di Angiolo BandinelliSOMMARIO. Nella società contemporanea, che è società dell"'informazione di massa", "la persona viene a trovarsi nel punto di intersezione di una molteplicità di messaggi". Potremmo anzi dire che la persona "viene a costituirsi" in quello e per quello che di lei si dice; così, "quanto più l'individuo appartiene alla sfera pubblica tanto più si accentua la sua dipendenza" dall'informazione. Per questo "la responsabilità dell'operatore (dell'informazione) diventa estremamente importante e delicata, ed è compito primario e urgente della società porre in essere adeguate forme di controllo del suo operare": "occorre che a ciascuno dei partecipanti al gioco venga garantito il massimo di rapporto con la propria identità".
(ESISTE ANCORA IL REATO DI DIFFAMAZIONE?, Ediz. di Informazione e diritto, Centro iniziativa giuridica Piero Calamandrei, maggio 1981 - Ripubblicato in "IL RADICALE IMPUNITO - Diritti civili, Nonviolenza, Europa", Stampa Alternativa, 1990)
Il passaggio da una cultura, da una società dell'assoluto e dell"'oggettivo" ad una del relativo e del "convenzionale" non è facile. Si tende a sfuggire al "relativo" come da malattia appestante e mortale: l'uomo è inaffidabile, la regola è o truffaldina o labile compromesso; comunque, sempre, punto di equilibrio instabile e mobile nel quale reciprocamente si annullano le forze che formano il vero tessuto del conflitto sociale, la sua realtà, rispetto alla quale tutto il resto è sovrastruttura che non conta. Non è un caso che l'interesse maggiore della politologia corrente è rivolto alla analisi minuziosa delle strutture del potere e al loro reciproco rapporto strutturale/contrattualistico; un interesse nel quale traspare, nemmeno velata, l'ammirazione per la forza e per chi comunque vince, mentre è quasi inesistente la capacità (e la volontà) di distacco etico e di giudizio critico. La cultura politica si esaurisce quasi completamente in questo ambito, in un percorso tutto interno alla "autonomia" del Polit
ico. "Il popolo, la democrazia - dice il vecchio e saggio mafioso del romanzo di Sciascia - sono belle invenzioni: cose inventate a tavolino, da gente che sa mettere una parola in culo all'altra e tutte le parole nel culo dell'umanità...''(1). Il mafioso siciliano diffida della parola che della sua mobilità può fare solo commercio, per essere venduta e comprata. La parola, il parlare, non è "dialogo"; è tradimento, che deve essere punito col sasso in bocca. Davvero, anche qui, la Sicilia è metafora del paese intero; la legge mafiosa è paradigma della condizione di una società che del dialogo fa uso o strumentale o corrivo, privo di dignità e senza rispetto di regole e procedure: perché il dialogo è, appunto, il ''relativo''.
Nella società contemporanea, la società dell'informazione di massa, la persona viene a trovarsi nel punto di intersezione di una molteplicità di messaggi e di valutazioni. Abbiamo detto "viene a trovarsi", ma anche questa espressione è forse residuo di una cultura dell'oggettività: avremmo dovuto dire, con maggiore proprietà, "viene a costituirsi". La persona è, oggi come non mai, ciò che di essa si dice (non dimentichiamo che "persona" in latino significa "maschera", maschera teatrale). L'individuo è immerso nell'universo della comunicazione, nel quale si frantuma la certezza aprioristica del suo esistere indipendente e autosufficiente rispetto al contesto sociale e alla sua dinamicità. Secondo un filosofo (2) che oggi va per la maggiore, "l'essere, che può venir compreso, è il linguaggio". E ovviamente, quanto più l'individuo appartiene alla sfera pubblica tanto più si accentua la sua dipendenza. L'informazione è affamata morbosamente di "persone", ne crea e ne distrugge in quantità crescenti, con una enor
me potenza costitutiva ma anche con una labilità impressionante e preoccupante. L'esserci è l'essere sociale, il "residuo" tende verso lo zero, come viene rivelato anche dallo spostamento semantico subìto dal termine "personalità"; il tema fisso e morboso nell'emulazione sociale è infatti quello dell"'essere", non l"'avere", una personalità. E non solo in politica, cioè nell'agire che si assimila sempre più allo spettacolo (il politico è per definizione "uomo pubblico"), ma nell'intero costituirsi dei valori e delle strutture normative delle società, che si svolge anche esso al livello del rappresentare/essere rappresentati.
La persona, in definitiva, viene a collocarsi come punto medio di passaggio del percorso "fama-diffamazione", poli di un discorso continuo, rifratto da quella infinità di specchi nei quali si costituisce l'informazione dei mass-media. Tutto questo può piacere o meno, e sicuramente solleva questioni filosofiche di qualche rilievo. Sul piano metodologico, tuttavia, la questione è abbastanza semplice. Se questa è la struttura del rapporto tra persona e informazione, la responsabilità dell'operatore dell'informazione diventa estremamente importante e delicata, ed è compito primario e urgente della società porre in essere adeguate forme di controllo del suo operare. Non si può, nel confronto sociale e politico, lasciare priva di regole chiare di funzionamento quella che è l'arma (e insieme la posta) centrale dello scontro, a ogni livello. Occorre fare in modo che a ciascuno dei partecipanti al gioco venga garantito il massimo di rapporto con la propria identità; che è null'altro che il crescere su se stessa e svi
lupparsi dell'esperienza storica nella quale e con la quale l'individuo si è formato o si è (o è stato) definito e "riconosciuto" ("riconoscere" è "conoscere di nuovo"). Non si può lasciare all'arbitrio delle forze a confronto il limite discriminante tra fama e diffamazione .
Ma sarebbe persino sbagliato insistere prioritariamente sul diritto del singolo, della persona, all"'identità", alla informazione e alla correttezza del circuito "fama/diffamazione". Il vero destinatario della questione e della sua corretta soluzione è la società, lo Stato. Una informazione gestita al di fuori di regole certe, capace per ciò stesso di determinare in modi distorti o incerti i processi di identificazione e di costituzione dell'identità e quindi gli stessi rapporti interpersonali, diventa un elemento pericoloso, portatore di eversione e di crisi, strumento di sopraffazione alla mercé della prima banda di corsa che se ne impossessi.
NOTE
1) Leonardo Sciascia: "A ciascuno il suo", Einaudi, 1966.
2) Hans George Gadamer: "La ragione nell'età della scienza", il Melangolo, 1982.