato di prostrazione del giudice D'Urso

Ricordato che il ministro Lagorio ha già escluso di conoscere Senzani, si sofferma sul rilievo a lui rivolto di aver profittato dello stato di prostrazione del giudice D'Urso per carpire da lui fatti che egli non avrebbe potuto rivelare perché vincolato dal segreto istruttorio. Si tratta di un'accusa, per un verso un po' ridicola perché contraddetta da circostanze ampiamente conosciute, sulle quali tra un minuto riferirà; ma anche giuridicamente infondata, sol che si rifletta al fatto (per non incorrere in un grossolano errore giuridico) che D'Urso, come testimone e vittima di un reato, non era e non è tenuto ad alcun segreto istruttorio. La sua qualità di magistrato non ha nessuna rilevanza nella fattispecie, i suoi doveri essendo quelli che competono a qualsiasi cittadino.

Nella torrida conferenza stampa del giorno successivo, era comprensibile, e a suo giudizio anche opportuno, che il D'Urso, ringraziati i giornalisti italiani, non uscisse dal riserbo che si era proposto, come infatti fece, sottraendosi, in pratica, ad ogni specifica domanda.

Ma se pensa alla distesa conversazione del giorno precedente, cioè nel pomeriggio del giorno della liberazione, nella modesta abitazione di un congiunto, alla Cecchignola, sorride davvero, comparando la semplicità di quelle due ore, al groviglio delle interpretazioni che ne sono derivate a causa della troppa libera ricostruzione giornalistica del colloquio fattane da Eugenio Scalfari.

A quella conversazione, che era essenzialmente un monologo, era presente con il capo gabinetto, il collaboratore e amico Alfredo Vinciguerra, la signora D'Urso, le figlie, il fratello, la famiglia ospitante al completo. Anche secondo quanto confermato da chi vide precedentemente il magistrato, D'Urso non disse quel pomeriggio nulla che non fosse già da lui stato comunicato ad altri e che non fosse già ampiamente conosciuto. Disse in più una frase, che a distanza di quasi 80 anni ne ricalcava un'altra, quella che un giovane storico antifascista Bruno Revel, nella sua esemplare ricostruzione dell'affare Dreyfus, mette in bocca all'ufficiale alsaziano, proprio nel momento in cui, liberato da una terribile prigionia e assolto da accuse infamanti, riassapora la gioia del ritorno alla famiglia nella sua vecchia casa di campagna, un'espressione che suona press'a poco così: ``Non sono che un granellino di sabbia. E chiedo scusa di essere andato a inceppare gli ingranaggi della storia''.

L'episodio riferito a Scalfari

Dichiara di essere certo di aver riferito a Scalfari l'episodio, sottolineando la consapevolezza, in D'Urso resa più viva dalle parole compiaciute dei suoi carcerieri, della dilacerazione prodotta in seno alle forze politiche e al paese dalla sua detenzione e dal suo dramma. Nelle espressioni deliranti dei suoi carcerieri - aveva detto D'Urso - quella dilacerazione, tuttavia, non corrispondeva a una distinzione tra buoni e reprobi, tutti essendo integrati, compreso Pannella e i radicali, in un sistema di cui le Brigate rosse intendono propiziare frontalmente la distruzione. Se questo giudizio fosse stato correttamente riprodotto, si sarebbe potuta fornire un'immagine più veriteria delle Brigate rosse, e contribuire a una diagnosi più efficace del loro risibile e inconsistente retroterra politico e culturale. Non si sarebbe offerta all'onorevole Pannella l'occasione per fa scattare la propria incontenibile vocazione al protagonismo col pretesto di un'offesa oltretutto imponderabile se a formularla sono stati

gli uomini delle Brigate rosse, i cui rilievi polemici dovrebbero invece essere titolo di vanto per chi ne è destinatario.

Sarti oggetto della scorrettezza

I radicali hanno però posto a conclusione della loro arringa, una questione morale che lo riguarda, e a cui deve opporre una risposta ferma e risoluta. Hanno detto che il suo comportamento è costituzionalmente corretto, ma inficiato di scorrettezza nella personale valutazione che avrebbe fatto, in discorsi e interviste, del loro comportamento, e del loro apporto al positivo epilogo del caso D'Urso. Tutto questo per propiziargli una simpatia dei colleghi comunisti di cui, per la verità, non ha trovato ancora traccia negli atteggiamenti assunti da quel partito nei suoi confronti e crede che non ne troverà. Gli sia consentito osservare che è lui, semmai, a doversi riconoscere oggetto di una scorrettezza da parte radicale. E' vero che l'etichetta è soltanto un'etica minore, ma non crede che l'onorevole De Cataldo abbia derogato soltanto all'etichetta dando pubblicità a due incontri, con la pretesa di acreditarli, per di più, di fronte all'opinione pubblica, come fossero investiti dal vento impetuoso della storia

. Circa il comportamento radicale nel carcere di Trani e di Palmi, ribadisce ancora il giudizio che ne ha dato alla Camera nel suo intervento del 9 gennaio.

L'esercizio di un diritto può comportare abusi ed era la contestazione che voleva rivolgere lealmente all'Onorevole De Cataldo, cioè al solo parlamentare radicale col quale ha avuto rapporti, quando ha avuto modo di raggiungerlo telefonicamente quella mattina a Trani, che del resto gli contestò la mattina seguente. Il punto è molto semplice, e chiaro, e riveste maggiore importanza della trasmissione dei documenti usciti dal carcere (che erano un segreto di Pulcinella) notissimi comunque alla magistratura del luogo, e subito trasmessi agli inquirenti romani. Per la durata del soggiorno tranese, per il numero e la consistenza dei colloqui, nonché soprattutto, per il significato che oggi si tenta di limitare, ma in alcune sortite giornalistiche si voleva invece esaltare, l'iniziativa radicale è apparsa, alla fine, preordinata, almeno oggettivamente, al riconoscimento di quella legittimità rivoluzionaria, o almeno dello spazio relativo, che le Brigate rosse avevano rivendicato per loro fin dai primi comunicati e

mersi durante la prigionia di D'Urso.

Non ci sono in Italia detenuti politici

Questo è ciò che lo Stato democratico, pur riconoscendo ed anzi esaltando la propria ricca articolazione partitica, il proprio pluralismo politico e culturale, non potrà mai riconoscere ai propri nemici, agli assassini della Repubblica. La settimana scorsa in polemica con un saggio quanto mai inopportuno e demotivato del reverendo Don Gianni Baget Bozzo, il senatore Gozzini ha toccato in quest'Aula l'argomento, con valutazioni e accenti che sottoscrive alla lettera così come si trova assolutamente in sintonia con quanto il senatore Spadolini ha scritto lunedì sulla ``Stampa'' in proposito con la consueta acutezza. Non solo, in altre parole, non ci sono in Italia detenuti politici, ma sarebbe criminale accreditarne la esistenza riconoscendo legittimità di interlocutori a un manipolo di criminali disperati, dalla incerta sintassi politica, e dal solo chiarissimo intento destabilizzatore e distruttore.

A questo disegno, il Governo, la magistratura e le forze dell'ordine, espressione articolata di una unica realtà, lo Stato costituzionale e repubblicano, hanno opposto una sola linea: quella della fermezza e un solo ordine di valori in cui il rispetto della vita dell'uomo si integra con le prerogative della comunità nazionale. Questa linea è risultata vincente, perché quell'uomo è stato restituito alla sua famiglia e al suo lavoro e lo Stato ha sviluppato le sue giuste azioni, stroncando con la forza la trama di una sedizione e, con l'iniziativa della magistratura inquirente, ogni possibile ambiguità sulla posizione e sul ruolo dei brigatisti detenuti. In nome dello Stato hanno agito soltanto i poteri dello Stato e le sue articolazioni costituzionali: nessuna parte politica ha avuto attribuiti, e può provare di averli avuti, compiti e ruoli da parte del Governo e del Ministro Guardasigilli.

Se questo venisse posto in discussione, non la leggerezza di una facile intervista così facilmente strumentalizzabile e strumentalizzata, non l'opportunità di contatti con esponenti di questa o di quella parte politica, ma la sua lealtà verso le istituzioni e la Repubblica, saprebbe bene quali conseguenze trarne. Perché un'accusa di questo tipo non chiamerebbe in causa la sua permanenza al Governo soltanto, ma l'appartenenza a questo stesso consesso elettivo. Non potrebbe degnamente rappresentare al Parlamento, come fa da 23 anni, la sua fierissima terra subalpina, dove una Resistenza è nata proprio in nome dello Stato, contro la dissoluzione, l'anarchia, l'arbitrio.

Nello scusarsi con il Presidente e con il Senato per questa, se possibile, ancora più personale notazione, fa presente che essa è significativa - al termine di un mese anche per lui terribile, durante il quale è giunto a determinazioni politiche di cui assume la responsabilità per la parte che gli compete anche di fronte ai membri del Governo e del Senato - della sua emozione profonda e sincera e, al tempo stesso, della sua limpida fede nelle istituzioni e nella Repubblica. ("Vivi applausi dal centro, dal centro sinistra e dalla sinistra. Molte congratulazioni").

(segue al testo n. 1819)

 
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